Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.
THE BUG / EARTH
Concrete Desert
(Ninja Tune)
Videos by VICE
Se vi piacciono i fumetti, saprete che spesso quando due megasupereroi collaborano insieme, tipo, che ne so, Batman se la fa con Superman, a volte salvano il mondo e viviamo tutti felici e contenti, altre volte è una delusione. Nel caso specifico l’incontro fra questi due giganti, ovvero the Bug e Dylan Carson, il capoccia degli Earth, sulla carta suona interessante. Ci informiamo sulle tematiche e lì un pochino viene da dire “che palle ‘sta distopia, stiamo ancora a parlare di Hollywood?”—però alla fine si sente che cercano di scollarsi di dosso le loro rispettive cifre per cercare qualcosa di nuovo. Qualcosa di nuovo che, ahimè, non esce fuori. In alcune parti, addirittura, sembra copino gli Heroin in Tahiti di sana pianta, ma che possiamo farci? D’altronde nessuno nasce imparato. Non è un disco da insufficienza (alla fine “Snakes and Rats” salva un po’ tutto, diciamolo… anche se sembra un ritorno alla witch house fuori tempo massimo). È un disco di due supereroi che si mettono insieme per combattere i cattivi. Che poi ci riescano o meno è un altro conto.
PENGUIN CATWOMAN
LIL UZI VERT
LUV is Rage 1.5
(Atlantic / Warner)
Io non avevo mai cagato troppo Lil Uzi fino a poco fa, sapete? Ok, spaccava tutto coi Migos in “Bad and Boujee”, “Ps & Qs” era ok, e finita lì. Poi il mio amico Aaron mi ha scritto le seguenti parole: “Dio santo, dovrai parlarne comunque di questa nuova ondata di brani di Uzi. ‘XO tour Llif3’ ha la stessa ambience di un brano dei Nirvana o di Wavves quando era in botta Nirvana, se vogliamo allargare lo spettro culturale pur senza dover usare quegli strumenti e materiali, dunque al contrario dei vari peep, eccetera. Per me straordinario.” E niente, dopo qualche settimana credo di aver capito quello che intendeva. Sarà un pippone mio, ma in quel pezzo c’è un dolore clamoroso. Quando Lil Uzi canta “ All my friends are dead / Push me to the edge” sempre più alto, lamentoso e disgregato fino a perdersi in una sorta di latrato dolorante mi emoziono fortissimo. E poi si mette pure a parlare di come la tipa di cui parla nel pezzo dice che sia pazzo, e lui minaccia di farsi saltare la testa, e parte con una tirata ai 250 all’ora sui suoi antidepressivi che esplode in un “Ti prego, xanax, manda via il dolore“—il tutto tenendo sempre un flow riverberato, colorato e fibrillante. Morale: Lil Uzi Vert è il nuovo Conor Oberst, ma senza la sfiga.
ZUPPA IN THE CROCKPOT
COLOMBRE
Pulviscolo
(Bravo Dischi)
‘Sti dischi dei nuovi cantautori italiani hanno almeno un aspetto positivo: durano poco. Otto canzoni, venticinque minuti. Questo qui, a differenza di Gazzelle del quale ci siamo già occupati la settimana scorsa, non ha nemmeno arrangiamenti divertenti, è proprio una rottura di cazzo totale, nonostante il carellismo wanna-be di “Dimmi tu” e il theremin (o quello che sembra un theremin) di “T.S.O.”. Se Gazzelle non ha nessuna personalità ma ha almeno dei pezzi che possono funzionare, questa roba qui fa rimpiangere il triste indie pop di inizio millennio, ed è tutto dire. La cosa più notevole del disco è il featuring di Iosonouncane (in una specie di “Questione di feeling” dei poveri), che speriamo di cuore non si faccia traviare da questa ondata e si ostini a fare dischi con più o meno la stessa melodia vocale per tutto l’album (come accadeva in Die) a dimostrazione che non gliene frega un cazzo – e che continui invece a puntare sulla musica, i suoni, gli arrangiamenti. Cose rispetto alle quali è un fuoriclasse assoluto, che ‘sti tizi non vedono neanche con il telescopio.
JACOPO SALVATI
DANE LAW
r.bit
(Genot Centre)
In Repubblica Ceca, guidata da Ondřej Lasák e Wim Dehaen, si nasconde una piccola, straordinaria, label: Genot Centre. Nonostante un catalogo che conta appena una decina di uscite – tutte su nastro – ha già avuto a che fare con qualcosa nell’ordine di un capolavoro o, almeno, è quanto sembra a chi scrive “l’altro” Persona del 2016, quello a nome Bryce Helm.
L’attività dell’etichetta non si ferma a Bandcamp e, al contrario, ha già organizzato una lunga serie di particolari eventi live, tutti site-specific e spesso dilatatissimi nel tempo; al punto da prevedere la colazione nel prezzo del biglietto.
L’ultima uscita di Genot Centre è r.bit di Dane Law, una vecchia conoscenza Quantum Natives, e, forse, trattasi di un altro grande risultato. Nel corso dell’album l’autore rielabora a piacimento il materiale originale degli Orbital, piengandolo fino al limite estremo di una muzak senza vergogna; torcendo la struttura ritmica del materiale originale al punto di rottura. Ad accompagnare e completare l’uscita, poi, si segnala un’esperienza VR ad hoc a cura di Reaper Death Seal Corp.
Va beh, un album figo di un’etichetta figa (che, stando a uno dei label master, ha in serbo qualche altra uscita importante, prossimamente. Per esempio un nuovo lavoro di Aghnie, un altro dei campioni 2016, per chi scrive).
VLADIMIRO LUTTAZZI
ZU
Jhator
(House of Mythology)
Confesso che da giovane andavo spesso a vedere gli Zu dal vivo, poi ho smesso perché mi annoiavano. Non ho mai comperato un loro disco, quindi immagino non mi si possa definire proprio un loro fan, però riconosco che siano sempre stati una colonna portante, soprattutto nel divulgare la musica italiana “altra” fuori dalla penisola, su questo non ci piove. Musicalmente sono cambiati e questo è un passo avanti, ma, nonostante la citazione dei Coil come punto di riferimento, il post rock pende come una spada di Damocle. Al solito, l’album è farcito di una caterva di ospiti di cui potremmo anche fare a meno, che mi ricordano un altro tipo di Zu, ovvero Zucchero. Che vi devo dire, la sensazione rimane quella di tanto tempo fa: bravi, ma dopo un po’ che palle. Lo dicevano Tozzi, Morandi e Ruggeri: si può dare di più senza essere eroi, non me ne vogliano gli antichi egizi.
PREPUZIO PRIATORE
RAYS
S/T
(Trouble in Mind)
Ragazze e ragazzi, benvenuti all’edizione 2017 di Un Disco per l’Estate. Se sentite la vostra anima lentamente sfuggirvi, risucchiata dal buco nero della moderna società capitalista, ma non avete ancora perso il senso dell’umorismo e la voglia di ballare sotto il sole, braccia nude e cuori in alto, gambe ad angolo e goffi movimenti testa-spalle, l’album d’esordio dei californiani Rays è perfetto. Per essere gente che milita in campioni del punk rock misantropico come Life Stinks e Violent Change, con questo album mostrano una sensibilità pop superiore alla media. Si tratta di un disco davvero impressionante, certo, dal suono un po’ vintage, ma quando ci sono le canzoni si può perdonare una certa sensibilità retrò: i fantasmi di Television Personalities, Desperate Bycicles, Modern Lovers e Tall Dwarfs scorrazzano allegramente nel parco giochi dei Rays. Ma forse l’ho descritto in modo troppo bidimensionale: per quanto l’atmosfera sia decisamente leggera, ci penseranno le dissonanze tra chitarre e organo, le voci tremolanti e i testi a tratti insicuri e paranoici ad alimentare il poetuccio maledetto che abita nei vostri giovani cuori.
G.I.R.L.F.R.E.N.
MIKE WILL MADE-IT
Ransom 2
(EarDrummers / Interscope)
Prima che veniate a lasciarci le buste infuocate con dentro la cacca davanti alla porta della redazione vorrei mettere in chiaro che lo sbrattino qua sopra non è dato dalla qualità delle produzioni dell’ottimo Mike Will, né dalle strofe scritte dai 327193612 rapper che il suddetto ha coinvolto nel suo primo album in studio. È dato dal seguente fatto: perché un album di un produttore diventi qualcosa di più di un simpatico passatempo e/o fonte di $oldi deve avere qualche elemento attorno che lo renda significativo per una scena, un genere, una città—qualcosa. Tipo, Novecinquanta è un classico perché ha cristallizzato un movimento allora in totale fermento in un mega-album collaborativo come mai se ne erano sentiti in Italia, cementando al contempo la figura di Fritz come grande producer. Ma Ransom 2 che senso ha per Mike Will? Ci dice qualcosa di più su di lui o sulle sue produzioni? Ci racconta la sua Atlanta in un modo nuovo e originale? Lo fa raggiungere un livello più alto? Un cazzo. È solo una scusa per mettere insieme un botto di rapper e fargli fare dei versi ok, o molto ok, su produzioni ok, o molto ok.
BALORDO DELLA CRICCA
CATERINA BARBIERI
Patterns Of Consciousness
(Important Records)
Caterina Barbieri, dopo un paio di anni di live in cui si è fatta notare un po’ in tutta Europa, arriva finalmente alla sua prima uscita in LP con questo doppio su Important Records (che attraverso la sua tape-label Cassauna aveva già pubblicato il suo precedente Vertical), etichetta che già di per sé è una garanzia e, come se questo non bastasse, con il pesante endorsment di Alessandro Cortini. Strutture ipnotiche, algoritmi, sottili cambiamenti atti a perturbare la sicurezza data da quello cui ti aveva abituato nei minuti precedenti, il lavoro dell’artista di origine italiana ha come scopo quello di mettere in contatto con strati di coscienza sepolti e che forse abbiamo dimenticato. Ha bisogno – indubbiamente – di attenzione, ma questa viene sicuramente ripagata dal lavoro di Caterina, sospeso tra momenti di sperdimento e quelli di riconoscimento di sé, per un disco di grande fascino, che ricorda niente di meno che l’andamento delle vite di noi tutti. E che in questo, nonostante le sonorità aliene, si rivela anche sorprendentemente molto umano.
CARLO CRACCO
CJ RAMONE
American Beauty
(Fat Wreck)
Se il numero di ascolti di “Rockaway Beach” e “Glad To See You Go” fosse il criterio secondo cui viene affidato il copyright del nome Ramone alle persone, sono sicuro che i veri fan dei fratellini di Forest Hills avrebbero già strappato i gradi al giovane CJ da anni. Un disco come American Beauty è un vero e proprio disastro: rockismo reazionario senza nemmeno la cosa bella del rock reazionario, ovvero i riff—sostituiti da fotocopie di fotocopie dei, beh, tre accordi alla Ramones, masticati e rimasticati e cagati e ricagati dal grande signor Creosote del pop punk anni Novanta. Se l’idea che ha CJ di innovazione e stimolazione dell’interesse del pubblico è l’agghiacciante ballata wannabe springsteeniana con quei piruli country da fucilazione che è “Before the Lights Go Out”, il suo livello di ambizione artistica è veramente imbarazzante. Questo è un album che andrebbe messo su un razzo e sparato al centro del Sole, e la cosa più deprimente è che in Italia, ultimo bastione del fanatismo ramonesiano più mentalmente chiuso, avrà più successo che in tutti gli altri paesi del mondo messi insieme.
GIANGI LO STRAIGHT-HEAD
PALLBEARER
Heartless
(Profound Lore)
Gli Americani, diciamocelo, sono esseri immondi. Da Scientology a Trump, passando per Hollywood e i fast-food, ce la mettono tutta per confermarsi ogni volta un po’ più imbecilli. Poi però, tra un rilancio dei combustibili fossili e un’esportazione della democrazia, spuntano i Pallbearer. Al terzo disco, è ormai il caso di dire che che i ragazzi di Little Rock sono il miglior prodotto dell’Arkansas dopo Johnny Cash, superando con distacco concorrenti diretti e agguerriti come le paludi del Mississippi, John Grisham e Bill Clinton. Ed è forse proprio l’Arkansas a dover essere esorcizzato attraverso tutta questa tristezza, questo disagio insostenibile, questo doom struggente. “Perché, Dio, ci hai fatto nascere in Arkansas? Fossimo stati in California oggi saremmo felici, saremmo diventati i Blink 182. E invece ci hai piazzati qui, nel deretano del mondo.” Meno male che invece i Pallbearer sono nati nel mezzo del cazzo di nulla, così anziché andare alle feste in piscina hanno iniziato a suonare, anziché crescere felici e spensierati sono venuti su tristi e sconsolati, anziché diventare i Blink 182 sono diventati i Pallbearer.
AGRICOLTORE PLUMBEO
GEOTIC
Abysma
(Ghostly International)
Vi piace stare al sole in maglietta in pausa pranzo, stendervi su un’aiuola e sentire i raggi cuocervi il viso mentre fate finta di non pensare al riscaldamento globale che ucciderà brutalmente i nostri figli, eh? Anche a me, molto. E quindi sono in costante ricerca di musica che mi faccia sentire proprio così: abbastanza rilassato e felice da ignorare le imminenti catastrofi geopolitiche internazionali. Tipo, l’ultima volta mi è capitato con l’ultimo di Bibio, che sembra un disco degli Allman Brothers e di Pat Metheny e degli ABBA ma tutto fruscioso e carezzevole. E invece stavolta mi è capitato con Abysma di Geotic (che è Baths), che vi permetterà con la sua elettronica tutta quieta e al limite del ballo di risparmiare quei 100 euro che avevate messo da parte per andare alle terme come i vecchi che state diventando e sentirvi ugualmente belli distesi e stiracchiati. Prego.
IL FRINGUELLO
AJATTARA
Lupaus
(Svart)
C’era una volta un uomo che cantava in due gruppi splendidi. Poi, un giorno, deciso a dare una svolta alla sua vita professionale, quell’uomo abbandonò entrambi i progetti per concentrarsi su qualcosa di suo, qualcosa di personale. Problema: quel qualcosa di personale ne uscì una cacata. In pillole, la storia di Pasi Koskinen. Il risultato è che gli Amorphis e gli Shape Of Despair si ritrovarono senza cantante e che lui nel giro di qualche anno decise pure di chiudere baracca con gli Ajattara, salvo riesumarli proprio in occasione di questo Lupaus. Come preventivabile, potevamo tutti farne a meno: nove brani che non passano più, con meno personalità del mio comodino Ikea seminuovo e dalla retorica vecchia e stanca. Lucifero qua, Belzebù là, preti fetenti di su, ammazziamo tutti di giù, quaranta minuti di satanismo in tempi medi che lasciano del tutto indifferenti, non mordono mai, non stupiscono mai, non interessano mai. Sei anni di quiescenza e lontananza dalle scene evidentemente non hanno portato grande ispirazione al buon Pasi, che pure di cose molto belle nella vita ne ha fatte diverse. Non con gli Ajattara, però. La Finlandia ha di meglio da offrire.
CAMPO DELLA MONOTONIA