Johannes, 20 anni, soffre di demenza da 16 e presto dimenticherà tutto

“I miei preferiti sono i Toten Hosen. Sono forti a suonare la chitarra elettrica e il basso, mi piace.” (Tratto da “Ich-Buch”, il diario che Elke Müller scrive immedesimandosi nella prospettiva di suo figlio Johannes)

Stanza 31, ala pediatrica dell’ospedale universitario di Amburgo-Eppendorf: sopra la porta è appesa una ghirlanda di uccelli di carta, e le pareti sono coperte da carta da parati ocra. Johannes Müller è steso a letto, con i capelli scarruffati, gli occhi aperti, il corpo immobile. Sua madre Elke, una donna piccola, allunga la mano verso di lui, e cerca di farlo alzare. Ma Johannes non vuole, e invece che alzarsi si porta al petto la mano di lei. Fuori dall’ospedale ci sono gli uccelli tra gli alberi e l’erba luccica di rugiada. È primavera, ma Johannes non se ne rende conto. È affetto da lipofusinosi ceroido neuronale, una rara forma di neuropatologia degenerativa nota anche come demenza infantile. Ha solo vent’anni, ma da 16 il suo cervello si sta deteriorando. Non vede, non riesce quasi a parlare. Poco a poco, sta dimenticando l’esistenza del mondo.

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Di quello che era non resta molto. Conosceva l’alfabeto già prima dell’asilo. Ha anche imparato l’inglese molto presto, a cena chiedeva così tanti vocaboli che sua madre non riusciva a mangiare finché il cibo non era ormai freddo. Sapeva anche dire “ciao” e “arrivederci” in turco e latino.

“La persona più importante della mia vita è mia mamma Elke Müller. Nel mio mondo ideale saremmo sempre insieme, ma sfortunatamente non è possibile. Mia mamma fa l’assistente tecnica all’università di Gießen.” (Tratto da “Ich-Buch”)

Ma quando ha compiuto quattro anni, la vista ha cominciato a peggiorare. Sbatteva nelle porte, teneva i libri al contrario e ogni sera sedeva un po’ più vicino alla televisione. Gli occhiali non hanno aiutato, e i dottori non sapevano che pesci pigliare. Poco dopo ha avuto un attacco epilettico. Sua madre gli stava leggendo una storia quando all’improvviso gli si sono rovesciati gli occhi. I dottori gli hanno diagnosticato un attacco legato alla febbre, anche se non aveva febbre. Perché suo figlio aveva attacchi epilettici? Perché diventava cieco? Elke stava cercando risposte a queste domande quando ha letto un articolo sulla lipofusinosi ceroido neuronale. Solo un bambino su 300.000 ne è affetto, e in tutta la Germania sono 150. Non c’è cura, ad oggi.

Per far cambiare la situazione, Elke e Johannes sono andati alla clinica universitaria di Amburgo-Eppendorf. Qui i dottori stanno indagando sulla malattia e cercando un modo di curarla.

Quando l’infermiera entra in camera, Johannes non reagisce. Lei gli parla, cerca di spingerlo ad alzarsi. Ma l’unica voce che ascolta è quella di sua madre. “Se vai adesso, poi ti do un abbraccio,” dice lei. Johannes ride, poi si gira dall’altra parte. “No.”

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Lei sapeva che avrebbe reagito così. Quando Johannes rifiuta, Elke sa a che rituale deve ricorrere: minaccia di baciarlo, poi lo tenta con un giro in metropolitana o gli chiede del posto dove lavora la sua compagna di scuola Julia. Ci sono ricordi che ancora Johannes non ha perso. Sua madre registra tutto in un quaderno: per lei, per i medici e per Johannes.

“Soprattutto durante la pubertà, quando tutto cambia, ho notato cambiamenti molto chiari. Ho notato che a causa degli attacchi epilettici non riuscivo più a concentrarmi bene; ho notato che all’improvviso non riuscivo più a fare cose che prima facevo tranquillamente; ho notato che non riuscivo più a parlare o correre bene come prima; ho notato che continuavo a dimenticarmi le cose. A volte questo mi rende rabbioso e aggressivo, perché mi dà sempre fastidio quando non riesco a fare qualcosa.” (Tratto da “Ich-Buch”)

Oggi Elke non riesce a convincere suo figlio né con la metro né con Julia. Lui non reagisce a nessuno di questi ricordi. Resta steso, ritira la mano da quella di sua madre e scalcia via l’infermiera. Urla e comincia a fare versi incomprensibili. L’infermiera e la madre non hanno alcun potere. Johannes è robusto, pesa intorno ai 90 chili. Lo alzano con il meccanismo del letto, per spostarlo nella sedia a rotelle. Lui resta lì, il corpo completamente abbandonato, le braccia sul ventre. Sotto di lui, una salvietta assorbente per l’incontinenza. Ha due cinture intorno alle gambe, e una rossa davanti al ventre. Ultimamente continua a cadere dalla sedia a rotelle.

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Johannes un tempo era contento di andare in ospedale, diceva, “Stiamo andando dagli scienziati.” Questa volta è diverso. Sei mesi fa ha avuto due attacchi epilettici di fila. Da allora dimentica tutto molto più in fretta. A questo punto non riesce quasi a comunicare, né con le parole né con i gesti. Ci vogliono anche giorni perché sua madre capisca quello che chiede. Le gambe non lo reggono più. Presto o tardi non potrà più muoversi, e alla fine anche gli organi smetteranno di funzionare. La sua è una malattia degenerativa, un po’ come quella di Benjamin Button, solo che lui non sarà mai davvero adulto. Nessuno riesce a capire quanto colga del mondo che lo circonda. L’aspettativa di vita per chi ha la sua malattia è di 20-25 anni.

“Mi piacciono le persone molto vecchie. La mia zia preferita, Goth, è arrivata a 88 anni, la mia vicina ‘Nonna Lore’ ne ha 101.” (Tratto da “Ich-Buch”)

Elke e suo figlio vivono al primo piano di un condominio di Homberg, vicino a Gießen, nella regione tedesca dell’Assia. Lei sta aspettando che lo ristrutturino per renderlo accessibile anche in sedia a rotelle, ma il comune non ha ancora approvato il progetto. Dato che la malattia di Johannes è molto rara, le richieste per un’assistenza adeguata sono più lente da evadere. Deve continuare a fare pressione. Dice, “È l’unica cosa che voglio: che vada in porto.”

La vita quotidiana di Elke è dura. Dà da mangiare al figlio, lo aiuta ad andare in bagno e dorme sul divano-letto della sua stanza. Durante la settimana si sveglia alle cinque del mattino. È solo allora che la casa è tranquilla e ha qualche momento per sé. Va in cucina, accende la radio e si fa un tè verde.

Sveglia Johannes alle sei. Le ci vogliono due ore a lavarlo, vestirlo e metterlo sulla sedia a rotelle. Il compagno di lei vive al piano di sopra. Non l’aiuta, non riesce ad accettare la malattia di Johannes.

Alle otto arriva un autista per portare Johannes al laboratorio per persone disabili nella vicina città di Marburgo. A volte, se gli va, può lavorare con le viti e i bulloni. Intanto, Elke va al lavoro. Per rilassarsi, durante il tragitto in macchina ascolta Mozart.

“Anche se mi è difficile parlare, e forse non capiresti la mia pronuncia, vorrei parlare con te. […] Purtroppo al momento non è sempre chiaro di cosa sto cercando di parlare, e a volte non lo so nemmeno io.” (Tratto da “Ich-Buch”, scritto da Johannes per sua madre)

Elke spinge la carrozzina sul sentiero dissestato del Centro cardiologico di Amburgo, dove i dottori vogliono esaminare Johannes. Quando accelera, lui ride. Forse pensa alle metropolitane. Forse a Julia. Elke scoppia a sua volta a ridere. Ha imparato ad apprezzare le piccole cose. “Siamo probabilmente molto più in sintonia così che se lui fosse in salute,” dice.

Il risultato delle analisi non è ancora pronto, ma Elke pensa che il cuore di lui batta più lento del normale. Questo spiegherebbe il cattivo umore del mattino e perché stia dormendo così tanto.

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Il giorno prima ha messo su un disco dei Toten Hosen. All’improvviso Johannes si mette a sedere. Alza le mani, comincia a strofinare le dita e reclina indietro la testa. È così che fa quando è felice.

Quando era più piccolo, gli piaceva alzare tantissimo la musica in macchina per dare fastidio ai passanti. Era la sua pubertà. Da allora si è dimenticato di un sacco di cose, degli uccelli sugli alberi, della rugiada sull’erba. Ma ancora ricorda i Toten Hosen. Ascolta attento quando cantano: “Seguire la strada, che porta a domani. Nello specchietto vedi tutti gli anni che ti sei lasciato alle spalle.” In momenti come questo Johannes riesce a vedere nello specchietto retrovisore. Ed Elke può dimenticare tutto per qualche istante.

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