Non capita tutti i giorni di incontrare una leggenda del rap italiano, quindi abbiamo pensato di farvi e farci un favore pubblicando una trascrizione integrale dell’intervista che abbiamo registrato con Noyz Narcos per il nuovo episodio di Noisey Meets, online da oggi su YouTube. Potete guardare il video intero qua sotto, e appena dopo trovate tutta la nostra conversazione, registrata nello studio di Night Skinny a Milano.
Noisey: Dato che è passato un sacco di tempo da Monster, cosa significa per te oggi fare un album?
Noyz Narcos: Quello che ha sempre significato. Un disco è soprattutto il materiale che porterai in giro dal vivo negli anni a seguire. Lo fai in quell’ottica, in base a come hai capito che si deve strutturare un live. E comunque significa ogni volta mettere una bandierina nell’album in cui esci. In passato ho avuto uscite più serrate, anche una all’anno, ed era come una riconferma continua.
Come mai c’è stata tutta questa attesa?
Adesso i dischi vengono concepiti in un tempo minore. Sono più veloci ma durano meno nel tempo per gli ascoltatori. Magari ci metti cinque o sei mesi a farlo ma poi, una volta fuori, dura altrettanto e viene sovrastato da altra roba. Fino a un po’ di tempo fa i dischi erano fatti per contenere canzoni che sarebbero durate nel tempo. Non ‘sta musica spazzatura che va e viene. Ci ho sempre messo dai 10 ai 12 mesi per fare un album, ora mi prendo il tempo che mi serve. Non ho scadenze. Chiaramente non ci ho messo dal 2015 al 2018 per fare Enemy, sono stato per due anni in tour e il tempo per stare a lavorare sulle canzoni non era mai troppo. Questo album è stato scritto di pugno tutto nuovo, non avevo testi da parte.
Il nemico è?
Può essere chiunque. Pure te stesso, tante volte. L’ascoltatore. Qualsiasi cosa non ti vada bene. Il concetto di Enemy c’è sempre stato nella roba mia, “Nemico pubblico”. Era sempre una parola unica, come Guilty o Monster, che rappresentava un universo. Come il titolo di un film, come un tag. Con una sola parola in inglese puoi spesso esprimere un significato più chiaro rispetto a quello che ti permette di fare la lingua italiana.
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Cominci “INRI”, e quindi l’album, dicendo “Sembro un libro bianco tutto da riempire”.
È la condizione in cui si pone un MC che si approccia alla musica. Tante mattine ti svegli con le rime in testa e scrivi. Altre volte sono cose che devi fare perché è un lavoro. Il tuo approccio è tipo boom, pagina bianca. Devi creare canzoni, e non è facile. A volte la riempi istericamente, pare che la mano vada da sola. A volte devi pensarci. Mi sembrava abbastanza forte come inizio dell’album.
E poi continui: “Sembra che in ‘sta merda nessuno sa più che dire”.
La musica, e soprattutto il rap, ha preso una deriva diversa da quella che era prima. Non che prima ci fossero luminari a scrivere canzoni, non ci sono mai stati. Nel mio caso ho sempre cercato di mettere in musica qualcosa di più di “Sono bravo a fare questo e quell’altro”, che è comunque il gioco del rap. Chi non c’aveva un cazzo da dire ci stava pure prima. Ma se dici qualcosa i concetti si riducono davvero a quelle quattro cose. Se io nomino una serie di marche di abbigliamento la canzone è fatta, capito? Ti può anche interessare da morire, sarà la roba che ti fomenta, ma è un po’ triste vedere che le uniche cose che contano siano il vestiario e quant’altro. Prima nel rap trovavi qualcosa d’altro. Vero è che anche nella nuova generazione molti parlano di vita, di storie, cose che si erano un po’ perse nel tempo. È rientrata una componente più figa e real. Ma sembra che nella musica non ci sia proprio più bisogno di dire niente.
Sempre in “INRI” definisci Roma “città di false speranze”.
A Roma ci ho visto arrivare un sacco di gente. Chiaramente se uno arriva da un paesino ti sembra che tutto funzioni da paura, ma poi quanti ne vedi che cascano in situazioni che non si realizzano? Quanti studiano senza trovare uno sbocco? Roma è un posto di ladroni. Puoi sperare quello che ti pare, la cosa è segnata.
In “R.I.P.” dici “Quaggiù al quartiere non c’è più un cane”. È una frase che mi ha colpito molto.
Ho visto molto cambiare il quartiere dove sono cresciuto nel tempo. Del vecchio gruppo di gente che eri abituato a beccare molti hanno figli, molti non ci sono più, molti hanno cambiato vita. Il contorno che c’era una volta non c’è più.
Che cosa ti lega ai ragazzi che compaiono sull’album?
Le persone che ho chiamato nel disco sono quelle che stanno cavalcando il mio stesso periodo storico. Ho stima nei loro confronti, sia a livello musicale che umano. Sono quelli che hanno attirato la mia attenzione più di altri, che mi hanno comunicato qualcosa. A me il testo fine a se stesso non piace. Se devo ascoltarti una seconda volta per capire quello che stai dicendo già vuole dire che mi interessi. Se al primo ascolto mi fermo dopo la tua terza barra non me ne fregherà mai un cazzo di approfondire quello che fai.
Allontanarti definitivamente da Roma ha influito sulla nascita di Enemy?
Dopo un po’ stare nello stesso posto mi stanca, venire a Milano è stata una sorpresa. Sarei dovuto rimanere soltanto per la lavorazione dell’album con Fritz. Ero salito per comodità e avevo preso una casa provvisoria per sei mesi, un annetto. Parallelamente abbiamo aperto un negozio di Propaganda, e ad oggi sono tre anni e mezzo che sto qua. Ti dico la verità, a parte alcune mancanze che hai—perché sei abituato a un altro tipo di vita e di rumori attorno a te—ho trovato un terreno fertile su cui lavorare bene che a Roma in quel momento non c’era. Qua ci sono più contaminazioni, più produttori, e ho potuto selezionare basi più varie.
Leggi anche la nostra analisi dell’album, l’intervista continua dopo il link:
In Enemy parli molto della morte, e in un modo diverso rispetto a quello a cui ci hai abituato. È come se pensassi al tuo futuro lontano, al modo in cui verrai ricordato.
Ci ho fatto caso, in questo disco ne ho fatto un uso un po’ smodato! Dici, quasi me tocco le palle quando metto una canzone! È un argomento che mi viene naturalmente. Qua parlano tutti che escono col sole e so tutti contenti, può essere che magari uno si fa domande extraterrestri. Magari ne parlo un po’ troppo, magari c’ho un fascino verso la morte. Non è un caso se in ogni mio cazzo de disco c’è un teschio, c’è una morte con la falce. Ognuno ha le sue fisse e la sua iconografia. E insomma, lo dico pure: “Si ricordano di te solo se muori”.
La seconda componente tematica che spicca all’interno dell’album sono le panchine: “Perché inizia sempre tutto alle panchine / Perché è lì che trovi tutto, sulle panchine”. Pischelli cresciuti sopra le panchine come noi / Coi motorini e le scarpe di gomma.
Da che mi ricordo, da quando ero bambino, tutte le prime esperienze e le prime conoscenze sono avvenute attorno a una panchina. Ci sono mille parchi a Roma. Appena finita scuola salivi sul motorino, arrivavi dentro il parco direttamente con il motorino, mettevi i piedi sulla panchina e cominciavi a parlare con i tuoi amici. Dopo un po’ si creavano venti motorini, e da lì le comitive. Le panchine sono il posto dove tu al tempo, quando non avevi il cellulare, uscito di casa se volevi beccare qualcuno andavi. Prima o poi qualcuno che stava lì a fasse ‘na canna lo trovavi, per capirci.
Che importanza ha per te Trainspotting e il suo celebre monologo, dato che lo citi in “Mark Renton”?
Quel monologo mi ha sempre colpito molto, è l’approccio che abbiamo sempre avuto noi nei confronti della vita. Fin da pischelli sapevamo che la famiglia, il posto sicuro eccetera non sarebbero stati la nostra priorità. Senza levare niente a chi sceglie questo stile di vita, è uno stereotipo che in quegli anni lì, per come vivevamo noi, non veniva mai preso in considerazione. Oggi un sacco di pischelli quella roba lì non la sanno. Ok, ci sono gli ascoltatori superficiali, ma ci sono anche quelli che si vanno a documentare, e così qualcuno andrà a leggere i libri e a guardare il film. Mi piace vestire quei panni, essere il tipo in boxer di camicia al pub che corre via con una birra.
In “Sputapalline”, con Coez, dici “questi soldi sono il male vero”. Perché?
Se vado indietro nel tempo e penso a tutte le volte che ho discusso con qualcuno, ho rovinato un’amicizia, ho avuto problemi personali, ho rischiato che succedesse qualcosa di brutto, c’erano spesso i soldi di mezzo. E non devono essere questi piccoli avvenimenti a farci riflettere, sappiamo tutti quanto l’era in cui viviamo sia definita da un consumismo mai visto prima. Quando eravamo pischelli era bello uscire con ventimila lire in tasca. Con diecimila lire non stavi a posto, ma la serata la facevi. Ma di soldi ne servono sempre di più. Ti fai il culo nella vita, fai un sacco di lavori guadagnando poco e a fine giornata dici, “Porca troia, ho fatto 12 ore, c’ho ‘sti soldi e non sono mai abbastanza”. Poi ti trovi a fare un lavoro migliore, come può essere quello del rapper, e tutto cambia. Questi pischelli fanno rap con l’ottica di fare soldi, non perché gli piace farlo. Io li capisco. Piace a tutti avere i soldi e fare la bella vita. Ma per tutti i problemi che ti possono creare, i rapporti che ti possono rovinare, i soldi sono il male vero. “Money is the root of all evil”.
I problemi cominciano quando poi scatta l’ostentazione.
Sì, a parte che nei testi la vedo anche molto nella realtà. In Italia non era ancora arrivata ‘sta cosa di sfoggiare l’oro, le macchine e i vestiti con violenza e arroganza. Era una cosa che apparteneva di più al rap estero, in Italia c’era un sistema di valori diverso. Ma rispetto chi adesso fa rap, guadagna col rap e sfoggia quello che ha guadagnato col rap. Si tratta sempre di una vittoria.
Che cos’è oggi, per te, “hardcore”?
Ora è quasi morto e sepolto, come termine. A Roma “hardcore” è una cosa che ha sempre risuonato in tante attività. Nel rap, nei graffiti, nello skate. Per me, come per il gruppo con cui abbiamo cominciato a fare questa roba, è sempre stata una componente importante. Essere il tipo hardcore quando suona, quando si esibisce. Non so perché non si usi quasi più. Mò ce stanno le rockstar, le rapstar, le trapstar. Magari noi siamo gli ultimi tipi hardcore! Fa pure un po’ ridere come cosa da dire.
Mi racconti bene come hai lavorato con Skinny e Sine al suono di Enemy?
Quando ho deciso di fare quest’album ero qua a Milano e stavo lavorando a un paio di singoli con Skinny. Ho preso confidenza con il suo studio e ci stavamo beccando parecchio. Ci siamo seduti al tavolino, abbiamo parlato un po’ di quello che avrei voluto fare e ho voluto chiamare anche Sine, il mio amico di Roma con cui ho prodotto le migliori hit della mia carriera. Volevo ci fosse la possibilità di lavorare qua a Milano, ma anche mantenere un po’ del sound dei miei dischi passati. Abbiamo fatto brainstorming, ci siamo dati una linea da seguire e poi è cominciata la solita ricerca infinita dei beat. Volevo suoni che mi appartenessero, la classica roba mia, Noyz Narcos shit, ma anche roba nuova. Senza volere piegarsi alla musica che sta girando ora, ma non per qualche motivo definito. Non è proprio roba mia, non la saprei fare e non mi piacerebbe farla. Per me è quasi un altro genere. Zero autotune, zero trappate. Non è nella mia natura farle, anche se magari le ascolto volentieri. Magari nei dischi precedenti mi risultava più facile scegliere le basi, più vado avanti nel tempo meno roba mi piace. Ma facendoli impazzire siamo riusciti a tirare fuori una bella varietà di strumentali.
Siete rimasti a Milano a lavorare?
Sono stato qualche mese a Milano e qualche mese a Roma. Parte del lavoro l’abbiamo chiusa in delle splendide ville con piscina, isolati dal resto del mondo. Una volta a Ibiza e una nella splendida Puglia, in due splendidi posti muniti di tutti i comfort possibili. Mega spesa al supermercato, ti chiudi là, barbecue, birre, musica e rap. Un tuffo in piscina, ‘na braciolata, un pescetto…
Quali sono le radici dell’omaggio a Gabriella Ferri in “Sinnò me moro”?
Lei è una cantante romana a cui sono molto legato. La ascoltavo da pischello e la ascolto tuttora. Abbiamo confezionato questo pezzo ad hoc rifacendo proprio una vecchia canzone struggle romana che fosse tipo ‘ste canzoni di tragedia dove muore qualcuno, dove arrestano qualcuno, dove qualcuno piglia una pugnalata. Non so come sarà recepita, è un pezzo molto strano a livello di sound. Ma l’idea è piaciuta subito e mi pigliava bene omaggiare Roma come se le avessi fatto un torto, dato che sono tre anni e mezzo che me ne sono andato da lei.
A parte la Ferri, per te chi ha portato Roma in musica?
L’hanno portata gli stornellari. L’ha portata Califano. Questa roba qua. Mio fratello li ascoltava molto, risuonavano sempre in casa. Ai mercatini di vinili, come quello di Porta Portese, beccavi sempre duemila dischi stile “Roma canta”. Qualcuno me lo compravo a poche lire e me lo portavo a casa. Rifare un pezzo del genere a questo punto della mia carriera, sapendo che potrà essere sentito da un botto di gente, mi prende bene, dato che significa far rivivere un pochetto quel tipo di musica. Ho sempre sognato di fare un pezzo con Califano… abbiamo avuto l’onore di assistere a un suo concerto nel backstage e mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma è venuto a mancare l’anno dopo. Magari sicuramente non avrebbe accettato, ma era un sogno della vita.
Hai dichiarato che Enemy sarà il tuo ultimo album.
Ho dichiarato che potrebbe essere il mio ultimo album. Poi vai a sapere, nella vita, ma potrebbe essere una possibilità. A fare un album ci vuole del tempo, e magari a un certo punto della tua carriera provi il bisogno di staccare e fare qualcosa di diverso. E abbiamo pure una certa età. Non è che tu debba smettere per forza arrivato a un punto della tua vita, ma può essere che tu ti rompa il cazzo di determinate dinamiche legate all’essere un musicista. Che poi non siamo musicisti, siamo rapper. Non sappiamo suonare manco ‘na pianola. Non sei un cantante, non sei un tenore. Sei un pischello che dice cazzate nel microfono, parlamose chiaro. Poi può essere pure che faccia altri tre dischi e venti mixtape, vai a sapere. Un conto è vedere JAY-Z e Nas che suonano al Madison Square Garden ed è una bomba, in giacca e cravatta, tutti stilosi. Non è troppo la roba mia. Io non me vedo manco col cappelletto così a cinquant’anni. Arrivato a quarant’anni ti fai due domande. Penso che sia meglio andarsene con stile piuttosto che aspettare l’arrivo di un momento in cui le cose non vadano più bene.
Chiudiamo con il domandone: che effetto ti fa che il rap sia diventato quello che è oggi?
Penso sia giusto che sia diventato questo. Le mode impongono un rap magari un po’ diverso da quello che ci aspettavamo, ma finalmente c’è qualcuno che ci fa due soldi, che ci lavora, che va in tour europeo. Ce n’è voluto di tempo, in Italia. Poteva succedere dieci anni fa, quando noi eravamo sulla cresta dell’onda, e non sarebbe stato male! Oggi un altro po’ e viaggi con l’aereo privato. Speriamo che almeno quest’ultimo album, se sarà l’ultimo, possa essere goduto come va goduto.