Di questi tempi imbattersi in foto d’epoca dello Studio 54 non è poi così strano—per non parlare di tutti gli articoli, i documentari e le biografie sul tema—ma le foto di Tod Papageorge hanno qualcosa di diverso e interessante. Nei suoi scatti non c’è solo gente che va a una festa, ma un’atmosfera da misteriosa setta corredata da celebrità e vestiti particolari.
Ho parlato con Papageorge—noto per il suo tagliente progetto fotografico contro la guerra American Sports, 1970: Or How We Spent the War in Vietnam—delle immagini contenute nel suo ultimo libro, Studio 54, del loro significato e di come il suo lavoro su quel locale ci offra, a suo dire, un’immagine coerente del mondo in cui viviamo.
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VICE: Gran parte dei libri su di te e delle recensioni dei tuoi primi lavori si rifa al concetto di “fotografia di strada”. Ti ritrovi in questa definizione?
Tod Papageorge: Bella domanda. Direi di no. Il mio è solo il lavoro di un fotografo a New York. Oggi le definizioni mi interessano un po’ meno, dato che sto diventando più vecchio e più accomodante. Allora—non solo per me, ma sicuramente anche per Garry Winogrand e gli altri fotografi del nostro giro—sembrava qualcosa di imposto dall’alto. Per quanto ci riguardava le nostre erano semplici fotografie.
Era esattamente quello che facevano tutti i fotografi all’epoca—uscire e immortalare un pezzo di mondo, che fosse fotografare una montagna come faceva Ansel Adams, o fotografare la moglie come Harry Callaghan. Quella di “fotografia di strada” non ci sembrava una definizione molto utile. “Snapshot”, un famoso numero di Aperture Magazine al quale ho collaborato, riproponeva la stessa domanda a numerosi fotografi, e le loro risposte erano tutte negative. Proprio come la mia, adesso.
Bene. Al di là dell’infelice definizione che ti hanno attribuito…
Per caso stavo riguardando alcuni lavori che ho fatto negli anni Ottanta, quando fotografavo anche lo Studio 54. Avevo acquistato un nuovo apparecchio, la Makina Plaubel 67, e andando in giro per New York mi ero messo a fotografare la roba che veniva buttata per strada. Col tempo ho messo insieme un certo numero di fotografie, e recentemente le ho revisionate con l’idea di farci un libro. Il nome del libro sarebbe Street Photographs—foto di cose per strada, insomma. Ecco quello che penso di quella definizione; di come potrebbe essere utilizzata in modo opportuno.
Sono felice che tu ti sia preso una rivincita su quell’espressione. Per quanto riguarda i tuoi lavori dell’epoca, come si rapportano con gli scatti allo Studio 54?
Nel ‘77 John Szarkowski mi aveva chiesto di curare una mostra per il Museum of Modern Art. Per un fotografo, curare una mostra è un grande onore. Era incentrata sul lavoro di Garry Winogrand, tratto da Public Relations. Ogni giorno uscivo di casa e per andare verso Central Park e fino al MoMA passavo dalla 86esima strada. Mi portavo sempre appresso la macchina fotografica, ed è così che ho iniziato a lavorare seriamente a Central Park.
Lavoro che poi è diventato il tuo libro Passing Through Eden, giusto?
Sì, proprio così. Di giorno utilizzavo il flash per illuminare le zone d’ombra nel parco. Poi spesso, la sera, portavo la stessa attrezzatura allo Studio 54. Non che fossi ossessionato dallo Studio 54. La mia fortuna è che avevo un’amica fotografa, Sonia Moskowitz, che in quel locale era molto apprezzata. Lo frequentavo grazie a lei. Altrimenti non mi sarebbe nemmeno passato per la testa di andarci. Ero uno studente di Brassaï, il grande fotografo franco-ungherese. Amavo le sue opere e avevo visto una sua mostra nel 1968, per questo motivo le foto nel locale in un certo senso erano in linea con le fotografie alle quali mi ispiravo, e che mi appassionavano.
Quindi sono due progetti distinti, ma entrambi frutto del tuo lavoro e dei tuoi interessi quotidiani?
Sì. Di giorno lavoravo a Central Park, e ogni tanto la sera ero allo Studio 54, e usavo la stessa macchina fotografica e la stessa attrezzatura. In entrambe le situazioni stavo molto attento ai dettagli e alla ricchezza di tonalità. Se date uno sguardo al libro, è evidente la precisione dei dettagli e la bellezza delle stampe—è un ordine di grandezza completamente diverso dalla fotografia a 35mm.
Come reagivano le persone quando le fotografavi?
Be’, in realtà non ero l’unico fotografo: ce n’erano molti altri. Entrare non era difficile, perché le fotografie facevano pubblicità al locale. E le persone che lo frequentavano erano particolarmente abituate a farsi fotografare, quindi nessuno reagiva male. Non ricordo nessun episodio negativo.
Il libro contiene anche diverse parti scritte in cui spiego il mio metodo. Avevo già molta esperienza con la fotografia a 35mm, e la macchina che utilizzavo aveva lo stesso assetto, ma con la possibilità di capire l’inquadratura senza bisogno di portare l’obiettivo vicino all’occhio. Alzavo la macchina solo quando stava per succedere qualcosa. In altre parole non camminavo con la macchina fotografica alzata e pronta a scattare. Di solito succedeva tutto in un istante. A volte scattavo una seconda foto, ma generalmente cercavo di sollevare la macchina fotografica solo quando era necessario.
Paragonandolo a un altro tuo libro, American Sports, 1970: Or How We Spent the War in Vietnam, c’è un messaggio politico o sociale nel tuo lavoro allo Studio 54? O in Passing Through Eden?
No. Di sicuro non quanto nelle foto di American Sports. Quelle le avevo scattate all’apice della guerra in Vietnam, come forma di protesta. Allora ero molto attivo a livello politico.
Cosa volevi rappresentare fotografando il locale? Cercavi uno spettacolo visivo?
Ero affascinato, in un certo senso, da quella sensualità gratuita. Persone che si rilassano sul prato di Central Park, o che ballano allo Studio 54. Il mio lavoro viaggiava su questi livelli. Ho sempre considerato queste foto come un punto di vista sul mondo, anche se è una categoria un po’ ampia nella quale inserire un progetto.
Penso che entrambi i progetti espongano una visione del mondo coerente, o addirittura coesa. La natura di fondo è poetica, non giornalistica; si riferisce ancora una volta alla mia esperienza di artista, alle mie ambizioni artistiche e al mio essere influenzato dall’arte che amo. No, non c’è nulla di politico.
Studio 54 di Tod Papageorge può essere prenotato qui.











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