Nathan Fake, a prima vista, sembra un tizio scavato dalla vita, tutto secco e un po’ stralunato. Quando lo incontro ha una American Spirit accesa in mano e sembra un attimo provato dalla sera precedente, in cui ha suonato al Teatro della Tosse di Genova. Sta portando in tour il suo nuovo album Providence, il cui titolo non implica da parte sua uno slancio religioso. Fake ha infatti dichiarato a Fact di essere ateo e che, se proprio, la parola “provvidenza” può riferirsi al potenziale emotivo, empatico e salvifico della musica sull’animo umano—aggiungendo che la cosa poteva suonare “un po’ pretenziosa.” Parlandoci, il produttore di Norfolk continua a sminuire con sorrisi e risate qualsiasi deriva eccessivamente concettualizzante riguardo alla sua musica: “Si tratta solo di buttare fuori quello che ho in testa,” mi dice, quando provo a decostruire il significato dei suoi titoli, o la scelta di inserire nell’album—per la prima volta dal suo EP d’esordio, ormai arrivato tredici anni fa—una parte cantata.
“RVK“, ha infatti dentro la voce di Raphelle Standell-Preston dei Braids—un gruppo indie rock canadese. Fake, però, non la rende il fulcro del pezzo: la inserisce verso la sua fine, e intanto ci disintegra sotto la musica che aveva costruito fino a quel momento fino a renderla una vibrazione di rumore bianco. C’è anche un’altra collaborazione, in Providence: “DEGREELESSNESS“, con quel maestro del noise che è Dominck Fernow, in arte Prurient e/o Vatican Shadow. Fake, però, lo lascia entrare nel suo mondo senza lasciarsi coinvolgere da pulsioni estremizzanti: gli lascia inserire sottotesti evocativi, sparigliare sottilmente i collegamenti binari che reggono la sua elettronica a metà tra ballabilità e suggestione.
Fake è sempre stato un musicista accogliente, nelle sue proposte. A partire dalla piacevole semi-acidità di “Outhouse” e dalle melodie malinconico-sognanti di Drowning in a Sea of Love, il nostro Nathan si è sempre giostrato tra composizioni accessibili, potenzialmente utilizzabili sia come sottofondo di sessioni di studio che come blocchi componibili per DJ set dalle tendenze riflessive. Dopo Steam Days, arrivato nel 2012, Fake si trovò però come bloccato: abbandonò Londra per trasferirsi a Norwich e smise di scrivere, incapace di trovare stimoli abbastanza efficaci da giustificare la scrittura di un nuovo LP. Questo, fino all’acquisto totalmente a casaccio di un Korg Prophecy su eBay: un sintetizzatore mega-kitsch e paccone prodotto a metà dagli anni Novanta con un video di presentazione ufficiale esilarante (“Fin dall’alba dei tempi, l’uomo ha provato a creare suoni…“). Fomentato dallo strumento, Fake si è rimesso a comporre, e Ninja Tune—sua nuova casa, dopo anni e anni di collaborazioni con la Border Community dell’amico James Holden—ha pubblicato quello che è venuto fuori. Seduti a un tavolo del Circolo Magnolia, abbiamo cominciato quindi a parlare.

Fotografia di Francesca Corno.
È una vita che conosci James, immagino quindi non ci siano stati problemi con il passaggio a Ninja Tune.
Sì, siamo ovviamente amici da anni, fin dall’inizio. È sempre stato tutto molto naturale tra noi, anche quando ho deciso di passare a Ninja. I ragazzi dell’etichetta hanno l’hanno sempre gestita come un progetto artistico più che come a una piccola azienda, quindi quando mi hanno detto che erano interessati a quello che facevo l’ho presa davvero bene, e anche James. Non c’è stato davvero alcun problema quando gli ho detto che mi sarebbe piaciuto provare a fare qualcosa con loro.
Tra l’altro Ninja Tune ha un sacco di cose fighe uscite o in uscita, tipo i nuovi Actress e Forest Swords, o il disco di The Bug con gli Earth.
Sì, assolutamente! Mi è sempre piaciuto quello che hanno fatto uscire, magari le cose più vecchie avevano un’identità unica, erano tutte funk e breakbeat, ma adesso sono una delle realtà più variegate che conosca.
Hai già parlato del blocco dello scrittore che ti è venuto prima di metterti a lavorare a Providence, ma mi chiedevo: ti sei mai scontrato con l’idea che quello che hai sempre voluto fare era diventata una cosa che dovevi fare?
Credo sia una cosa che capita a tutti i musicisti professionisti, prima o poi. Ma anche quando ti viene il pensiero poi è tutto ok, faccio ciò che mi piace e ci pago le bollette. Poi ovviamente ci sono momenti di pressione, soprattutto quando sono anni che lo fai… le mie prime cose sono uscite dodici, tredici anni fa. E a volte l’elemento “divertimento” scompare, perché pensi alle aspettative e ai soldi che teoricamente dovrai farci. Ma mi sono divertito molto a scrivere Providence, a ricominciare.
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C’è stato un momento specifico in cui ti sei detto, “Hey, sto riuscendo di nuovo a comporre!”
Praticamente quando ho cominciato a usare una strumentazione diversa, ma non con l’idea di farci un album. Solo per cazzeggiare.
Quando hai comprato quel Korg Prophecy su eBay, dici?
Sì, sì! Non l’ho comprato con un’idea specifica, volevo soltanto provarlo perché costava davvero poco. Ma alla fine ci ho fatto un album.
Quand’è che ti sei trasferito a Norwich?
Tre, quattro anni fa ormai. E prima ho vissuto a Londra per sette anni.
Ora che è passato un po’ di tempo, puoi dire che è stata la scelta giusta da fare? Te lo chiedo perché ovviamente la narrazione predominante è quella del DJ/producer nella grande città piena di opportunità, anche se ci sono ovviamente le eccezioni. Aphex Twin su tutti.
Sai che in realtà ero molto felice a Londra? Sono solo arrivato a un punto della mia vita in cui ho sentito voglia di cambiare qualcosa. Io sono di un paese non troppo lontano da Norwich, ma comunque trasferirsi lì è stato un grosso cambiamento, soprattutto a livello di ritmi. Credo che ormai comunque non importa più dove vivi, se fai il musicista. Il mondo è piuttosto piccolo. Certo, nei primi anni Novanta poteva essere strano che ci fosse un tizio in Cornovaglia che faceva elettronica—la cosa valeva anche per me, ero lontano da qualsiasi scena e quello che sentivo mi arrivava per radio, se fossi vissuto a Londra avrei certamente provato a far parte di qualcosa di più grande. È una cosa che mi piace, sentirmi parte di un tutto, anche se non sono mai stato davvero un personaggio di spicco di una scena. Magari la Border Community poteva essere una scenetta a sé stante, ma in realtà facevamo tutti cose piuttosto diverse.
Negli anni la tua musica si è evoluta molto, e almeno personalmente la percepisco come a metà tra due estremi—non è totalmente meditativa, non è totalmente ambient. Mi chiedevo come era la tua percezione.
Sì, credo che sia così che il mio pubblico abbia imparato a vedermi. I miei set sono ancora troppo strani per certi contesti e troppo poco strani quando si tratta di usare parole come “sperimentale”. Credo che sia perché ascolto un sacco di roba diversa, e so che è una cosa che dicono in molti, ma mi piace davvero passare da un estremo all’altro, dall’ambient al noise, e quindi mi trovo a fare qualcosa a metà. Ti dirò, ho scritto un sacco di cose molto più definite verso questi estremi, ma non penso davvero siano le mie cose migliori! E quindi le tengo per me.
Dato che hai sempre fatto musica strumentale, e quindi usato forme non-verbali di comunicazione, vorrei sapere da dove viene la scelta di usare per la prima volta delle voci nei tuoi pezzi.
Si tratta solo di buttare fuori emozioni, per me. Mi rendo conto che se si parla di elettronica si implichi automaticamente una certa astrazione di senso, ma è una cosa che mi piace. I miei titoli non sono pensati per significare qualcosa, ed è ok così. È il classico discorso: pubblichi la tua musica e poi sta all’ascoltatore trovarci un proprio senso. Poi certo, mi chiedo tuttora a chi piaccia la mia musica a tal punto da darle un significato! [Ride.]
Scrollando nel tuo profilo Instagram ho visto che hai ripostato un po’ di immagini decisamente vaporwave [vedi qua sopra, nda].
Sì! La vaporwave è stata una grande influenza per la parte visuale del nuovo album, a essere sinceri. Li ha fatti questo ragazzo che si chiama Matt Bateman, e credo sia colpa mia dato che gli ho rotto le scatole mandandogli una caterva di immagini mega-vapor come ispirazione, le classiche schermate alla Windows 95 e così via. È un’estetica che mi piace un sacco, semplicemente. E dati i miei anni è anche questione di nostalgia. Credo che sia stato Oneohtrix Point Never a smarcarla veramente in un certo contesto, sai? I suoi video hanno avuto una grande influenza, sono stati copiati un sacco. Ma ogni volta che penso che parte del merito per la nascita della vaporwave sia di ragazzi super giovani ci rimango, è davvero interessante come siano attratti da quel set estetico senza alcun motivo nostalgico. Che poi la vaporwave è più estetica che musica, i pezzi sono perlopiù re-edit di pezzi di Diana Ross tutti rallentati. [Ride.] Ma è una pratica che rivedo nel lavoro di molti altri miei amici. Actress, per esempio, prende spesso sample vocali e li rallenta brutalmente, ci mette su un ping-pong delay… in fondo si tratta di decontestualizzare materiale percepito come kitsch e “sfigato,” in fondo, e renderlo astratto. Ed è un po’ quello che ho fatto io con il Korg Prophecy.
Quello che più mi affascina, degli sviluppi più recenti dell’elettronica, è il modo in cui questi approcci estetico-musicali nascano in contesti (e muoiano piuttosto velocemente) in contesti prettamente virtuali. Quando hai cominciato, in quanto musicista, che rapporto avevi con le comunità virtuali?
Quando ho cominciato non c’era assolutamente niente! [Ride.] Ho trentaquattro anni, ormai. Era la fine degli anni Novanta, in fondo. C’erano solo i forum, ed è su un forum che sono entrato in contatto con James Holden, inizialmente. Perché l’etichetta su cui era allora, Silver Planet, un’etichetta trance, e le sue cose mi piacevano un sacco. Quindi quando ci è arrivato internet a casa ho cercato “Silver Planet” e trovato questo forum in cui se ne parlava. Ho fatto amicizia con dei ragazzi che lo conoscevano, e poi ho conosciuto lui. E niente, sono cresciuto in un paese molto piccolo e non conoscevo nessuno che si interessasse di musica, quindi fu una bellissima scoperta rendermi conto che c’era altra gente a cui piaceva quello che mi piaceva.
E scaricavi roba? La condividevi con altra gente? Usavi software di filesharing?
Sì, usavo un po’ Napster e Soulseek. Ma non li ho mai usati per condividere le mie cose. Avevo degli amici di internet a cui mandavo i miei pezzi privatamente, ma non ero abbastanza convinto della qualità delle mie cose da pubblicizzarle apertamente! [Ride.]

Fotografia di Francesca Corno.
Hai parlato, in passato, di come tu ti senta più a tuo agio a fare live piuttosto che DJ set. Mi chiedevo se, crescendo, ti è capitato di andare a qualche live show che ha cambiato la tua percezione delle potenzialità del suonare dal vivo.
Non li ho visti di persona, ma a convincermi del potere del live furono gli Orbital. Li vidi in televisione, sarà stato il 1994, avevano suonato a Glastonbury. Mi piacevano un sacco, e quando mi resi conto che si portavano sul palco tutto il loro materiale da studio ci rimasi. Avevo già visto i Prodigy, e mi piacevano, ma credo che il punto delle loro cose fosse più far divertire e ballare la gente che fare un bel concerto. Gli Orbital, invece, portavano sul palco queste versioni sporche dei pezzi che avevano pubblicato su disco, mixate diversamente, sentivi tutte le modifiche che facevano ai synth… e io ero tipo, ‘WOOOOH!’ Era assurdo, ecco. Ormai è tutto più normale, ma allora era qualcosa di pionieristico, soprattutto data la difficoltà del portarsi a dietro tutta quella roba.
Ti interessano le playlist in quanto medium musicale per comunicare con i tuoi fan? Perché ci sono etichette e artisti che fanno le loro selezioni di brani e le condividono apertamente, tipo Four Tet, ed è un bel modo per evitare domande tipo, “Quali sono le tue influenze?” Eccole qua, su Spotify.
In realtà mi interessa più applicare l’approccio-playlist ai miei DJ set, sono una scusa per far sentire alla gente la musica che mi piace. Non ho mai usato veramente Spotify. Mi affido più a YouTube ai video in autoplay.
Un’ultima cosa: come ti fa sentire, oggi, riascoltare “Outhouse“?
È figo perché la gente me la chiede spesso, ma è anche strano perché in fondo ho un nuovo album e tutti vogliono sentire un pezzo di quindici anni fa. [Ride.] Ricordo ancora bene il momento in cui l’ho scritta, ci ho lavorato un sacco, mesi praticamente. E a sentirla non sembra affatto così… spettacolare! Ma è stato un buon inizio. Volevo proprio dare un’identità definita a quello che facevo.
Credo sia perché alla gente piacciono un sacco le origini.
Sì! Ricordo che avevo mandato a James una demo di due minuti del pezzo, che alla fine è venuto fuori di dieci. Lui mi chiese di mandargli una versione completa, e quindi uscii scemo per farla venire fuori il meglio possibile. E devo dire che alla fine è andata bene, dai.
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