Non oso nemmeno immaginare quanto debba essere dura chiamarsi “Lil Qualcosa” in un mondo abitato da 8000 “Lil Qualcos’altro”. Me li figuro, tutti i Lil, perennemente indaffarati a sgomitare per una fetta di successo, per arrivare in cima prima che quel nomignolo diventi un controsenso anagrafico. Nell’infinita gara verso la notorietà sono ovviamente pochi quelli che riescono a differenziarsi dagli altri, ad emergere nel marasma. Tra questi, uno che ce l’ha fatta è sicuramente Lil Pump.
Forte di un’estetica bubblegum con tatuaggi in faccia e treccine colorate, ma forte soprattutto di una filosofia molto vicina al mantra “bene o male, purché se ne parli”, nell’ultimo anno e mezzo Lil Pump si è spesso ritrovato sulle homepage musicali di mezzo mondo. Nel 2017, ancora minorenne, è uscito dai confini di SoundCloud grazie al singolo “Gucci Gang”, ormai spedito verso il miliardo di visualizzazioni su YouTube; ha poi lanciato il meme “eskeddit”, ha fatto arrabbiare la Cina, è finito in prigione e sul cartellone del Coachella 2019. In mezzo a questa baraonda ha trovato anche il tempo per pubblicare su Warner l’omonimo mixtape d’esordio che, nonostante le importanti collaborazioni, era “uguale identico a trecentomila altri mixtape che avete già sentito e altri cinquecentomila che sentirete”. Se qualcuno nutriva la speranza che tutto ciò potesse essere solo un rodaggio, un trampolino di lancio per fare di meglio, beh, ci ha pensato Harverd Dropout a troncare le poche e già flebili aspettative.
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Lil Pump ha diciotto anni ed è pieno di soldi, di visualizzazioni, di follower; gli basta schioccare le dita per avere tutto ciò che vuole: diamanti, donne, featuring coi Migos, 2 Chainz e i migliori Lil (Wayne e Uzi Vert), persino una collaborazione con Kanye West in un video che vede Spike Jonze nei panni di produttore esecutivo. Ciononostante, Harverd Dropout arranca e proprio non riesce a funzionare. I beat sono banali e i synth di plastica, le melodie e i contenuti non pervenuti, così come le abilità nel rap (comunque mai millantate dall’artista stesso, anzi). Ad aggiungere benzina sul fuoco ci ha poi pensato Geoff Barrow dei Portishead, accusando Pump di aver campionato un suo pezzo per creare “una canzone fottutamente sessista”, chiamandolo “misogino” e augurandosi “da padre di due ragazze, che questa merda [la trap sessista] vada affanculo”.
Al di là dell’assenza di valore artistico in senso stretto, ampiamente preventivata prima dell’ascolto, ciò che colpisce di più di Harverd Dropout è però un’altra cosa, un’assurdità che si palesa canzone dopo canzone. La sensazione costante è quella che Lil Pump non abbia mai sognato di fare il rapper: è annoiato, svogliato, fuori posto sulle basi come un Richie Rich isolato nella sua magione, ormai incapace di divertirsi e, quindi, di divertire. Di 16 pezzi si salva forse solo “Racks on Racks”, buona giusto per qualche party, mentre tutto il resto suona preconfezionato, creato a tavolino da un sistema in cui Pump è solo l’ultimo ingranaggio necessario per fare soldi, ma non per fare arte. L’effetto sorpresa e la novità del personaggio sono ormai svaniti e Harverd Dropout è, di nuovo, un lavoro “uguale identico a trecentomila […] che avete già sentito e altri cinquecentomila che sentirete”, ma non solo.
L’album, infatti, è anche metafora ed emblema del vuoto pneumatico di un’industria che, per macinare dollari, dà visibilità a gente senza talento, a dei meme viventi. A lungo andare, però, i meme stancano, smettono di far ridere e vengono accantonati. Non si sa bene come, perché né quando questo accada: semplicemente, nel tacito consenso dell’internet, accade.