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Perché il trailer di ‘Ready Player One’ è la pietra tombale della fantasia

Dall’uscita del primo Star Wars nel 1977, il mondo dell’intrattenimento per le masse è cambiato per sempre, indifferentemente dallo spessore delle lenti dei vostri occhiali.

Che siate nerd o meno, è innegabile che la maggior parte dei prodotti storicamente più rilevanti per cinema e videogiochi siano usciti tra la metà degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, colpendo in pieno una generazione e segnando irrimediabilmente le successive.

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Ernest Cline, classe 1974, è rimasto talmente sotto a capolavori come Pac-Man, Ritorno al Futuro e Grosso guaio a Chinatown che il suo primo libro, Ready Player One, ancora prima di essere un romanzo di narrativa sci-fi, è un’orgia enciclopedica di tutto quello che ha visto e giocato durante i suoi anni formativi.

Se uno è cresciuto con certe cose le vuole omaggiare e citare; se l’omaggio funziona, vende; se vende, si copia perché lo showbiz deve andare avanti

Col senno di poi, è facile capire perché: gli autori che sono venuti alla ribalta nell’epoca d’oro dell’intrattenimento — tra cui quello Steven Spielberg che dirigerà nel 2017 proprio il film Ready Player One, co-sceneggiato da Cline — altro non sono che sognatori glorificati, persone che hanno portato alla luce le loro idee a discapito di limitazioni monetarie (Lucas ha finito la lavorazione di Star Wars quasi in bolletta, salvo poi diventare miliardario con i diritti di action figure che neanche erano sul mercato) o di hardware (praticamente ogni singolo videogioco arcade era un gigantesco dito medio alla limitata potenza di calcolo dell’epoca).

La tecnologia e i mezzi necessari a trasformare la fantasia in realtà erano appena sufficienti per farcela, ma la voglia di consegnare alla Storia qualcosa che non fosse mai stato visto in precedenza è bastata a far fiorire il mercato, cullando Cline e i suoi coetanei in un immaginario dal quale ancora oggi non riusciamo a svincolarci a causa di un terrificante uroboro: se uno è cresciuto con certe cose le vuole omaggiare e citare; se l’omaggio funziona, vende; se vende, si copia perché lo showbiz deve andare avanti… ma, nel frattempo, i valori produttivi sono diventati talmente alti che non c’è più spazio per investire su qualcosa che non si regga già su un nome o un immaginario che fa presa sul pubblico.

E Ready Player One è sicuramente una cornucopia pazzesca per quanto riguarda “l’immaginario che fa presa sul pubblico”: la trama del libro si snoda sulla ricerca di Easter egg, ammiccamenti e citazioni lasciati dall’autore di una simulazione virtuale ai giocatori di tutto il mondo, esattamente come ha fatto Cline con il suo romanzo.

Un concetto che poteva funzionare per un libro del 2011, inebriante col suo citazionismo senza freni e il crescendo rossiniano di nerdume, ma che molto probabilmente diventerà una sbobba insostenibile per un film del 2018.

Al di là del fatto che mettere insieme universi, personaggi e proprietà intellettuali diverse cambia radicalmente dal punto di vista legale (e dunque monetario), se si passa dal libro alla pellicola (implicando rimaneggiamenti al materiale d’origine, vedi la gara automobilistica presente nel trailer e assente nel libro, probabile tappabuchi per una scena impossibile da girare a causa di qualche licenza troppo costosa), il film di Ready Player One rischia di essere il perfetto coronamento degli ultimi vent’anni, nei quali siamo stati invasi dai revival e dalla sterile nostalgia per gli Ottanta.

Viviamo in una bolla in cui i videogiochi indipendenti si rifugiano nell’estetica pixel per moda, piuttosto che per aggirare necessità hardware (vorrei ricordarvi che nel frattempo DOOM gira anche sui termostati); in cui i film sono sequel/reboot/prequel mai richiesti di quei capolavori che hanno segnato l’epoca d’oro, e che — inevitabilmente — finiscono per essere delle sesquipedali cagate che non solo non diventeranno mai classici, ma che a causa della loro CGI offensiva sono destinati a invecchiare ben più rapidamente di quanto non abbiano fatto gli effetti speciali pratici di trent’anni fa.

Voglio dire, se una serie valida e di impatto sociale come Tredici si basa sul gimmick delle audiocassette, e se anche il trailer della seconda stagione di Stranger Things un prodotto che ha saputo ribaltare con successo alcuni modelli narrativi tipici degli anni Ottanta — si regge sul videogioco Dragon’s Lair, la canzone Thriller e il film Ghostbusters, forse c’è davvero un problema con gli anni Ottanta.

Curiosamente, l’unica parte davvero interessante e riuscita del trailer di Ready Player One è quella iniziale, in cui ci viene mostrato il mondo di baracche del 2044 dove vive il protagonista (e che per altro finirà tristemente per essere l’unica previsione azzeccata da Cline, con buona pace dei postini), quando non è immerso nella realtà virtuale di OASIS a cercare easter egg.

Tutto il resto è un minuto e trenta di un episodio di Futurama che abbiamo già visto, questa volta girato ad altissimo budget, che non può che far affiorare due pensieri. Il primo è che la nostalgia per gli anni Ottanta c’è, ma è piuttosto relativa al fatto che, da allora, non c’è stato praticamente più nulla in grado di sembrare davvero nuovo e di segnare i tempi. Il secondo, ben più terrorizzante, è che ci siamo talmente abituati a cercare citazioni e ammiccamenti degli anni Ottanta in giro per l’intrattenimento che consumiamo quotidianamente, che siamo diventati i protagonisti di un romanzetto pseudo-distopico scritto da un nerd all’ultimo stadio.

E non ce ne siamo neanche accorti.