Mia figlia è morta dopo quattro giorni in carcere

Quando ho scoperto che mia figlia, 18 anni, era stata arrestata per possesso di eroina, è stato un incubo. Ma, ho pensato allora, potrebbe anche essere una cosa positiva. Potrebbero aiutarla.

Invece, quattro giorni di carcere si sono trasformati in una condanna a morte.

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Tori era una disegnatrice di talento, e la migliore oratrice che avessi mai sentito. Ma quando ha cominciato a fare uso di droga, non le ci è voluto molto per perdersi. Durante l’ultimo anno di liceo era diventata stranamente emotiva. Piangeva sempre.

Alla fine, non ce l’ho più fatta e ho letto il suo diario. È così che ho scoperto dell’eroina, e che aveva cominciato a passare molto tempo con un ragazzo che si drogava.

Perciò le ho tolto alcune cose. Il telefono. Non la facevo uscire, né usare internet. Ho cercato di metterla all’angolo. Ma ovviamente c’erano dei limiti a quello che potevo fare. Andava a scuola, non potevo controllare tutto quello che faceva.

Circa un anno dopo che ho scoperto che si drogava, degli agenti dell’antidroga si sono messi in contatto con me e mio marito. Ci hanno chiesto dove vivesse il fidanzato di mia figlia, che aveva una condanna pendente per non essersi presentato a un’udienza.

A quel punto ho cominciato a pensare, Forse se arrestano il suo ragazzo, Tori riceverà finalmente aiuto. Sapevo che c’era la possibilità che anche lei venisse arrestata—e sarebbe stato il suo primo scontro con la legge. Ma forse il carcere le avrebbe fatto bene—sarebbe stata al sicuro, la sua salute sarebbe migliorata. Mio marito e io abbiamo dato agli agenti l’indirizzo dell’appartamento che Tori e il suo ragazzo condividevano da qualche giorno.

Due giorni dopo, il 27 marzo 2015, Tori è stata arrestata. Ho immediatamente cercato di chiamare chiunque—gli agenti che mi avevano contattato, quello che l’aveva arrestata, il carcere. Mi sentivo di aver tradito mia figlia.

Sono andata a casa sua per svuotarla, pensando che quando sarebbe stata rilasciata avrebbe potuto cominciare da zero insieme a noi. Ho anche ridipinto camera sua, ho disegnato un sole sul soffitto.

Ma lei non l’ha mai visto.

Quando mi ha chiamato dal carcere un paio di giorni dopo, Tori sembrava delirante; era difficile capire cosa stesse dicendo. Diceva che vedeva la gente intorno a lei morire e che anche lei sarebbe morta. Mi ha chiesto di metterle dei soldi sul conto perché potesse comprare della limonata, che non beveva mai.

Mio marito e io abbiamo cercato di andare a trovarla, ma ci hanno detto che era in quarantena. Abbiamo chiesto al poliziotto all’ingresso di chiamare qualcuno per fare un check. Dopo una telefonata, ci ha detto che stava bene. Ci siamo sentiti sollevati e ce ne siamo andati.

Quella notte, ho spento il telefono pensando che Tori fosse finalmente al sicuro, circondata da medici. Ricordo di aver sentito un’ambulanza passare per strada e di aver pensato che io, ora, non dovevo più preoccuparmi.

Mi sono svegliata alla voce della segreteria telefonica: il poliziotto con cui avevamo parlato in carcere ci diceva di richiamarlo. Nient’altro. Ho fatto molte chiamate, nel panico, per scoprire cosa fosse successo; alla fine mi hanno detto che era stata portata d’urgenza in un ospedale a un’ora di distanza—in elicottero.

Quando sono arrivata nella stanza d’ospedale di Tori, ho lasciato cadere la borsa e sono corsa al suo fianco. La mia bambina era attaccata a qualunque tipo di macchina. Aveva tubi in bocca, elettrodi in testa. La pelle pallidissima. Gli occhi leggermente aperti, ma vuoti.

Quattro giorni dopo, poiché non c’era alcuna speranza di miglioramento, abbiamo fatto l’unica cosa possibile: l’abbiamo staccata dalle macchine. È morta la domenica di Pasqua.

Meno di 48 ore prima di ritrovarla in quell’ospedale, in carcere mi avevano detto che stava bene. Ma, a quanto poi mi hanno detto le sue compagne di cella, non era vero. Stava malissimo a causa dell’astinenza dall’eroina, e sarebbe bastato un altro giorno perché collassasse definitivamente. Non riusciva a mandare giù nemmeno i liquidi e aveva perso molto peso; aveva allucinazioni ed era confusa; era così debole da non riuscire nemmeno a stare seduta, tantomeno in piedi. Le uniche persone a cui importava di lei, ho scoperto in seguito, erano le sue compagne, che avevano ripetuto più volte allo staff che aveva bisogno di essere portata in ospedale.

Non ho ancora avuto risposte per tutto quello che è successo a Tori [il vicedirettore del carcere di Lebanon County non ha voluto commentare]. Ma so che poco dopo essere stata visitata dallo staff medico del carcere, era svenuta, aveva smesso di respirare ed era andata in arresto cardiaco. Finalmente l’avevano portata in ospedale, ma era troppo tardi: era in stato vegetativo.

Non so se qualcuno, in carcere, possa essere ritenuto responsabile della sua morte. Ma so che sulla pagina Facebook dedicata a Tori, uno dei secondini che aveva parlato con lei al momento dell’ammissione in carcere ha scritto:

“Non capisco perché la gente voglia che i contribuenti paghino la rota per i drogati in carcere… Quello che dico è, allora si disintossichino nel modo ‘duro’ e spendiamo i soldi su chi lo può apprezzare!!!!! Se sei un criminale, ti meriti il carcere!!!!”

Mia figlia aveva bisogno di cure. Avrebbe dovuto essere tenuta al sicuro. Meritava compassione.

Meritava di meglio.

Stephanie Moyer è una graphic designer di Lebanon, in Pennsylvania. L’11 luglio di quest’anno ha aperto una causa contro la Lebanon County e il personale penitenziario e medico del Lebanon County Correctional Facility, per omissione di soccorso e violazione dei diritti civili.

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