Rockstar di Sfera Ebbasta è una manna dal cielo per ogni testata musicale italiana, ed è arrivata proprio nel momento del bisogno. Appena Facebook decide che il suo algoritmo andrà a danneggiare la reach organica delle pagine, privilegiando i post dei propri amici e contenuti che stimolano discussioni, esce un album su cui tutti, noi compresi, hanno un’opinione. Il motivo più viscerale e fondamentale di questo fenomeno è la fandom che si è creata attorno a Sfera e Charlie, quella dei ragazzi e delle ragazze che hanno cominciato ad ascoltarli con XDVR e si sentono quindi legittimamente parte integrante del loro percorso artistico. Rockstar è per loro, ragionando per estremi, o la realizzazione definitiva del sogno di fama che pulsava tra le strofe di quel primo mixtape o la perdita della genuinità di quelli che erano, fino a poco tempo fa, normalissimi ragazzi di periferia che volevano svoltarla col rap. Nel primo caso, si tratta di idolatria; nel secondo, della venuta a mancare della qualità più grande che un musicista può avere, cioè la capacità di far sì che chi lo ascolta si identifichi in lui.
Credo che Rockstar sia un album con i suoi pregi e i suoi difetti, che si faccia sempre più piacevole di ascolto in ascolto e che possa essere apprezzato fortemente anche da chi non ha mai messo Sfera e Charlie su un piedistallo. Perché questo accada bisogna però accettare un paio di condizioni. La prima: il nulla contenutistico può riempirsi di significato proprio in quanto tale. La seconda: i confini tra rap e pop sono sempre più labili, e interpretare Rockstar partendo dal presupposto che appartenga a una singola tradizione musicale significherebbe pregiudicarne l’analisi.
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Entrambi questi aspetti appaiono nell’intelligente analisi di Claudio Todesco che, concentrandosi sulla semantica nella sua recensione su Rockol, parla con rassegnata ma lucida amarezza dell’album di Sfera come celebrazione dell’individualismo e del materialismo, in contrapposizione all’ideale di “liberazione collettiva” proposto dalle rockstar di un tempo. Il suo ragionamento, conclusione di un giudizio più negativo che positivo, è introdotto dalla chiusura di “20 Collane”—quello che credo essere il brano che contiene la lettura più azzeccata di ciò che Sfera Ebbasta sia oggi.
Sfera Ebbasta piace a tutti, come il McDonald,
Come i soldi, le modelle e l’erba buona,
Come Cristiano Ronaldo o Maradona,
Come dire che in Italia niente funziona.
Qualsiasi analisi della società nel senso più ampio possibile è riduttiva e semplicistica, ma credo che parlare di un generico “noi” come “ascoltatori di Sfera”—perlopiù maschi occidentali ed etero—sia necessario in questo caso. È dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che si parla di tardo capitalismo e del suo imminente collasso, ma nonostante crisi e grida e casini e guerre e proteste il sistema sembra ancora funzionare alla perfezione: c’è chi si arricchisce e alza lo sguardo, c’è chi resta indietro e abbassa la testa, e in mezzo un casino di persone disilluse che non sanno bene da che parte girarsi e provano ad arrivare alla fine della loro vita dignitosamente. E gran parte del rap di successo, oggi, parla proprio a questa massa informe tra i due estremi stuzzicandone le fantasie di privilegio. Il rovescio della medaglia è proprio la miseria, umana ed economica, usata come spauracchio e punto finale del canzonare continuo alla base dei testi di questa branca del rap: “Tu la porti a casa ma non te la chiavi / Ti senti il migliore, ma non te la cavi”, nelle parole di Sfera.
In “20 Collane”, Sfera è in pura modalità autocelebrazione. Spunta tutte le caselle di un’ideale checklist del rapper che si dice che è figo ed è partito dal basso: ci sono i soldi, le donne, l’attenzione della gente, il rispetto per i compagni e per la madre, lo sminuire un generico altro di cui dicevo qua sopra. Ma quando comincia a paragonarsi al McDonald’s, probabilmente senza volerlo, introduce un cambio di prospettiva inaspettato e illuminante. Dire di essere come un fast food significa affermare la propria onnipresenza, più che la propria qualità: non è dire “sono il più bravo”, ma “sono il più famoso”. Significa accettare e abbracciare con gioia la propria medietà testuale, piacevole esattamente in quanto tale. E non è un caso che l’unico ospite italiano sul disco sia DrefGold, un rapper la cui barra più famosa è “Se ascolti la mia merda dici fanculo al messaggio”.
Attenzione: Sfera non sta celebrando il nulla, ma il sistema in cui vive e in cui è cresciuto, e che da decenni fa funzionare la sua—la nostra—esistenza, che si è evoluto ed estremizzato creando l’1% e il 99%, arricchendo pochi e impoverendo molti. La Rockstar che narra la sua stessa storia è un maschio etero, come quelli che dominano il mondo, e snocciola i suoi godimenti, stuzzicando la fantasia di altri maschi etero come lui. Gli piace il calcio (come, guarda caso, ai maschi etero) ma non idolatra eroi falliti o giovani promesse. Cita Maradona, fenomeno folgorante scavato dagli eccessi della fama, come a cercare di farsi passare la paura “della vita e della morte”; e Cristiano Ronaldo, espressione massima dell’individualismo e del culto della personalità in ambito calcistico. Sulle partite, tutti hanno un’opinione; su Rockstar, tutti hanno un’opinione.
E tutti hanno, soprattutto, un’opinione sul posto in cui vivono e sulla nazione in cui votano. E qual è l’opinione più comune e condivisibile, nell’era del gentismo internettiano? Che “in Italia niente funziona”. Sfera non fa però il Di Battista o il Di Maio della situazione, facendosi megafono di generiche lamentele primordiali e tribali: accetta con gioia, suggerendo un occhiolino a chi lo disprezza, un paragone tra sé stesso e il problema. Sfera è pura accettazione delle conseguenze estreme del sistema in cui vive. È il borbottio che scambi ai pranzi di natale con i tuoi familiari, troppo frustrati per poter cambiare veramente le cose, magari accecati dalla speranza di un salvatore che arrivi e li mandi tutti a casa. Non è la soluzione né la causa del piangersi addosso: è il piangersi addosso stesso, e con sprezzante e spensierata sufficienza. È l’incarnazione della vita migliore che tutti i maschi etero vorrebbero avere la possibilità di vivere.
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