“Con questo disco ho voluto fare qualcosa di diverso. Non metto certo una pietra sul passato, anzi; ma la pausa mi è servita, e questo disco mi descrive senza compromessi di alcun tipo”
Marco Masini intervista a Rockol, 1998
Era tanto tempo che volevo iniziare un articolo con le parole “e anche quest’anno è arrivato il festival di Sanremo”, e neanche questa volta ci sono riuscito. Ormai giunto alla milionesima edizione, più longevo della regina Elisabetta, quest’anno è condotto dal Donald Trump della Radiotelevisione Italiana Carlo Conti e da Maria De Filippi in veste di eminenza grigia alla Steve Bannon. Che cosa possiamo aspettarci dalla manifestazione di quest’anno? Il meglio dell’Italia in musica, che è un altro modo per dire la merda.
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Per fortuna questa casa degli orrori da Luna Park dismesso ci dà una scusa per parlare di vecchie glorie che con Sanremo hanno sottoscritto un abbonamento vita natural durante, visto che è un modo comodo per farsi promozione, qualunque sia il risultato finale. Quest’anno ritorna un autore che l’ultima volta aveva mandato solo una sua canzone ed era rimasto a casa: parliamo di Marco Masini (scrisse “La borsa di una donna” per Noemi, in caso non lo sapeste). Per prima cosa, no, ragazzi, non vi toccate nel basso ventre: Masini non porta sfiga, non è uno iettatore. Ricordiamo che nel 2001 stava quasi per mollare tutto perché si sentiva additato come la Martini che fu—pur dando anche un po’ l’impressione di sfruttare questa diceria.
Lui a Sanremo si è presentato subito da vincente, arrivando primo nella categoria giovani con “Disperato” nel 1990, ma è stato solo alla sua quarta partecipazione, nel 2004, che è riuscito a vincere nella categoria big. Onestamente, la nostra ipotesi è che sia stata la traballante qualità della sua musica ad aver innescato tutto quest’odio nei suoi confronti, poiché agli inizi nonostante parlasse di tossici, aspiranti suicidi, malinconia e paranoia e altre tematiche di dubbio buonumore, nessuno si sognava di dire che Masini portasse jella. Anzi, forse non ve lo ricordate, ma Masini in quel periodo era uno dei più tollerati cantanti di musica pop italiana in area dark/post punk: perché, appunto, i suoi testi scuri ed esistenzialisti erano in linea con la poetica di certi gruppi depressive—magari se prendevi un testo dei Christian Death e lo sostituivi con uno di Marco nessuno se ne accorgeva.
Ancora adesso, se metti su Malinconoia o il suo primo album, la gente canta tutte le canzoni. Forse è merito anche di quel vago sapore metal nell’arrangiamento delle chitarre, essendo quei turnisti chiaramente avvezzi a roba tecnica tipo Steve Vai e compagnia bella (ricordiamo che il nostro farà anche una cover di “Nothing Else Matters” dei Metallica, poi diventata di culto, reintitolata guarda un po’ “E chi se ne frega”). Ma la pacchia durò poco perché a un certo punto il nostro Masini esagerò leggermente. Già quando fece “Vaffanculo”, molti si chiesero se era proprio necessario. Non tanto per la parolaccia, quanto per tutto il contesto, in cui l’autocritica sembra il classico esempio di eccezione che conferma la regola.
E quando si arrivò a “Bella Stronza”, in cui in qualche modo il tentato femminicidio è dipinto come una bazzecola, o a “Principessa”, in cui invece lo stesso femminicidio da parte paterna viene deplorato caricando di accezioni negative tutto il brano (coltelli a serramanico, discariche, violenze a buffo… insomma, una specie di cartolina del disagio urbano tanto gonfiata da diventare una parodia), allora lì si comprese che Masini conduceva una battaglia contro se stesso. Non sapeva da che parte stare ma era ansioso di parlare degli emarginati, anche a costo di passare per quello che li vede solo in TV, forse perché credeva gli comprassero i dischi. Ma la mossa successiva sarà quella che, in qualche modo, come l’esplosione di un palazzo a causa di cattiva manutenzione delle caldaie o una sterzata brusca in Formula Uno da parte di un pilota ubriaco, sconvolgerà i suoi fan e i suoi detrattori in un colpo solo. Si tratta dell’album Scimmie, anno domini 1998.
Già dal titolo è evidente che il nostro voglia prendere le distanze dal suo passato, se non addirittura metterci una pietra sopra. “Perché lo fai” ora ha una risposta: lo faccio per sballarmi e basta, chiaro? La “scimmia sulla schiena” di burroughsiana memoria irrompe sulla scena con suoni distorti, fumi psichedelici, sintetizzatori mezzi rave—per farla breve, è la scoperta delle sottoculture giovanili. Più che un Masini per la prima volta davvero rock, la cosa evidente è infatti che il nostro ha deciso di non fare più compromessi, almeno in apparenza. Nell’intervista citata all’inizio, il nostro confessava che gran parte delle scelte artistico/mediatiche del suo passato erano studiate a tavolino con il maître à penser Giancarlo Bigazzi, la cui mano pesante si faceva di certo sentire. Il geniale autore e produttore che, come ben sapete, militava negli Squallor ed era il braccio destro storico del best seller Umberto Tozzi, mitigava le sfumature rock della musica di Masini sapendo che in quel modo avrebbe avuto un effetto più trasversale. Grazie a lui, Masini ha fatto carriera ed è stato in grado di collaborare a celebri colonne sonore (fra cui quelle di Mediterraneo e di Mery Per Sempre), ha seguito Tozzi in tour come turnista e ha realizzato gli arrangiamenti per “Cosa resterà…” di Raf, col quale si farà le ossa.
Ma Marco adesso decide di divorziare dal suo deus ex machina, smette i panni del depresso cronico, si tinge di bianco capelli e barbetta, indossa camicie arancione acido e soprattutto imbraccia chitarroni Gibson modello Firebird. E nei testi pare tessere le lodi di una gioventù che si libera di ogni inibizione e che potrebbe essere la metafora di se stesso, finalmente deciso a intraprendere una carriera da indipendente, con tanto di fondazione di una nuova etichetta, la Ma.Ma. insieme, tra gli altri, a Marco Manzani, meglio conosciuto come uno degli O.R.O. (ricordate “Vivo Per Lei”, cantata anche da Bocelli? Ecco.)
Certo, questa mossa di Masini non può certo passare inosservata, anche se lo scetticismo inevitabilmente monta come panna scaduta. Chi ci dice che non sia una mossa commerciale anche questa? D’altronde T.R.E. dei C.S.I., uscito un anno prima, ottiene inspiegabilmente il primo posto nelle classifiche italiane, nonostante sia un ammasso di chitarroni alla Young Gods. Il nu metal va fortissimo con i Korn che sbancano i botteghini, gruppi come gli Offspring e i Green Day vendono una cifra, ancora si sente lo strascico del grunge che raschia il fondo del barile (vedi gli Smashing Pumpkins il cui Melon Collie ancora fa parlare di sé). E poi abbiamo personaggi come i Prodigy che l’anno prima scalavano le classifiche con “The fat of the land” per non parlare di tutti gli ibridoni alla Chemical Brothers, l’ascesa mainstream dell’industrial e via dicendo. I Blur che svettano in Inghilterra con “Beetlebum” intriso di sozzo lo-fi, il picco di popolarità dei rave oramai esasperati e dei film correlati a certe “cattive abitudini” (Trainspotting, del 1996, e l’epica anni settanta de Il grande Lebowsky insegnano).
Insomma, lo sdoganamento delle sottoculture drogate è avvenuto. Masini arriva sulla faccenda, guarda caso, “Spostato di un secondo”, come recita il brano che quest’anno porta a Sanremo. In Italia non è in ritardo, ma neanche in anticipo (rispetto ad esempio a “Il dado” di Daniele Silvestri o “La fabbrica di plastica” di Grignani che sembrano operazioni molto simili, ma uscite due anni prima): semplicemente se ne esce con questo disco nello stesso momento in cui inizia il crollo verticale della “musica giovane”, ahilui. A ogni modo, vediamo un po’ se questo nuovo Masini ci fa o ci è.
Innanzitutto la title track e brano portante di tutto il disco è impreziosita da un video in cui Masini scorrazza alienato in un supermercato, evidente critica a gamba tesa della società dei consumi. A un certo punto ha un rigurgito primitivista e, come dire, smette i suoi panni borghesi per quelli del ribelle: “Scimmie sui rami dei giorni / drogati di sogni”. E beh, il testo è un delirio a tapis roulant sulla nuova anarchia chimica dei giovani, con tutta una serie di discorsi del tipo “che scopata, che viaggio / erezioni innocenti (!) / la febbre negli ormoni / con il cuore fra i coglioni / masticare fumo”. Insomma, ci siamo capiti: è un inno ai nativi digitali con synth zanzaroidi e schitarrate a go go. “Niente svastiche né vangeli, noi crediamo nell’animalità”. Per quanto oscilli sull’orlo del ridicolo (cosa che, attenzione, Pasolini si faceva vanto di non temere), il testo di Masini sembra un genuino slancio verso un manifesto delle nuove generazioni che si confessano “in branco fra preghiere di bestemmie”. Stacchetto psichedelico con wah-wah incorporato “per non farsi di verità” e con quella frase ambigua che osa e non osa (“fino all’estasi di uno stallo”—levate la T e metteteci la B e capirete cosa voglio dire).
Masini sembra entrato in quell’orbita che nello stesso anno ha catturato anche il Battiato di Gommalacca: rockaccio, ritorno agli stupefacenti, loop, elettronica, e anche roba alla Moby (l’intro di “Scimmie” è un chiaro plagio/citazione di “Porcelain”), solo che il caro Franco aveva le idee più chiare e probabilmente maggiore esperienza in materia (Masini dà l’idea di uno che più che con i funghetti, ci è rimasto sotto con le benzodiazepine). Ma passiamo alla prossima espressione del nuovo “Masini pensiero”, ansioso di recuperare terreno in zona alternative.
“Falso” parte con delle chitarre mezze Sonic Youth e poi incredibilmente se ne esce con un bassone che potremmo trovare nei primi Living Colour, ma il punto di riferimento sembra più il nu metal. Anche qua aperture psico/beatlesiane con tanto di leslie applicato alla voce, ma anche assolazzi turbo hair metal di stampo Motley Crue. “Falso quando vieni e non godi veramente”: diciamo che è la versione masiniana di “Liar” della Rollins Band, scivola velocemente senza fronzoli (il brano è sotto i tre minuti). Il pezzo sembra sicuramente più incisivo di “Scimmie” a livello di coesione testo-musica e Masini sembra in gran forma, come minimo non racconta stronzate. Lo ricordavamo col pianoforte a lagnarsi e invece qui naviga fra chitarroni e anatemi che se la prendono anche con il suo passato “fake”: solo un anno prima pareva impensabile.
“Profondo porpora” si barcamena nel tentativo di ibridare tre generi: il crossover alla Red Hot Chili Peppers, il britpop e il ruock all’italiana. Questo ultimo ingrediente fa in modo che il brano scricchioli e lasci l’amaro in bocca, mantenendo quell’aura radiofonica che entra in contrasto con l’intenzione iniziale. Peccato perché il testo loda quasi esplicitamente l’idea dell’andare “fuori di sé”, quindi in pratica è un’ode allo sballarsi come liberazione dalle catene del presente. D’altronde parole come “fuori di me / transiterò caleidoscopiche realtà” parlano chiarissimo e sono inedite nel repertorio del nostro. Speriamo che col prossimo brano, però, ci stupisca anche a livello sonoro.
E invece stocazzo. Torna il pianino del Masini di tanto tempo fa, condito con le sviolinate di tanto tempo fa. “Il posto delle fragole” è una citazione fin troppo didascalica dei Beatles di “Strawberry fields”, con arrangiamenti che tendono a dei Verve un po’ più ripuliti. Ma per quanto l’arrangiamento sia leggero, è vero che la canzone, in quanto a scrittura, sembra uno step superiore alle solite “lagne” masiniane, anche perché il testo incita addirittura al cannibalismo (“mangeremo i nostri corpi crudi”)!
Compaiono inserimenti di synth che ricordano il prog della PFM, chiaramente con suoni presi direttamente dalle prime sintesi a modelli analogici, forse ottenuti da un Korg Prophecy. A ogni modo questo posto delle fragole è l’ennesimo utopico posto di libertà anelata, raggiungibile sempre tramite stati alterati di coscienza. “Ad occhi chiusi noi / per non svegliarsi mai / in questa corsa eterna fino al posto delle fragole”. Si incita a un coma farmacologico autoindotto, ne deduciamo che Masini forse ha trovato il modo di risolvere la depressione dei primi anni in maniera sicuramente più divertente e fruttuosa.
Tra tutta questa acidità mancava proprio la ballata psichedelica, ma eccola qua. Il problema è che sembra proprio un plagio di “Wonderwall” degli Oasis, che purtroppo all’epoca hanno mietuto fin troppe vittime. Fortunatamente ogni tanto ascoltiamo anche qualche scippo a Bowie/Lennon, stacchi orchestrali arditi e ritmi madchester in salsa Stone Roses di modo da non dover buttare via tutto subito, anche se il brano non raggiunge la sufficienza nel tentativo di rendere credibile questo mischiotto. E’ ancora troppo legato a un desiderio di passare in radio che potrebbe essere tranquillamente archiviato, vista l’operazione… ma tant’è.
Incredibilmente si prosegue con un’altra ballata, “Ali di cera”, forse figlia dei Metallica quando abbandonano gli ampli (anzi, vista la cover di cui parlammo sopra, sicuramente). Poi giungono delle percussioni campionate che danno un sapore etereo un po’ alla Ustmamo’ periodo elettronico (con le dovute differenze). Lo stacco rockeggiante rimane, ahimè, in zona Pearl Jam da cover band italiana o da gruppo grunge di quelli più sputtanati, non c’è molto di estremo. Anche qui si rasenta un certo cortocircuito fra pezzo e arrangiamento, che se ripulito da manierismi avrebbe potuto funzionare meglio. Fanno capolino delle campane tubolari e due assolazzi un po’ troppo AOR con tanto di synth che svalvola in area Moog. Ma il rock vero dov’è finito?
Ecco, lo ritroviamo nel brano più allucinato del disco, ovvero “Togliti la voglia”, finalmente temi scottanti, musica dark psichedelica in area “Club America” dei Cure, con wah-wah ed effetti liquidi. Qui Marco invita la sua lei a cambiare sponda, diventando definitivamente lesbica giacché è da tanto che è interessata all’articolo. I synth sono acidi quanto basta, le voci sono infilate ancora una volta dentro dei rotary speaker e squagliate nel phaser, forse perché il tanto democratico partner in realtà è il classico italiano maniaco che vuole vedere le due ragazze limonare e farsi una pugnetta? Beh, sì; a un certo punto la perversione vouyeristica prende il sopravvento, ma, voglio dire, se i Type O’ Negative hanno scritto “My Girlfriend’s Girlfriend” perché non può farlo Masini?
Con “Il fiore” invece si passa dal rock all’elettronica, con un pezzo apparentemente romantico da vecchio Masini, ma farcito di ambiguità e ispirato chiaramente ancora una volta a Moby e limitrofi infilati nei paddoni italiani Sanremo style. Infatti, anche qua si parla di limiti inconfessabili che si superano, si ribadisce il primato dell’estremismo sul classico sentimento melenso. Con una durata breve che manco “Patrizia” di Finardi (che, in un certo senso, ritorna alla mente per il minimalismo), il brano è un quadretto d’amore che va in autocombustione, fra “tentacoli della mia follia”, “infedeltà” e altre cose del genere. Insomma, tiriamo fuori l’accendino al concerto, ma puntiamocelo contro. Un tentativo di rinnovare la canzone d’amore all’italiana o di affermare vecchi stilemi? La parola ai posteri.
Però non si parlava di rock? E allora come ci spieghiamo ‘sta canzone? “Fino a tutta la vita che c’è” tra i suoi neologismi (“domai”, cioè il domani che non arriva mai) e il suo ennesimo sottolineare che si vive senza freni, al limite, liberi di tradire il mondo e via dicendo, dovrebbe avere una base piuttosto dura no? E invece un cazzo. È una ballatona che potrebbe andare bene per i Bee Gees bolliti, ma scritta forse sull’onda della roba di Lenny Kravitz giusto per dargli aderenza al contemporaneo e quindi giustificarla. Ecco che sento la pulce insinuarsi nell’orecchio: forse anche questo disco è confezionato a tavolino. Comunque vediamo che succede dopo, non facciamoci prendere dalla disperazione ascoltando assoli di chitarra rubati al Chris Rea più pop, magari c’è il colpo di coda finale.
“Fuorigioco” è l’ultimo brano del lotto, e purtroppo di rock non ha molto. È più qualcosa di elettronico, una strizzata d’occhio al trip-hop allora imperante, magari avrebbe funzionato meglio se Masini si fosse messo a rappare, però vabbè, non si può cavare sangue da una rapa. Ritornello inusuale di stampo battistiano, melodicamente appare ispirato ma ancora una volta questi assoli che sembrano presi da Gilmour periodo Division Bell non possono proprio chiamarsi alternativi, anche se il succitato disco dei Floyd ha venduto più fra le nuove generazioni che fra le vecchie. Il testo parla di un amore masochista di una lei che continua a stare appresso a un tizio che la rifiuta (ovvero, Masini). Da “Vai con lui” a vero duro, il passaggio di stato è sottolineato da un finale mozzato improvvisamente con l’accetta, che è la cosa migliore del pezzo. Ok, sarà pure un vero duro, ma a quanto pare il rock è durato due secondi e mezzo e la delusione è cocente.
Il risultato di questa svolta di Masini fu, infatti, salutato da un inarrestabile flop: i vecchi fan si sentirono traditi da questa svolta superomista e i nuovi fan… di base non ci furono. Quello che accadde però fu che la critica fu incuriosita da questo nuovo volto di Masini e aggiustò un po’ il tiro, mantenendo però sempre la sua proverbiale puzza sotto il naso. In un certo senso la svolta “rock” di Masini è stata troppo prudente: il terrore di perdere per sempre i vecchi fans forse ha impedito uno strappo decisivo che avrebbe potuto, con degli arrangiamenti più coraggiosi sullo stampo di “Falso”, portare Masini in un campo alternative rock nel quale non avrebbe sicuramente sfigurato considerando la fine che hanno fatto certi sedicenti paladini del rumore quali i Marlene Kuntz, finiti a fare il Masini di Scimmie molti anni dopo.
Se pensiamo poi ai testi decisamente eccessivi e al fatto che il rock ritornerà senza dubbio molto presto di moda vista la sbronza elettronica degli ultimi anni, va a finire che ci ha visto anche lungo. Il problema è che dopo questa esperienza, il Masini indipendente sparisce. Dopo il mancato abbandono delle scene, tornerà, infatti, nel 2003 con l’imbarazzante singolo “Generation”, in cui senza mezzi termini e su una base di hip hop plastificato dirà che la generazione giovane ha fallito (e ti pareva…).
Ciliegina sulla torta, proprio quest’anno a Sanremo, nella zona cover, interpreterà il brano sanremese più ambiguo di sempre, ovvero quel “Minchia signor tenente” dell’amico Faletti, che cozza con il Masini in vena di cut-up ed estremismi antiautoritari di Scimmie (lo spot pubblicitario venne addirittura censurato da Publitalia perché vedeva una scimmietta crocifissa, sulla falsariga del video di “Closer” dei NIN, con la dicitura “non crocifiggere il tuo istinto”).
Sarà anche stato un errore, ma quel disco, nel bene e nel male, è un tentativo di cambiare strada da quella che a volte, se non continuamente, nel pop viene imposta dall’alto: nella sua imperfezione concettuale rimane quindi un picco stralunato nella scrittura di Masini al quale auguriamo di ricordarsi di quando credeva nell’”autentica Anarchia” al momento di salire su quel palco illuminato. Se non altro per “aversi e non fottersi l’anima” ancora una volta. Buon Festival a tutti.
Demented è su Twitter: @DementedThement.