Música

Le recensioni della settimana

Noisey è cresciuto e non usa più le faccine col vomito, ma le recensioni restano sempre scritte da persone piene di problemi che non vogliono necessariamente essere prese sul serio.

BRAND NEW
Science Fiction
(Procrastinate! Music Traitors)

brand new science fiction recensione review copertina cover album streaming mp3 2017

Quando dici le parole “Brand New” a un tizio che ascolta musica puoi ottenere le seguenti reazioni: 1) “OMG LA MIA BAND PREFERITA DI SEMPRE THE DEVIL AND GOD ARE RAGING INSIDE ME DISCONE”; 2) “Mah, non li ho mai cagati tanto”; 3) “Che palle, MTV non fa più i programmi di una volta”. Io ricado nella seconda categoria, nonostante sia noto per essere l’emo del circondario non ho mai ascoltato per intero un disco di Jesse Lacey e soci. Morale, arrivo all’ascolto di Science Fiction senza super aspettative e posso dire che è ok, ma puzza un po’ di vecchio, aka mi sembra un disco di cui mi sarei innamorato visceralmente se fosse uscito quando avevo quattordici anni. Ci son momenti in cui sembra di sentire, boh, i Nirvana, i Tool—insomma, “451” per metà sembra un pezzo del Marilyn Manson della Golden Age of Grotesque coi chitarroni tutti cazzoduro e il testo che parla del fallimento della società. E un po’ stona tutto questo in un contesto in cui si cerca di trattare temi come salute mentale, problemi relazionali e la fine del gruppo stesso, e lo si fa in modo efficace: “Lit Me Up”, “Batter Up” e soprattutto “Could Never Be Heaven” (maronna le acustiche così che storia) sono abbastanza evocativi e fragili da giustificare l’equazione Brand New = leggenda. Morale: se a sedici anni vi sparavate Deja Entendu in cuffia per caricarvi mentre andavate al liceo la mattina indossando una maglietta dei Saves the Day, Science Fiction è il disco perfetto per dire ciao ciao agli straccetti che restano della vostra adolescenza e farlo con gioia. Altrimenti, è un disco scritto da un tizio che sa bene come esprimere le proprie lacerazioni interne e ha alzato il volume a 11 per la sua ultima opera, con risultati buoni, a tratti ottimi.
SALVO DEL GF1 (EA)

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LIARS
TFCF
(Mute)

liars tfcf recensione review copertina cover album streaming mp3 2017

Non vale neanche la pena di stare qui a parlare di dati circostanziali come il fatto che questo disco sia totalmente diverso dai precedenti (sai che novità) o del fatto che sia un parto del solo Angus Andrew, abbandonato (amichevolmente o meno, chissene; di sicuro definitivamente) da Aaron Hemphill. Theme From Crying Fountain svolta il suono dei Liars in direzione di un capanno nel bosco, scegliendo un approccio intimista e ultra-onesto sonorizzato con synth da quattro soldi, drum machine ultradistorte, chitarre elettriche comprate al supermercato, addirittura inediti suoni acustici. Il songwriting naturalmente si associa a questa attitudine, abbandonando la foga discotecara di Mess per concentrarsi sul comunicare solitudine, malinconia, il tentativo di accettare se stessi per quello che si è. Mi viene da dire che TFCF è probabilmente un disco-esame di coscienza, in cui Andrew gioca al gioco di trovare se stesso: come tutti i procedimenti di questo tipo, il risultato è perlopiù triste, ma non solo; nella seconda metà, la tripletta “No Tree No Branch”, “Cred Woes” e “Coins In My Caged Fist” riprende l’attitudine ironica, caotica e danzereccia di certi vecchi Liars. Preparatevi a spararvi TFCF durante il vostro prossimo lungo viaggio.
MISS MESS (GS)

SHACKLETON WITH ANIKA
Behind The Glass
(Woe To The Septic Heart)

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Penso sinceramente che Sam Shackleton sia una delle due o tre figure chiave nella musica degli anni dopo il Duemila. Prima con la Skull Disco, poi con una serie di EP fondamentali, è partito dal calderone dubstep ma ha dimostrato di essere uno dei veri cavalli di razza del giro, uno con una visione. Poi è impazzito ulteriormente, come tutti i migliori, ed è partito per il viaggione psichedelico. Nell’ultimo anno ha fatto uscire tre dischi: uno molto coilesco con il tenore Ernesto Tomasini, uno con Vengeance Tenfold, e infine questo con la cantante Anika. Un amico mio dice che se avesse fatto uscire un disco solo con i tre o quattro brani stupendi di questi tre lavori avremmo per le mani un capolavoro assoluto, e anche un disco più vario. Ma siamo contenti anche di avere in casa tre dischi “soltanto” bellissimi. Ho visto da poco il live di questo album, con i due musicisti affiancati da un tastierista e da un percussionista (mallet soprattutto), nonché da due persone addette ai visual, dipinti e animati dal vivo, ed è stato fra i migliori che abbia visto negli ultimi tempi, sul finale sembrava davvero di stare in un sogno. Ascoltate questo disco, e lode a Sam Shackleton.
OLGA ZUCAI (FS)

KMFDM
Hell Yeah
(earMUSIC)

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Tornano gli storici paladini dell’industrial rock politicizzato, decisi a denunciare le malefatte dei sistemi neototalitari e in particolare degli USA, che loro hanno conosciuto bene avendo un largo seguito laggiù. Hanno dichiarato che in questo disco collidono il loro passato e il loro futuro: questo in parte è esatto, in quanto in alcuni brani vanno come missili e cercano di utilizzare un suono “giovane”, ma fondamentalmente sono ancorati a una maniera che rimane al 1984: attitudine industrial classica quindi, batteria e chitarroni parlano chiaro, così come i testi che vogliono essere di denuncia, ma risultano troppo didascalici, tanto che potrebbero essere più antisistema le frasi dei Baci Perugina. Non è necessariamente un male, ma se una volta il tuo acronimo era Kill Mother Fucking Depeche Mode, insomma… ti devi dare da fare: anzi, industriare, per salvare ovviamente l’industrial.
TRAPANI A SORPRESA (DB)

GUIDED BY VOICES
How Do You Spell Heaven
(Guided By Voices Inc.)

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Questo è il ventinovesimo album dei Guided By Voices, senza contare le altre decine e decine di album degli altri centomila progetti paralleli di Robert Pollard, che dei Guided By Voices è il signore e padrone. Com’è? Uguale a tutti gli altri, diciamo. Quello fanno. Se ti piace quel suono lì schifo non ti farà, se non ti piace l’indie rock lascia perdere. Capisco che uno che ha scritto circa duemila canzoni e che fa lo stesso disco da trent’anni possa stare sul cazzo o avere rotto i coglioni. A me Pollard non riesce a stare antipatico, anche se ascolto un disco ogni venti che ne fa uscire, e resto legato poi soprattutto a quei soliti tre o quattro capolavori (Propeller, Bee Thousand, Alien Lanes, Under The Bushes Under The Stars), e per il resto è il classico artista che non si sa regolare, che scrive troppo, che pubblica troppo, che lascerà dietro di sé un sacco di roba inutile e qualche gemma sparsa qua e là in un catalogo sterminato. Ma è anche vero che in fin dei conti non si può neanche accusarlo di sciacallaggio, insincerità o furbizia, perché con questa roba non ci è neanche diventato ricco. Inoltre sto dalla sua parte perché è un genio, è uno che si è inventato un suono, che sa scrivere canzoni di Cristo, che non si può dire che abbia perso il tocco perché alcune zampate le azzecca ancora (in questo disco in particolare di pezzi che si potrebbero salvare per un eventuale, gigantesco, best of ce ne sono svariati), che non si è mai risparmiato, e sopratutto perché (forse la cosa che più me lo rende simpatico) è uno che ha sperperato il suo talento mettendo sistematicamente le idee melodiche con cui altri avrebbero fatto tre canzoni complete, tirate in lungo, e centrali nelle proprie discografie, in pezzi buttati via in due minuti scarsi.
POLPO PAUL (FS)

A$AP FERG
Still Striving
(ASAP Worldwide / Polo Grounds Music / RCA)

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Raga, ma quanto è migliorato A$AP Ferg? Cioè, quando ha esordito aveva avuto il culo di buttar fuori subito dei singoloni assassini, cioè “Work” e—soprattutto—”Shabba”, riuscendo in un solo colpo a informarvi dell’esistenza di uno dei cantanti giamaicani più fichi della storia, a incidere nella vostra corteccia le parole “SHA-SHABBA RANKS, SHA-SHA-SHABBA RANKS” e a usare uno dei versi d’apertura più WOOOH della storia del rap recente, cioè “Short nigga but my dick tall” (per essere chiari, sul podio c’è ancora Future con “I just fucked your bitch in some Gucci flip-flops”). Poi per il resto se la trappava ok, ogni tanto cacciava la bombetta ma negli ultimi quattro anni non è mai riuscito a ripetere il misto tra esuberanza e ignoranza che aveva reso così fighe le sue prime cose: tipo, per quante views può fare “New Level” è comunque un pezzo stanco rappato con la stessa eccitazione che provo io quando vado in posta a metà mattina a ritirare un pacco e l’ufficio è pieno foderato di vecchi stanchi e mamme con carrozzine e bambini che piangono e il loro pianto mi entra nelle vertebre si fa strada fino al cervello e grida, grida nelle mie sinapsi tutta l’assurdità dell’attesa. Comunque, tutto ‘sto pippone per dire che Still Striving è il progetto più forte di Ferg dai tempi di Trap Lord. Perché Always Strive and Prosper era tutto introspettivo, aveva il pezzo per la nonna, i pensieri sulla fama e le relazioni; il che è ok e ha permesso a Ferg di dimostrare di avere qualche dimensione lirica in più di “mi scopo la tua tipa e le sborro in faccia”, ma era anche appesantito da scelte musicali di maniera o fuori tempo massimo (il pezzo LOLWUBWUBWUB con Skrillex? Nel 2016?). Still Striving invece è per la maggior parte una serie di trappate senza troppe pretese che però risulta efficace a schifo e, sparato da un paio di casse come si deve, vi farà fare i balli del sabato sera. Aggiungiamoci la giusta dose di narrazione personale—vedi “Tango”, in cui Ferg parla della morte di suo padre, del suo rapporto con la mamma di A$AP Yams, di quanto è bello poter parlare e venire ascoltato dai suoi idoli—e possiamo dire che stavolta Ferg ha vinto e sta sentendo il tintinnio delle monete che scrosciano dalla macchinetta e gli ricoprono i piedi.
A$AP VACCHI (EA)

ANDREA BELFI
Ore
(Float)

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Continua la saga dischi sotto l’ombrellone con l’ultima fatica di Andrea Belfi: già dal titolo possiamo immaginarci ore sotto al sole con nelle cuffie la sua curatissima musica elettroacustica sperimentale concentrata su percussioni e synthini mezzi microwave. Perché alla fine mentre lo ascolti vieni trasportato dalle sue onde e scatta il pisolino, poi ti svegli e ti ritrovi venduto in pizzeria come pollo alla diavola. Ed è una cosa buona, perché a volte l’elettroacustica non fa neanche dormire, rompe le balle e basta. Il Belfi in realtà rischia grosso, perché dopo un inizio giusto sembra finire nelle grinfie dell’accademia e dei trucchi del mestiere, ma poi prende la goletta sonora e la indirizza verso una bella isola con la doppietta “Ton” e “Syncline”, in cui è chiaro che lui fa la sua cosa, ha il suo mondo, e non è certo fare il fico che gli interessa—quindi se ci si entra bene, sennò pazienza. D’altronde anche il mare a volte stanca. Per cui, ecco, questo disco potrebbe anche diventare un classico del genere, perché no. Ma è importante questo? Non credo: io l’ho ascoltato, l’ho trovato ok e ora mi vado a fare uno spritz, questo mi basta.
ANDALUSO ADUSO (DB)

PETER PERRETT
How The West Was Won
(Domino)

peter perrett how the west was won recensione review copertina cover album streaming mp3 2017

Come è già stato detto altrove, che questo disco sia bello o brutto non è poi così importante. La cosa allucinante è che esista, che sia suonato e cantato da Peter Perrett in persona. Sì, perché uno come il frontman degli Only Ones, con la sua storia ultratrentennale di eroina e crack, dovrebbe essere morto già da un po’. Superato lo shock di risentire la sua voce nasale, in apparenza invariata dal 1977, sempre in bilico tra il ghigno di scherno e il lamento dello sconfitto, How The West Was Won è chiaramente un disco che ha due vite molto separate: quella nelle orecchie di chi è un fan degli Only Ones, come il sottoscritto, e quella nelle orecchie di chi sente Perrett per la prima volta. Anche nel secondo caso, inaspettatamente, credo ci siano vari appigli per rimanere affascinati dal suono dell’album: alcune canzoni, come il singolo “An Epic Story”, sono ultra pop, zuccherosissime, con riff e melodie che riprendono lo stile da ballata power pop degli anni Sessanta e Settanta, ma aggiornati a suoni quasi indie UK (la band, del resto, è composta dal figlio di Perrett e da suoi coetanei). Per chi è già fan, come dicevo sopra, la prima gioia è quella di risentire la sua voce; poi arriva la consapevolezza che questa band non è per nulla all’altezza degli Only Ones, con le sue soluzioni forzatamente attuali come la neo-psych “Living In My Head” che nel ’79 sarebbe stata orgasmicamente rumorosa e invece qua è imbrigliata nei riverberini e nelle chitarre-sitar alla, che ne so, Black Angels e quelle robe lì (grrr che rabbia). Ma del resto che senso ha lamentarsi del fatto che un disco del 2017 suona come un disco del 2017? Meglio godersi le melodie folli e i testi al solito divertentissimi di Perrett, e un songwriting ancora perfettamente degno di volume alto, air guitar e pugni agitati verso il cielo. Poi a seconda della vostra fragilità emotiva magari vi scende anche una lacrima; noi di certo non lo diremo a nessuno.
ANOTHER GIACOMO ANOTHER PLANET (GS)

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