Pochissimo tempo fa ho scritto un articolo in cui lodavo lo slittamento di quasi tutta l’esperienza musicale verso l’elettronica, o meglio: verso esperienze post-dancefloorizzate (sì, cominciamo subito con i paroloni). In quell’articolo praticamente dicevo no all’indie rock borghese ed edipico e sì alla dance music erotica, riottosa, anti-identitaria. Il punto, in realtà, non era la musica dance in sé ma il genere di esperienza che la cultura elettronica ci ha regalato: immersiva e basata su una tecnologia più egalitaria, dilatata nel tempo e nello spazio. Tutto questo, ovviamente, sempre parlando di musica non globalmente riconoscibile come mainstream.
Ecco, a rischio di sembrare schizofrenico, dopo averlo finito (in realtà, anche un po’ mentre lo stavo scrivendo) mi sono accorto di avere eccessivamente semplificato le cose, in una specie di botta di ottimismo con vaga scia di MDMA. In realtà, non c’era spazio per problematizzare anche la musica elettronica in un’ottica legata alla sua “violenza”. O meglio, in parte mi ci ero riferito in un altro articolo (ok, tutta questa autoreferenzialità inizia a infastidire anche me), quello sulle mutazioni post-metal dentro l’elettronica da dancefloor. Fondamentalmente, però, in quel caso non mi ero posto molto il problema del militarismo latente nella “potenza” sonica, limitandomi a dire che bastavano l’assenza di chitarre e il riferimento al godimento del groove a.. be’…. passatemi il termine, sù: de-fascistizzarla. Pure questo mi pare un ragionamento un po’ semplicistico, per quanto faccia da base a quello di cui voglio parlare ora.
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Il punto è: perché ci interessano la potenza e la violenza? E perché nella musica elettronica questo fatto presenta più sfaccettature e più problemi che nel mondo di derivazione RUOCK? In fondo è lì che è nato tutto, no? È lì che ha avuto inizio l’amplificazione, l’aumento del volume di chitarre e percussioni fino a trasformarle in un’esperienza sonica effettivamente “potente” o “devastante” . Ecco, per prima cosa al ruock, rispetto all’elettronica o a tante varietà di musica sperimentale (comprese alcune fatte con le chitarre), manca una cosa fondamentale: le basse, o meglio, manca la possibilità/necessità di generare uno spettro di frequenze più ampio e più intenso, sia per merito della strumentazione che della tecnologia di riproduzione. È proprio questa condizione a garantire l’intensità immersiva che fa la differenza.
Oltre a questo, se vogliamo davvero rintracciare le origini della tecnologia sonica, mi spiace tanto, ma come gran parte (oddio, quasi tutta a dire il vero) della tecnologia di cui oggi facciamo un uso quotidiano, essa è nata sotto forma di applicazioni militari: gran parte dei supporti su cui è stata incisa negli anni fino a gran parte degli strumenti di riproduzione, primo fra tutti il subwoofer, esistevano per essere utilizzati da un qualche esercito. Diamine, non ce lo scordiamo: pure internet era una roba militare segreta, ed è il mezzo tramite cui oggi scambiamo informazione—sia tecnica che artistica—è prevalentemente quello. Con gli anni si è poi prodotto, un ovvio rimbalzo di innovazioni: non è stato raro che le innovazioni in campo strettamente acustico-fonografico abbiano a loro volta fornito idee alle intelligence militari.
Anche in questo caso: sono le basse a fare la vera differenza, la possibilità di produrre elettronicamente una quantità vastissima di frequenze e timbriche, a un volume esorbitantemente alto. Di “armi soniche” ne esistono ancora un botto, dalle bombe sonore, con cui l’esercito israeliano mantiene alto il livello di tensione sia nella popolazione palestinese che opprime che nella propria, alle sirene utilizzate negli USA per disperdere folle in rivolta. A seconda dei casi, questi strumenti bellici possono martellare la nostra soglia di sopportazione, ma più spesso fare leva sui meccanismi neuronali ancestrali che accendono la miccia della paura, quelli per cui un rumore è una chiamata alle armi, un segnale di pericolo. Specie un grosso boato nei cieli.
Sono i neuroni che operano in una parte del cervello chiamata Amigdala, che in tutte le specie animali assolvono la funzione primaria di garantire la sopravvivenza a dispetto delle avversità più varie, dai predatori ai disastri naturali. E se credete che l’esperienza musicale sia diversa, vi sbagliate: di fatto, godersi la musica a un certo grado di intensità (dalla house all’industrial, non è necessario che questa sia oscura o rumorosa o minacciosa, basta che abbia “botta”) stimola gli stessi neuroni, solo che la consapevolezza razionale della non-minacciosità del suono genera una sorta di esorcismo che rende piacevole l’esperienza, rende la paura un godimento per esorcizzarne il male.
Non l’ho scoperto io, l’ho letto in un libro intitolato Sonic Warfare: Sound, Affect & The Ecology Of Fear, uscito nel 2010 per MIT press. L’autore è nientepopodimento che Steve Goodman, il musicista e DJ altrimenti noto come Kode9 e come fondatore-curatore di Hyperdub. È uno che ne sa parecchio sia di cultural studies (è professore associato alla University of East London) che di basse (dico, avete mai sentito la sua musica? o quella di chiunque altro sulla sua label?), e ha deciso di volere indagare l’esperienza della violenza sonora in tutte le sue forme, da quelle rimaste nel campo militare a quelle che viviamo nei club, ai rave, e in tutte le situazioni in cui ci confrontiamo con un volume che ci investe. Quello che Goodman si è chiesto è se fare la guerra figurativamente sul dancefloor o farla in un vero campo di battaglia abbiano effettivamente qualcosa in comune.
Per rispondere, ha dovuto ovviamente iniziare da quanti per primi avevano voluto estetizzare la guerra moderna e le sue tecnologie: i futuristi, in particolare Marinetti e Russolo. Per loro la guerra era un fatto di suoni e sensazioni tattili, una roba in cui l’esperienza visuale veniva per una volta messa un po’ da parte rispetto alla iperstimolazione di altri sensi. Non solo: il genere di stimoli che arrivano sono tutt’altro che naturali, anzi la natura ne è fondamentalmente sprovvista: sono stimoli artificiali, meccanici, elettronici. In questo senso non ci vede nulla di diverso dal ricercare una forma di eccitazione sensoriale come questa sul dancefloor. Lo stesso istinto animale che rende la guerra adrenalinica in senso negativo, rende la musica elettronica eccitante. Detto questo, la visione futurista sembra a Goodman fortemente miope nel suo positivismo imperialista, per cui lo sviluppo della storia sarebbe un cammino lineare per il quale il nuovo (espressione, in questo caso, della classe dominante o del vincitore in campo bellico) è sempre buono, e i cui le dinamiche di competizione e oppressione dell’altro restano presenti.
La guerra sonica è, fondamentalmente, “un uso della forza contemporaneamente seducente e violenta, astratta e fisica, attraverso una serie di macchine (biotecniche, sociali, culturali, artistiche, concettuali) che modulino le dinamiche fisiche, affettive e libidinali di corpi, popolazioni e folle. ” Nel libro, di conseguenza, individua due forze motrici che ne stanno alla base: una centrifuga e una centripeta. Una (associata a certe forme di noise) volta a “disperdere” le forme di aggregazione shoccando e disturbando, e una (identificata con forme più ritmiche) che operi l’esorcismo di cui sopra per aggregare, mettere insieme sulla base di una energizzazione positiva, un concetto di guerra costruttiva che eredita tutto da Deleuze (e ritornato poi nella Guerra Civile dei Tiqqun. Un moto collettivo in cui le necessità libidinali dei corpo si possono liberamente mettere in relazione dentro a uno scambio paritario e multi-direzionale.
È una macchina da guerra ribelle, che per Goodman funziona se contiene più afro-futurismo che futurismo. Riprendendo la categoria culturale inventata dallo studioso Kowo Eshun, identifica l’afro-futurismo con una prospettiva sul futuro, in realtà, per nulla identitaria basata su una temporalità non lineare, ma che fa rimbalzare passato, presente e futuro in un caos giocoso. Questo perché figlia di una diaspora culturale alla quale, più che rispondere con un’appello all’unità, si può reagire trasformandosi in un virus e contaminando tutti i linguaggi della classe/razza dominante. In questo senso, le forme di elettronica dance basate sulla musica “nera” (funk, jazz, dub) avrebbero generato una guerra sonica che è più una ribellione che altro, una forma di resistenza positiva. In particolare, Goodman guarda alle forme di Sonic Warfare che abbiamo ereditato dai soundsystem giamaicani, dal loro trapianto in Europa (la diaspora, appunto) e dal dub come ribellione mistica.
Certo, forse Goodman è un po’ troppo manicheo, nel senso che, proprio alla luce di questa idea di “ribellione”, identificare le forme disgreganti come necessariamente negative ed espressione di una forma autoritaria vuol dire probabilmente non vederne un certo potenziale. Allo stesso tempo, l’aggregazione può coincidere con il controllo. Bisogna quindi considerare questi due poli come contenenti a loro volta dei risvolti positivi un moto sonoro disgregante può sempre fare da deprogrammatore, disconnettere tutte le protesi che la società disciplinare ci ha innestato nel cervello. Per quanto riguarda l’aggregazione, invece, è pur sempre facile che questa si trasformi in una creazione propagandistica di consenso, tramite la presunta soddisfazione di impulsi libidinali.
Ci sono casi in cui questa contraddizione è stata utilizzata in maniera illuminante, o che semplicemente ci fa capire tante cose sulla contemporaneità. Ad esempio: il 90% dei trailer di cinema fracassone (tipo robottoni o catastrofi o simili) e videogiochi fa un uso della botta ritmica di basse, corni e tamburoni per stimolare in maniera molto semplicistica e molto molto manipolatoria le nostre amigdale, facendo un uso abbastanza paraculo della guerra sonica. Già di suo questo sarebbe il rovesciamento di un rovesciamento (e l’estremizzazione di un’estremizzazione), ma ci sono artisti che hanno provato a operare ancora un ulteriore rovesciamento e un’ulteriore estremizzazione, giocando con questi significanti a loro piacimento. Qualche nome: M.E.S.H., Rabit, Kuedo, Bloom.
Un caso che contiene molte sfaccettature interessanti è quello della collaborazione tra il musicista elettronico Ben Frost e il regista Richard Mosse. I due avevano già in passato lavorato insieme sull’ambiguità percettiva della guerra, ma in una maniera che privilegiava l’aspetto visuale. Quest’anno, invece, con la scusa di realizzare un pezzo di news per la BBC, hanno creato un video intitolato Bombing Isis, in cui le corazzate dell’esercito americano, i minacciosi aerei da guerra e i terrificanti droni vengono presentati quasi come in un trailer dei Transformers, con le simil-Cavalcate Delle Valchirie ambient di Frost a generare il presupposto sonoro per questa ambiguità, costruendo uno scenario epico mentre le immagini mostrano l’ordinata quiete e le forme perfette di questi mostri assassini pagati dai contribuenti americani. Tutta la musica di Frost oscilla da sempre sul crinale tra wagnerismo e possibilità centripete e, secondo me, spesso gli sfugge quanto il primo diventi preponderante. Certo, il fatto che lui sia una specie di He-Man ariano e si circondi spesso di musicisti che gli somigliano, iconograficamente parlando, non aiuta molto. Del resto, anche confrontarsi con ambienti più danzerecci e da club per lui è una novità, e le sue radici sono decisamente altrove. Nel RUOCK, che ve lo dico a fare…
In questo caso, però, il lavoro fatto è un po’ una prosecuzione di quanto compiuto da Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire ed SPK negli anni ottanta. Loro, attraverso sia un apparato visuale ferocissimo che uno sonoro ai limiti del sopportabile, intendevano mostrare al cittadino del primo mondo la guerra invisibile che stava combattendo, dando il consenso a una società—il primo mondo—che faceva la guerra vera depredando il terzo, o le sue stesse classi inferiori, o perfino sé stessa. Frost e Mosse, invece, ci hanno mostrato come la società si sia impegnata a glamourizzare quella stessa guerra sappropriandosi della cultura pop, della fantasciaenza soprattutto, proprio nel momento in cui la guerra si fa ancora più invisibile, perché a combattere quasi non si mandano più i soldati, ma i droni, e il nemico è una specie di armata malvagia da cartone animato (che purtroppo, però, sta ammazzando gente vera).
Esistono anche casi in cui si sia prodotto un surrogato della guerra sonica per fare la guerra alla guerra: la EDM è una forma massificata di dance elettronica in cui, proprio per il suo carattere di uber-massa non può che operare una forza centripeta “corrotta”, propagandistica, oppressiva. Non avendo nemmeno i mezzi tecnologici per generare una quantità di basse o di “non-suoni” che abbiano effetto uguale su tutti gli individui, ne ha fatto addirittura la sua forza, usando le medie al posto delle basse (ma raccontandosela comunque su bassline, cassa, drop…) per rendere infine innocuo il suono elettronico. L’obiettivo è ovviamente di venderlo alle masse senza gli elementi che lo rendono immersivo, quindi sovversivo, quindi liberatorio. In cima a questa piramide di oppressione sta il recupero dell’egotismo pop con i DJ a diventare delle vere e proprie popstar, un’abitudine che l’elettronica un tempo sembrava voler mettere via, e di cui molta parte dell’underground, per fortuna, ancora vuole disfarsi.
Attenzione: non tutto. Ogni tanto, quando guardo agli artisti più famosi di certa techno che ancora finge di essere underground mi vengono dei brividi tremendi, in quanto mi accorgo di come abbiano rappresentato una specie di avanguardia hipster dell’egemonia tedesca sull’Europa unita. Sto parlando di DJ/Producer come Ben Klock e Marcel Dettmann, e con loro buona parte del mondo Ostgut Ton/Berghain. Si tratta di maschi tedeschi, biondi, belli, alti, muscolosi ed eterosessuali, che suonano una techno quadrata e un po’ pesante ma mai aggressiva, sempre molto “sobria” e racccomandabile, quasi del tutto imbiancata, completamente de-queerizzata e svuotata del suo groove electro-funk cosi come di ogni abrasività industrial-noise. Il loro è una specie di suono “equilibrato”, in cui l’investimento libidinale si può compromettere un po’ di più che con la finzione EDM, ma sempre meno che in esperienze più radicali.
Addirittura, i loro DJ set maratonici hanno trasformato il raving in una specie di supermercato 24/7, a cui si può accedere a seconda degli impegni e degli orari che abbiamo, il che è il contrario esatto del raving tout court, in cui si si immergeva mani e piedi fottendosene del tempo. Insomma, in questi casi la guerra sonica diventa un’appendice della guerra invisibile di cui sopra, qualcosa che finisce per sfruttare la controcultura per creare consenso alla società. Ecco, se c’è qualcosa contro cui è necessario scatenare una guerra sonica civile, è proprio questo, e se la cassa dritta quadrata e pulita ha iniziato a strangolarci, forse la risposta è di nuovo nei break ritmici e nei bassoni, affiancati a un uso felicemente feroce del rumore.
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