La storia di Bologna è la storia dell’hip-hop italiano. A partire dagli anni Ottanta, è la città che maggiormente ha dato la sua impronta estetica al nostro rap, nato e cresciuto in alcuni centri sociali storici come Isola nel Kantiere—e quindi immerso in un’atmosfera fortemente politica.
Negli ultimi anni, però, giovani artisti come DrefGold e Tredici Pietro sono stati in grado di portare sotto le Due Torri un nuovo modo di fare rap, figlio della trap statunitense e totalmente slegato dall’immaginario dei gruppi storici.
Videos by VICE
È sicuramente traumatico, per chi a quei riferimenti è molto legato, rendersi conto che ci sono persone cresciute ascoltando i Migos prima dei Sangue Misto, con lo sguardo rivolto oltreoceano più che ai mostri sacri della città in cui sono nati. Uno di questi artisti è Lil Busso, che da quando ha pubblicato “1€/Secondo” insieme a Tredici Pietro ha iniziato a farsi notare su YouTube.
I suoi pezzi sono leggeri e zuccherosi come caramelline colorate, e li produce Mr. Monkey, uno dei fautori della rinascita musicale della città. Ci è sembrato quindi interessante provare a parlare con Busso—che ha vent’anni e si chiama Nicola—per capire un po’ da dove è venuto, che rapporto ha con la sua città e per affrontare alcune tematiche della conversazione sulla trap di oggi.
Noisey: Partiamo dall’inizio: come sei entrato in Thaurus?
Lil Busso: A Thaurus ci sono arrivato tramite Tredici Pietro, insieme a lui che ha iniziato a lavorarci con “Pizza e Fichi”. Quando poi abbiamo parlato del progetto c’era anche la mia roba, loro l’hanno sentita e abbiamo iniziato a lavorarci un po’ e per ora sono ancora con loro.
E sei cresciuto a Bologna?
Sì, io vivo a Bologna ma vengo molto spesso a Milano. Bologna è una città un po’ chiusa, ci sono sempre le stesse persone, mentre Milano adesso per la musica è un punto di riferimento, c’è un’apertura mentale diversa.
Dici anche musicalmente? Rispetto all’hip-hop Bologna è una città con una storia enorme.
Secondo me sì, penso che la Milano di adesso sia la Bologna di venti, venticinque anni fa. Anche se c’è ancora un legame molto forte con l’hip-hop, rispetto a Milano musicalmente è rimasta un po’ indietro. Sulla trap per esempio, la roba nuova che sta uscendo negli ultimi anni sono un po’ diffidenti, anche se per certi versi adesso vedo che la situazione sta cambiando, qualcosa inizia a muoversi. DrefGold è stato fondamentale, ci ha fatto vedere che delle cose nuove potevamo farle anche noi e ci ha aperto le porte. Anche con lui però, che tecnicamente è fortissimo, inizialmente erano un po’ reticenti, perché ha un immaginario diverso da quello storico, politicizzato dell’hip-hop anni Novanta. Tant’è che lui da subito si è spostato a Milano. Ora però sono ci devono supportare per forza, che gli piaccia o meno, perché siamo noi che rappresentiamo la città. Siamo la nuova verità di Bolo.
La questione della politica mi interessa, perché appunto tu vieni da una città che ha un certo tipo di storia che si è espressa tantissimo nell’hip-hop. Nella tua musica invece questo discorso politico, sociale, è completamente tagliato fuori e mi chiedevo come mai.
Sì, la mia musica non è per niente politicizzata, è una scelta consapevole. Non mi piace la politica—non voglio dire che non m’interessa: dire che non t’interessa la politica forse è peggio che interessarsi e votare per la destra, per Salvini, però non mi interessa parlarne nelle canzoni. Su certi temi magari io non so nemmeno precisamente che cosa sta succedendo, metti che dici una cazzata… E poi non è quello che cerco io, la musica per me è una cosa di presa bene.
“Sembra quasi una bestemmia ma il primo disco hip-hop che ho ascoltato nella mia vita è stato il primo album dei Migos.”
E come ti ci sei avvicinato, come hai iniziato a rappare?
Io ho iniziato nel 2016, durante l’anno all’estero alle superiori che ho passato a Los Angeles. Prima di andare lì il mio ascoltare musica era far partire la Top 50 di Spotify e basta, mentre negli Stati Uniti ho scoperto la trap e mi sono ascoltato i vari Lil Yachty, Lil Uzi Vert, Quavo… Sembra quasi una bestemmia ma il primo disco hip-hop che ho ascoltato nella mia vita è stato il primo album dei Migos.
E le cose old school della tua città non ti sentivi nulla? I Sangue Misto per esempio.
Zero, non li conoscevo. Anche adesso in realtà, so chi sono ma non è la roba che ascolto io, ho altre sonorità nella testa. Musicalmente io sono cresciuto negli Stati Uniti, ho iniziato lì a fare i freestyle in un misto di italiano e inglese. Già quando ero lì ho pubblicato la mia prima traccia su Spotify, poi sono tornato a Bologna e mi ha scritto Mr. Monkey. Mi ha detto tipo: “Sei forte ma i tuoi beat fanno cagare, passa in studio da me che combiniamo qualcosa di serio”. Poi tramite lui ho conosciuto Pietro.
Non vi conoscevate già?
Di vista sì. C’è un aneddoto che fa ridere: per un periodo quando andavo al liceo frequentavo una ragazza ma entrambi vedevamo anche altre persone. Un giorno le ho chiesto—ero curioso—chi fossero gli altri con cui usciva, oltre a me. Lei mi ha risposto “Lo conosci tu Pietro Morandi?” e io “Ma come, ma il figlio di Gianni?!”. Anni dopo poi ci siamo conosciuti di persona, in studio. Io avevo appena iniziato a lavorare con Monkey, mentre lui rappava già da anni e cercava un produttore nuovo.
Ho notato che su YouTube nei commenti a “1 euro/Secondo” che avete fatto insieme ci sono parecchi “Bella per l’amico del figlio di Gianni Morandi”. È una gag che ti pesa, come la prendi?
Ma sì, sono due o tre commenti fatti per fare i like, è divertente! Figurati se dovrei prendermi male, anche io ho un mio gruppo di fan. Alla fine questo discorso del figlio di Gianni dà solo più risalto alle cose che facciamo, per noi è positivo. Io e Pietro siamo amici e ci vogliamo bene, ma io faccio la mia strada.
“Alla fine questo discorso del figlio di Gianni dà solo più risalto alle cose che facciamo, per noi è positivo. Io e Pietro siamo amici e ci vogliamo bene, ma io faccio la mia strada.”
E qual è?
Inizia adesso, col mio primo disco. Si chiama Ipermetromondo, è il mio modo di presentarmi alla scena. è un disco molto vario, ci ho lavorato insieme a Monkey e dentro ci sono dei pezzi fortissimi anche dei bei feat. Oltre ovviamente a quello con Pietro, ho voluto fare un pezzo solo con Kaneki in cui rappa e spacca di brutto. Ci tenevo che fosse un disco personale, in cui si capisse veramente come sono io, in tutti i miei mood, da quello romantico a quello più bossy. Sono molto gasato.
Siamo in periodo sanremese e come sempre il giornalismo italiano ha dato il meglio di sé con le critiche alla trap, che è diseducativa e non ha contenuti. Tu cosa ne pensi?
Io faccio il lato più “attaccabile” della trap, quello più preso bene ma anche più leggero, divertente. Io penso che il giornalismo italiano oggi non sia ancora in grado di interpretare questa arte, se ne parla in modo vecchio, per i vecchi. Se pensi al prete che dice in televisione che Sfera Ebbasta ha testi satanici… Cos’hai in testa per arrivare a dire una roba del genere? È un perbenismo tutto italiano. Secondo me l’arte deve poter parlare di qualsiasi cosa, l’importante è farlo in modo originale.
Visto che siamo entrati nell’argomento, vorrei farti una domanda che forse è un po’ scomoda: c’è un tuo pezzo, “Nada”, in cui usi la parola “puttana”. Non pensi che sia un termine criticabile?
Io nel pezzo me la prendo con tutti i comportamenti cliché dei ragazzini di oggi, che escono di casa solo per fumare, vanno nei locali solo per trovare una ragazza da portarsi a casa… L’atteggiamento di cui parlo è quello di una ragazza che ci prova con tutti ma poi dice che non ci sta perché è fidanzata, è un po’ crudo ma alla fine come altro lo puoi dire… Mi rendo conto che sia un termine brutto. L’ho fatto un po’ per provocare.
Eh, ha delle connotazioni abbastanza brutte.
Però è una situazione che può capitare, come magari c’è uno un po’ disperato che ci prova con tante giusto per trovare una con cui andare a letto.
Io ho 600k visualizzazioni su YouTube ma non posso pensare di fare un live con mille persone. L’obiettivo deve essere quello.
Una cosa che ci chiedevamo è com’è essere un esordiente adesso, in Italia. Capita magari, è anche il tuo caso, che non sia ancora uscito un disco e che un artista abbia già migliaia di follower sui social, un sacco di visualizzazioni…
Sicuramente è un modo abbastanza atipico di essere un esordiente, magari prima, anche solo sei o sette anni fa, entrare in etichetta era una garanzia, un punto d’arrivo. Adesso avere il supporto di un’etichetta ti serve per partire, non puoi aspettarti che dopo aver firmato si preoccupino di tutto loro, devi avere delle idee, un progetto. Per me i numeri non valgono niente, quello che conta è che ai tuoi live ci sia la gente sotto al palco. Io ho 600k visualizzazioni su YouTube ma non posso pensare di fare un live con mille persone. L’obiettivo deve essere quello.
Martina è su Instagram.
Segui Noisey su Instagram e su Facebook.