Ieri sera verso le undici, invece di riposarmi, ero al computer a trascrivere su un Google Doc il testo di “La U” di Rkomi. La prima volta che l’avevo sentita, ormai un paio di settimane fa, ci ero rimasto stranito. Che cos’era quel ritornello tutto ballabile senza l’ombra di un testo? E quella trombetta da hit estiva? Venivo dal pezzo con Elisa e mi ero già beccato un coretto “woah-oh-ah-oh-ah”. Mi aspettava ancora quello con Jovanotti. Brrrrrr.
Quella di ieri sera sarà stata la decima volta che ascoltavo “La U”, ma la prima che mi sono fatto davvero lo sbatti di mettermi ad ascoltare nel dettaglio tutto quello che Mirko aveva da dirmi. E così quello che mi sembrava un pezzo sciocco che parlava di una tipa si è rivelato all’improvviso… un pezzo sciocco che parla di una tipa, ma che lo fa nel migliore dei modi possibili.
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La mia tesi è che Dove gli occhi non arrivano ha un grosso difetto e un grosso pregio. Il difetto è che a tratti si adegua alle regole del pop italiano invece di imporre un nuovo modello di fare pop. Il pregio è che presenta alle masse lo splendido ghirigoro che è la scrittura di Rkomi, che non ha snaturato la sua voce ma l’ha calata in un contesto che rifiuta qualsiasi integralismo derivato dalla cultura hip-hop.
Cominciamo dal difetto. Dove gli occhi non arrivano è un disco che ha come riferimento il pop italiano, quello che—come canta Mirko nel primo brano—”cantano le mamme nel traffico in tangenziale”. Quello che causa un senso di rifiuto in un sacco di gente ma (ed questo è il punto) meno di quella che potenzialmente potrebbe ascoltare Rkomi. E allora, se lui non ha particolarmente a cuore il fatto di essere un rapper, perché non provare a rivolgersi anche a loro?
Forse era un po’ un abbaglio che ci eravamo presi tutti, quello di Rkomi come nuova voce introspettiva del rap di strada italiano. Inconsciamente ce ne aveva già dato un indizio in “Dasein Sollen”: “Non mi credo mica meglio di loro / Però ci credo più di quanto abbia mai fatto in passato.” Un rapper che non si crede meglio degli altri? Davvero?
Io ci avevo letto umiltà e tenacia, mi ero gasato. Ma mi ero fatto un’idea di Mirko diversa da quella che lui si stava facendo di sé stesso, modellato dalla sua vita che cambiava. Per me sarebbe potuto essere un ponte tra generazioni di rapper; e invece questo album lo rivela come un artista il cui messaggio è riconducibile all’affermazione “Fammi cantare quel cazzo che mi pare”, detta con un sorriso sul viso e un maglione colorato addosso.
Il nuovo Mirko ha fatto un disco che segue poche, semplici regole: è suonato, accogliente, caloroso e privo di spigoli, tutte cose che Dasein Sollen non era e Io in Terra e Ossigeno erano solo in parte. È andato in Sud Africa a comporre i brani con dei musicisti del luogo, le cui parti sono state poi in buona parte ri-arrangiate e ri-registrate sotto la supervisione di Charlie Charles. Accanto si è messo solo giganti del pop (Elisa, il Jova, Dardust) e del rap diventato così grande che si è fatto pop (Ghali, Sfera, Carl Brave).
Dove gli occhi non arrivano tiene infatti sempre il suo mignolo agganciato a quello del nuovo rap italiano, anche solo per un giro di hi-hat o un incedere del ritmo, ma stringi stringi è un disco pop fatto con gli strumenti. “Blu” è dominata da una chitarra con il wah wah, “Boogie Nights” è scandita da accordini in levare e interventi di tastiera, “Canzone” è soft rock, “Cose che capitano” è funk col basso anni Ottanta, “Per un no” è pop ballonzolante. Insomma, è il prodotto finale ideale del lavoro di una scuola di musica, quelle che allenano i propri alunni a diventare turnisti per cantautori.
Purtroppo tutti questi sono elementi ancora importanti per rassicurare la radio e la televisione italiane che tu sei un musicista, perdio, e non un debosciato con i tatuaggi in faccia che convince i ragazzini a provare la codeina. Ma in un’ottica di avanzamento della forma-musica, sia essa pop o rap o “quel cazzo che gli pare”, è una mezza sconfitta. Perché non impone un nuovo modo di fare musica di successo ma china il capo di fronte allo status quo ed entra di diritto nel mondo di quella che è percepita come musica-che-conta in Italia—e lo è perché rassicurante e innocua. Fino a qualche anno fa, il pop italiano era musica scritta “sempre dai soliti quattro vecchi”. A questo giro l’hanno scritta ed eseguita anche i giovani, ma seguendo in parte le regole dei vecchi.
Una mezza sconfitta è però anche una mezza vittoria, e qua arriviamo al grande pregio di Dove gli occhi non arrivano. È un disco che non mente sulla sua natura, non cerca di fregare nessuno e molto probabilmente porterà il flow di Rkomi nelle orecchie di gente che non se lo sarebbe mai cacato altrimenti e non ha l’aura di patacca che circondava il disco di Fedez. Il discrimine, in quel caso, era il fatto che non riuscissi a percepirlo come “l’opera d’arte di una persona che ha messo un pezzo di sé in qualcosa di tangibile.” Mirko invece ce l’ha fatta e lo possiamo capire tutti, a patto di ragionare sul concetto di “genere”.
Per farlo, parliamo di videogiochi. Guardando un video mi sono trovato di fronte un articolo di un ragazzo americano che si interroga sul modo in cui valutiamo i prodotti che sfidano le convenzioni e creano ponti tra generi. A un certo punto, afferma che “spesso la qualità di un gioco all’interno di un genere è definita dall’aderenza o dall’abilità di emulare aspetti delle sue pietre miliari.” Ed è un problema, perché così si crea un’idea immobile di quello che un gioco dovrebbe essere. Si diventa puristi e si sorvola sui lati positivi di opere perfettamente godibili.
Applichiamo questo ragionamento alla musica: quante volte avete sentito la frase “ma questo non è rap”? Tante, perché se fai rap la qualità del tuo prodotto viene automaticamente messa a confronto con dischi dei grandi rapper. E nella mente collettiva Rkomi era questo: il giovane portento del rap che piaceva anche ai vecchi. Seguendo questa logica, Dove gli occhi non arrivano è una ciofeca. Ma questa logica è schiava delle divisioni, della polemica, della chiusura mentale. Trova nelle regole una sicurezza o, più semplicemente, si accontenta di mangiare sempre la solita minestra.
Rkomi invece, come dice con un’immagine naïf in “Canzone”, non sogna “la solita minestra” ma “un passato di verdure, un futuro di ricchezza”. Ha smesso di fare il serio, ha smesso di considerarsi solo un rapper, ma scrive come ha sempre fatto. I testi di Dove gli occhi non arrivano sono puro Rkomi: assonanze, allitterazioni, parole che escono dal verso, immagini vivide, vocaboli pazzi. In un contesto come quello delineato qua sopra, hanno un valore piuttosto grande. Ghali e Sfera sono immediatamente comprensibili; quando ascolti Rkomi, dice lui stesso, “se non hai il testo davanti non capisci il sottotesto”.
Nel disco Rkomi parla più che altro di relazioni e di quant’è bella la musica, ma lo fa come nel suo nuovo campo di gioco non fa nessuno. Va veloce, scrive strofe in cui accatasta immagini per poi buttarle giù con ritornelli semplici, se non addirittura ridotti all’osso. “La U” è un pezzo con la trombetta estiva, sì, ma che nello spazio di quattro versi passa per un cuscino morso per l’ansia e le ricadute che questa ha su una relazione, l’autocoscienza della propria emotività (“Dire di no a fatica e puntare i tuoi occhi come il foglio la matita”), un tentativo di stare meglio fallito in partenza (“Al massimo ci minimizzo i miei pensieri scomodi, come no”) e un’apertura alla bellezza del caso (“Correrò, al prossimo incrocio la mia prossima vita”).
Le figure femminili accompagnano Mirko per buona parte del disco e sono perlopiù evanescenti, incostanti, interrotte. Mordono cuscini, hanno incubi, si piangono addosso. Quella di “Visti dall’alto” erompe dal testo in una fantasia alcolica che trova come termine di paragone della coppia un paio di scarafaggi. Quella di “Alice” è disegnata a tratti incerti, come lei di fronte allo specchio. Quella di “Gioco” è spontanea e sensuale, ma illeggibile. Quella di “Impressione”, come quelle che è solito cantare Carl Brave, è confusa e felice e un po’ tonta.
Il bello di Mirko è che non si mette sempre sopra alle persone per cui e di cui canta. I momenti sbruffoni sono infatti quelli che funzionano meno: i ritratti di “Impressione” con Carl Brave, la generica happy trap da seduttore di “Mon Cheri” con Sfera Ebbasta, i vuoti racconti di sesso veloce di “Cose che capitano”—che vengono però rimessi in carreggiata dal ritornello: “Sono cose che capitano ma lei non capita mai / Vorrei mi cada sul palmo, che viziato del cazzo.”
Quando Mirko si cala nella stessa melma emotiva delle ragazze che canta, infatti, lascia entrare l’ascoltatore nel cantiere in divenire che è la sua emotività, ed è una figata. Ad “Alice” regala ciclamini e legge libri pur di riuscire a dire alla sua lei “cosa ha senso” e che cosa pensa. Nella titletrack chiede alla sua lei di correre insieme, e spera di non inciampare, in “Blu” prova tutto anche se non gli sembra mai di fare abbastanza, in “Per un no” si interroga sul suo egoismo e i momenti in cui la voglia prende il sopravvento.
Rkomi è ancora un ragazzo che si emoziona e scrive di petto. Per lui le insicurezze sono acqua, e pian piano sta imparando a nuotarci dentro. L’impressione è che non considerarsi più “un rapper” significhi per lui abbassare seriamente il rischio di annegare. Lo ha confermato in un post su Instagram in cui si mostra, sorridente e steso per terra, con addosso un maglione con un numero eccessivo di colori: “Nel periodo in cui ho scritto l’album ero stanco di giocare ad essere qualcuno o di giocare ad avere qualcosa. Noi siamo già qualcuno ed abbiamo già qualcosa. È allora che ci si eleva e ci si arricchisce.”
“Ti piaccio come sono solo dopo un consiglio / Di un altro, intendo”, dice Rkomi in “Mikado”. Io sono quell’altro, e a un primo ascolto il nuovo Mirko non mi era piaciuto per quello che era. Poi però ci ho ragionato, l’ho ascoltato meglio e l’ho sentito più felice e disteso di prima. Ed è importante che lui sia a suo agio, che ascolti le persone di cui si fida, che scelga una strada da percorrere. Il mio consiglio-da-altro è quello di dargli un’opportunità. Certo, dovrete sopportare Jovanotti e momenti di rock generico. Dovrete accettare l’idea di stare ascoltando un disco pop italiano sporcato di rap. Ma almeno la voce di chi ha i riflettori puntati addosso dice cose uniche, in un modo unico, e forse per la prima volta non si sente accecato dalla luce.
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