Se lo chiedete a Jack Latham, Dream A Garden, il suo nuovo album sotto lo pseudonimo Jam City, è prettamente politico. Non si tratta solo di mettere due toppe dei CrAss sulla giacca per fare il fichetto, ma di raccontare com’è vivere e amare in una società schacciata dll’impossbilità per gli individui di mantenere il controllo sulle proprie vite, da una parte a causa di una pressione economica devastante, dall’altra per una politica che fa del controllo sociale la sua unica cifra. Questa è Londra, questa è la vita di chi nasce e cresce nei suoi quartieri. Né il messaggio, né il linguaggio di Jam City sono tanto radicali quanto quelli dell’anarchopunk di cui si è rattoppato, e nemmeno il suo atteggiamento nei confronti dell’industria musicale è altrettanto audace. Sicuramente, però, il fine è assolutamente lo stesso: quello di ritrovare e rivendicare l’umanità in un corpo sociale malato, infettato delle forme virali del potere e del capitale, la cui onnipresenza è oramai esplicita anche nel tempo “libero” e nell’entusiasmo. Dato che Jack ha portato il suo live set al private party di Club To Club venerdì 10 aprile, ho pensato fosse il caso di parlare un po’ con lui di politica, per capire come possano radicalismo e opposizione trovare posto in un’anima intrinsecamente pop.
In che modo il nuovo disco è politico, e come si lega al posto dove vivi, alla tua comunità e al tuo quartiere?
Ho composto questo disco a Londra, e come in ogni altro posto del mondo Londra sta subendo un processo di gentrification e si sta arrendendo al capitale, e questa totale privatizzazione degli spazi pubblici ha ispirato le atmosfere del disco e i testi. È tutto legato all’aspetto emozionale, alla componente psicologica dell’effetto causato da questi cambiamenti sociali e ambientali, a come ti senti tutti i giorni in un ambiente completamente colonizzato.
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Cosa pensi si stia perdendo a causa di tutto questo?
Anzitutto la possibilità di muoversi liberamente senza la prospettiva di dovere necessariamente consumare. Allo stesso tempo si perde anche la storia: a Peckham, dove vivevo fino a poco tempo fa, c’era una lunga storia legata all’immigrazione dai paesi africani e caraibici, e a come la gente che veniva da lì ha contribuito alla cultura del luogo. Queste storie non vengono più onorate e nemmeno raccontate. Poi ci sono luoghi come quello in cui sono cresciuto, i sobborghi e le cittadine appena fuori Londra… Parte del disco è ispirato ai luoghi che sono appena fuori dalla mappa della città, in cui si riversano tutti gli aspetti più banali del capitale, incarnati dalla vita noiosa e ripetitiva e da paesaggi tipo uno squallido parcheggio deserto in mezzo al nulla. Ma credo che quei luoghi abbiano ancora un potenziale, un’energia che potrà permettere che nasca qualche elemento di rottura da quelle parti.
È per questo che l’album è così malinconico? Ad ascoltarlo mi è sembrato che volessi sia descrivere la tristezza di quei luoghi che descrivere la ricerca di una dimensione umana con cui contrastare tutto questo: amicizie, amore, rispetto…
Sì. È l’unico orizzonte che abbiamo per ricominciare a orientarci: l’amore, l’amicizia e tutte le possibilità radicali che offrono. Innamorarti ti porta a vedere le cose e gli spazi in maniera nuova, attraverso una sensazione quasi di ipnosi e confusione. La città ti si apre davanti e rivela molte nuove dimensioni e possibilità. Io credo che abbiamo bisogno di recuperare il più quella sensazione perché la realtà non ci permette più di percepirla. Credo che il disco parli un po’ di questo e un po’ della tristezza derivata dall’idea che non potrai continuare a provare questo genere di sentimenti.
E quale pensi sia invece il ruolo dei club in tutto questo? Sono vittime della gentrification o ne fanno parte?
Quando ho iniziato ad andare nei club fu disorientante, mi si aprì davvero un nuovo mondo. Erano luoghi in cui potevi sentirti socialmente libero di essere “strano”. Il Plastic People, per esempio, era un posto dove potevi andare e sentirti completamente libero, annullare te stesso nella musica. Ma credo che gradualmente, con l’aumentare dei soldi che girano nel mondo del clubbing, e parallelamente con la necessità di fare soldi… Tipo, ecco, i proprietari immobiliari che pressano per guadagnare “ok, nel nostro palazzo c’è un club storico, ma potremmo guadagnare di più da un condominio di lusso”… Siano cambiate molte cose. Sono entrati anche tutta una serie di misure di sicurezza nei club che non ti fanno più sentire a posto, tranquillo… Non puoi più astrarti dalla realtà, sei in uno stato di polizia, intrappolato, controllato. L’urgenza di uscire dalla realtà ed essere immerso nella musica ballando sono importantissime per la nostra salute mentale, ma sono sotto attacco per questioni di soldi. E non si tratta solo del clubbing, ma di qualsiasi posto in cui ci si possa astrarre dalla dimensione quotidiana del lavoro e del comprare. Si perde la possibilità di creare nuova arte, nuova cultura…. Ma anche nuove amicizie!
Torna sempre tutto ai soldi, quando c’è pressione economica nei confronti di un’area si generano dei casini. È sicuramente un problema estremamente complesso, e i cambiamenti nel mondo del clubbing in qualche modo mi aiuta a comprenderlo meglio. Mi aiuta a comprendere, be’…. Il capitalismo… hehe.
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Ma senti, non pensi che l’abitudine a fare clubbing nel fine settimana, anche in maniera sana e libera dai problemi di cui abbiamo parlato, sia in qualche modo responsabile della creazione di una routine? Voglio dire, il tempo libero presuppone che esista un tempo occupato…
Sì, è vero, ma non è colpa del clubbing, è colpa del capitalismo! Hehe… Preferirei fare festa tutta la settimana e non lavorare…. Hehe. Il punto è che siamo così a corto di vere interazioni umane e di esperienze trascendentali, psichedeliche, che abbiamo bisogno di riempire il weekend di tutto questo. Non essere mai in grado di fuggire dal lavoro ci mette in queste condizioni, è impossibile scrollarsi di dosso le aspettative che la società ti mette addosso, anche perché siamo costantemente raggiungibili. L’altro giorno mia sorella mi diceva che non è in grado di staccarsi dal lavoro nemmeno la sera quando è a casa, perché riceve costantemente mail di lavoro fino a notte. Se lavori ventiquattro ore al giorno quando mai potrai trovare tempo per tutto quanto altro c’è di importante nella vita?
Ma di esperienze di autogestione del clubbing, legate magari ai movimenti di protesta e alle occupazioni di spazi che ne pensi? Faresti mai cose del genere? Qui in Italia fino a dieci anni fa era qualcosa di estremamente sentito.
Non sono molto bravo a organizzare le cose…
No, intendevo dire se ti interesserebbe partecipare come artista.
Oh sì, assolutamente, mi è sempre piaciuto suonare o mettere dischi in luoghi interessanti. L’energia è del tutto diversa quando ti trovi in un luogo leggermente più anarchico rispetto al classico club da “questa è la setlist, si suona fino alle cinque e poi tutti fuori”. In realtà non mi ci sono mai davvero trovato, non sono cresciuto frequentando luoghi del genere, però è un sogno legato all’urgenza di liberarmi dall’oppressione generata dalla colonizzazione totale delle nostre vite. Credo che nei prossimi anni sarà sempre più importante muoversi su recupero degli spazi, e non solo nella maniera in cui si faceva un tempo con le warehouse. Per esempio a Londra ci sono decine di appartamenti di lusso sfitti, per cui, chissà, potrebbe nascerci una nuova scena rave illegale….
Sarebbe una figata! In Italia ci sono ancora esperienze di occupazione che fanno un gran lavoro…
Ma sono a rischio, no?
Sì, anzi, in alcune città il movimento è stato ammazzato dalle autorità e dal qualunquismo della gente. A livello di produzione di cultura underground e sperimentazione ora si va molto cauti, perché la questione è frammentaria e costantemente sotto attacco, e chiaramente è il caso di dare più importanza al lato prettamente politico.
Be’, a Londra qualsiasi forma di movimento è stata completamente spazzata via. Ecco, ti faccio vedere una roba [mi mostra delle foto sul suo cellulare] questo è un quartiere di case popolari che si chiama Aylesbury, un complesso enorme. Lo hanno venduto e volevano demolirlo per farci appartamenti o un centro commerciale o merda del genere. Un gruppo di attivisti e artisti ha deciso di difenderlo barricandosi dentro con la collaborazione di tutta la gente che ci viveva, comprese molte persone anziane. Era casa loro. Quello che la polizia ha fatto è stato praticamente di recintarlo e fortificarlo completamente, cosicché chiunque uscisse doveva passare per un cancello da cui poi non potevano più entrare. Non era una comune squattata, ma un complesso di case popolari, ed è questa la roba che succede a Londra, è folle. Dove si può andare quando ogni singolo angolo della città è privatizzato e controllato?
Senti mai una contraddizione tra queste tue idee e il fatto che il collettivo Night Slugs / Fade To Mind, di cui sei uno dei fondatori, è molto vicino al mondo della moda?
Io non sono mai stato contattato da nessuno stilista, il che è davvero strano, considerato che mi vesto benissimo! Hehehehehe…. No, seriamente, mi piacciono un sacco i vestiti, non c’è niente di male, ma mi rendo conto che l’industria sia malata. Non credo di poter parlare in generale del rapporto che ha Night Slugs con tutto ciò, comunque.
Nel senso che ti senti distaccato dagli altri?
No no, sono i miei migliori amici, è solo che non mi sono trovato coinvolto insieme a loro in contesti vicini alla moda. È solo che mi piacciono i vestiti. Non ho niente contro chi disegna i vestiti perché sono comunque persone creative, è come nella musica, è l’industria che è decisamente piena di merda. Chiaramente disapprovo l’oggettivazione degli esseri umani e gli standard di bellezza fascisti che esistono nella moda, ma questo non implica odiare la moda, anzi, il contrario. Bisognerebbe rispondere dicendo “vaffanculo, rifiuto i vostri standard e decido di mettermi tutti questi vestiti nella maniera che mi pare.” Il lato creativo esiste, sono i grandi manifesti pubblicitari pieni di modelle, i modelli maschi che pare vogliano ammazzarti e i loro corpi irrealistici a fare davvero schifo.
Ti capisco… Questa fissa per il voler continuare ad essere creativi nel look è un’eredità punk, no…?
Sì, esatto. Sai cosa sarebbe davvero figo? I nuovi movimenti culturali nascono sempre dal basso, no? Non sono mai il mercato o le istituzioni a dargli vita, semmai li osservano per capire in che modo sfruttarli. Ecco, io penso che, se dovesse nascerne di nuovo uno, bisognerebbe avere l’autocoscienza di mandare affanculo il mercato ed evitare che venga sfruttato. Non è detto che chi si fa promotore di movimenti underground debba prima o poi per forza venire cooptato dal mercato. Al limite, si potrebbe provare a portare il proprio messaggio verso il mainstream in maniera completa. A me piace la cultura pop, solo che col tempo è diventato sempre più difficile sperimentare dentro il pop. Sono cresciuto ascoltando alla radio le produzioni di Timbaland e dei Neptunes, che rispetto a oggi era avanguardia, era pop che si spingeva in nuovi territori. Io mi aspetterei che la cultura pop fosse qualcosa di radicale e di sentirci dentro la mia voce, o la nostra voce collettiva, vorrei accendere la radio e sentire qualcosa che si batta contro l’estabilishment e le autorità. Credo ce ne sia il bisogno, ci sia bisogno di non scendere più a compromessi.
Anche la tua musica è definibile pop, comunque.
Sì, io amo il pop. Non mi interessa fare cultura alta o elitaria, mi interessa creare qualcosa che possa essere compreso da tutti. Mia madre è una fan del nuovo album, ma quello prima non le piaceva… Mi interessa mantenere la mia musica coerente, tenere l’oscurità e la sincerità, ma fare in modo che questa sia capita da me e dalla gente normale come me. Non è nemmeno musica complessa da fare, tutti possono suonarla.
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