Cibo

Perché questo tipo di agricoltura salverà il mondo

Miscuglio evolutivo cosa è

Nel grande chiacchiericcio sul cibo che accompagna ogni giorno noi fortunati abitanti del primo mondo, c’è una parola che si sta ritagliando la sua fetta di celebrità, soprattutto se parliamo di pane e di pasta: miscuglio evolutivo. Il suono così evocativo potrebbe distrarci, ma si tratta di una tecnica con le potenzialità per rivoluzionare l’agricoltura a livello globale. Siccome la FAO ha deciso che oggi è la Giornata Mondiale del Cibo, mi pare proprio una buona occasione per chiarire di che si tratta e magari sottrarre in tempo questo “miscuglio” dal tritacarne commerciale che ciclicamente rende una parola di moda e poi ce la restituisce esausta. Vedi “grani antichi” e il correlato “lievito madre”.

A farmi da guida alla scoperta del miscuglio c’è Riccardo Bocci, agronomo e direttore tecnico della Rete Semi Rurali. Riccardo non è un esperto a caso: è una delle persone che hanno iniziato a fare ricerca in questo campo in Italia e da allora non ha mai smesso.

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Miscuglio Evolutivo significa avere in campo non una varietà uniforme (solo grano Maiorca, o solo grano Timilia), ma un insieme di piante geneticamente diverse tra loro

Il primo progetto europeo sul miscuglio evolutivo (o popolazione evolutiva, sono sinonimi) risale al 2010, quando Salvatore Ceccarelli – noto agronomo sempre citato quando si parla di questo argomento –, ha inviato a Riccardo le popolazioni di semi che stava sperimentando in Siria. Da allora la Rete Semi Rurali ha partecipato a varie sperimentazioni a fianco degli agricoltori e fatto advocacy nelle istituzioni europee. Insomma non la sto sparando grossa a dirvi che se oggi dal vostro fornaio di fiducia trovate un pane fatto con un miscuglio evolutivo è grazie al loro lavoro.

Ma dirò di più: in forza della ricerca fatta dalla Rete Semi Rurali, pare che l’Italia, per una volta, sia all’avanguardia su qualcosa, rispetto a tutti gli altri paesi europei, e questa cosa è il miscuglio.

MUNCHIES: Partiamo da una definizione. Dimmi cosa significa coltivare un miscuglio evolutivo?

Riccardo Bocci: Significa avere in campo non una varietà uniforme (solo grano Maiorca, o solo grano Timilia), ma un insieme di piante geneticamente diverse tra loro. Il principio è proprio l’opposto di quello su cui si basano le varietà moderne, quelle che trovi in commercio, che devono essere distinte, uniformi e stabili: parametri che le rendono facili da gestire nel sistema agro-industriale.

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Perché è così importante avere diversità genetica in campo?

Più diversità ho in campo, maggiore sarà la capacità delle piante di rispondere alle malattie, alla variabilità delle annate, ai cambiamenti climatici. La diversità permette all’agricoltore di gestire meglio il rischio. E su scala globale, permette di contrastare l’ erosione genetica, quel fenomeno che sta rendendo l’agricoltura sempre più omogenea: coltiviamo sempre meno specie – frumento, riso e mais in primis, che non sono nemmeno le più nutrienti. Per far capire quanto è rischioso, di solito faccio un paragone con la finanza: se ho dei soldi e voglio investirli, il buon senso mi porta sempre a diversificare l’investimento il più possibile. In agricoltura è come se stessimo scommettendo tutti i nostri soldi su pochissimi tipi di titoli.

Uno dei problemi all’origine delle intolleranze è proprio che tendiamo a mangiare cose tutte uguali, uniformi anche nella struttura genetica.

Perché il miscuglio riguarda tutti noi e non solo gli agricoltori?

Perché pare che “mangiare diversità” faccia anche bene all’intestino. Su questo non abbiamo ancora prove scientifiche, abbiamo solo l’osservazione empirica di chi ha iniziato a mangiare i prodotti fatti con questi cereali. Se ci pensi il principio è abbastanza intuitivo: la diversità si ripercuote anche a livello di molecole, quindi ad esempio non avrò solo una molecola di glutine, ma tante diverse. E uno dei problemi all’origine delle intolleranze è proprio che tendiamo a mangiare cose tutte uguali, uniformi anche nella struttura genetica.

Quando parliamo di miscuglio o popolazione evolutiva, stiamo parlando solo di cereali?

No, riguarda tutti i semi. Solo che finora la sperimentazione si è concentrata sui cereali anche perché sono i più facili da gestire. Nella primavera 2018 abbiamo iniziato una sperimentazione sui pomodori, a partire da una popolazione creata da un ricercatore francese e coinvolgendo quattro aziende biologiche di quattro diverse regioni (Basilicata, Molise, Emilia Romagna e Veneto).

Come cambia il mestiere di un agricoltore che lavora coi miscugli?

La cosa principale è che si rende indipendente dalle ditte sementiere. Mi spiego: l’attuale modello di ricerca agricola funziona che un agricoltore ha un problema, allora arriva la ditta sementiera o l’università a vedere il problema, studia la soluzione – magari per anni – e torna portando all’agricoltore una varietà nuova pensata per ovviare a quello specifico problema. Con il miscuglio è l’agricoltore stesso che osserva la sua popolazione nel tempo, seleziona i semi che meglio si adattano al suo contesto (di clima, di suolo, di acqua, di malattie) e fa evolvere la popolazione in questo senso, ecco perché lo chiamiamo miscuglio evolutivo.

Il rischio di diventare di moda è che si creino le derive commerciali che abbiamo già visto ad esempio con il Kamut

Ma serve molto tempo perché si abbiano risultati tangibili?

No, e voglio sottolinearlo perché è una critica che ci rivolgono spesso, sostenendo che per lasciare adattare queste popolazioni ci vogliano 50 anni. Ma non è vero, e tutto il nostro lavoro sul campo dimostra scientificamente che i risultati si ottengono già dopo 4-5 anni, tempi più rapidi rispetto a quelli della ricerca diciamo “istituzionale” e senza che l’agricoltore abbia bisogno di comprare semi o prodotti chimici, o semplicemente aspettare che qualcun altro risolva i problemi al posto suo.

Quindi il sistema agro-industriale ha molto da perdere se il miscuglio viene applicato su larga scala?

Diciamo che tutto il settore delle ditte sementiere dovrebbe ripensare da capo il proprio modello.

Al momento però stiamo parlando di una nicchia della nicchia?

Sì. Però sentiamo un forte interesse da parte del grande pubblico, trainato anche dalla stampa, e confesso che ne siamo un po’ preoccupati. Il rischio di diventare di moda è che si creino le derive commerciali che abbiamo già visto ad esempio con il Kamut. Il Kamut è un frumento simile al grano duro, di cui in Italia abbiamo moltissime tipologie. Però nessuno le coltiva perché il consumatore vuole solo Kamut, e Kamut è un marchio registrato posseduto da una società americana: se vuoi stare nella filiera Kamut devi accordarti con questa azienda. Un controsenso assoluto.

Negli ultimi anni un simile interesse del pubblico è stato rivolto ai grani antichi. Già che ci siamo, possiamo fare un po’ di chiarezza anche su questi?

Grani antichi è un termine spesso usato in modo confuso per mettere insieme cose diverse: le varietà locali cioè le varietà che si sono adattate in campo nel corso della storia, attraverso il lavoro dei contadini, come il grano Timilia; e le varietà vecchie come il Senatore Cappelli che invece sono state create dalla ricerca agronomica negli anni 20-30 e sono regolarmente iscritte al catalogo commerciale. Tutte le varietà locali invece, non essendo distinte, uniformi e stabili, non possono essere iscritte al catalogo commerciale e dunque sono tecnicamente illegali (puoi coltivarle, ma non venderne il seme). Per alcune di queste, nel 2008 la Commissione Europea ha previsto un’eccezione e ogni paese ha potuto iscrivere alcune varietà locali, che vengono definite legalmente: varietà da conservazione.

Ci sono zone dove abbiamo già raggiunto il massimo della produttività, prendi ad esempio la Pianura Padana. Le zone dove dobbiamo aumentare la produzione sono invece le aree cosiddette “marginali”

Immaginiamo per un attimo che tra 50 anni il miscuglio sia un modello agricolo diffuso e consolidato. Sarebbe un’agricoltura certamente più ecologica, ma il contadino riuscirebbe a sopravvivere? È una delle obiezioni classiche all’agricoltura sostenibile, cioè che sia cosa per radical chic, mentre se vuoi camparci devi affidarti al modello industriale.

In realtà è tutto il contrario. C’è un libro di un sociologo olandese che si intitola “I nuovi contadini” e fa un’analisi economia proprio su questo. E conclude che i contadini che resistono sono quelli che si sono resi autonomi rispetto al mercato globale. Sia perché hanno scelto un modello agricolo (biologico, agroecologico) che li rende indipendenti da semi, fertilizzanti, pesticidi; sia perché hanno costruito intorno a sé una rete sociale (filiere corte, gas) che gli permette di emanciparsi dalla grande distribuzione. E lo sottolineo: rendersi autonomi non vuol dire autarchia, anzi, le connessioni sociali sul territorio sono decisive dal un punto di vista economico.

Altra obiezione classica: con l’agricoltura sostenibile non si sfama il mondo. Veniamo regolarmente terrorizzati sul fatto che a breve non avremo abbastanza cibo e che bisogna aumentare la produzione. Col miscuglio si può produrre cibo per tutti?

Credo sia impossibile dare una risposta definitiva perché non è coinvolta solo la produzione, dovremmo parlare anche di distribuzione, sprechi ecc. Comunque io penso di sì per un motivo: ci sono zone dove abbiamo già raggiunto il massimo della produttività, prendi ad esempio la Pianura Padana. Le zone dove dobbiamo aumentare la produzione sono invece le aree cosiddette “marginali”. In queste aree il modello agro-industriale non funziona, per cui se voglio produrre di più ho bisogno di nuovi materiali genetici e in questo senso il miscuglio evolutivo si presta bene.

Qualcuno potrebbe obiettare che in queste zone marginali bisogna usare gli OGM.

Sì certo ma è retorica, nella pratica non funzionano. Non riusciamo a fare ogm che rispondano a necessità mirate (es. scarsità di acqua) perché sono caratteristiche sotto l’influenza di molti geni diversi e non riusciamo a controllare la genetica a tavolino con questo livello di raffinatezza. Ricordiamoci che il 40% del DNA per noi è ancora un mistero.

Possiamo dire che i miscugli e gli OGM stanno all’opposto, a livello filosofico?

Esattamente all’opposto. Da un lato (OGM) hai la ricerca centralizzata, top down, in molti casi proprietaria perché basata su brevetto. Inoltre a livello scientifico il ragionamento è oserei dire “rozzo” cioè: ho un problema, allora risolvo un gene e faccio una varietà con questo gene risolto. Ma non c’è capacità di visione globale, non c’è il polso della complessità di problemi che puoi avere in campo. Non amo il termine “olistico” perché è di moda pure questo, ma possiamo dire che invece i miscugli ragionano in modo olistico sull’agricoltura.

Chi si sta occupando di miscuglio evolutivo oggi in Italia?

Oltre a noi, c’è l’Università di Perugia con la Prof.ssa Valeria Negri; l’Università di Bologna che ha creato insieme ad alcuni agricoltori una popolazione che si chiama Virgo; e la ditta sementiera Arcoiris, che tra l’altro è socia della Rete. Noi come Rete Semi Rurali continuiamo la ricerca e vendiamo le popolazioni di semi attraverso una licenza sul modello del software libero. Certo, cerchiamo sempre di capire con chi abbiamo a che fare per evitare che chi compra da noi il seme dopo qualche tempo lo rivenda come marchio commerciale proprietario, è già successo purtroppo.

Quindi una persona che vuole mangiare farine-miscuglio cosa deve fare?

Per ora l’unico modo è sapere come lavora l’agricoltore. Oppure fidarsi di chi ti vende i prodotti, ad esempio il panettiere. I termini antico o evolutivo tirano molto, ma di per sé non sono una garanzia, non hanno nessuna valenza legale, dentro ci può essere di tutto. Per cui tanto per cominciare: diffidare dagli aggettivi.

Diffidiamo dagli aggettivi allora, che tra l’altro mi sembra un’ottima norma per la vita in generale. E “mangiamo diversità”, tutte le volte che è possibile.

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