Música

Gli Zu potevano nascere solo a Ostia

Per arrivare a Ostia prendiamo la Roma-Lido, il trenino che da Porta San Paolo conduce i romani alle spiagge più vicine. Da subito la cosa che colpisce è la lentezza. Andare a Ostia vuol dire rallentare, entrare in una dimensione che pare lontanissima dalla frenesia, dal traffico e dalle agitazioni della capitale, anche se ci troviamo a soli trenta chilometri di distanza.

Assieme a noi viaggiano turisti stranieri, famiglie romane con ombrelloni e frighetti portatili, pendolari che dalla città tornano in periferia, gruppi di ragazzi in uscita. Tutti pazienti e poco loquaci, forse il caldo non incoraggia. Scendiamo alla stazione di Stella Polare, il cui nome sembra un po’ in contraddizione con i 35 gradi di temperatura. Siamo a due passi dalla pineta di Castel Fusano, che in questi giorni ha visto susseguirsi incendi durati giorni, spesso di origine dolosa. Il paesaggio distrutto, con zone molto ampie ridotte in cenere, i fumi che ancora emergono dal terreno, danno un senso di inquietudine.

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Ad accoglierci ci sono Sekketto ed Emiliano, che vengono a prenderci in stazione. Ci portano a casa di Valerio, che sarà nostro ospite per un paio di notti, nel suo appartamentino in cui in realtà la padrona di casa è la gatta Miranda. A scarrozzarci sarà invece Lorenzo, fonico che da tempo segue gli Zu in tour. Sono tutti amici della band, parte di una piccola comunità, tutti molto appassionati di musica (Valerio è chitarrista in un trio di indie elettronico che si chiama Go Ask Alice, Sekketto oltre ad essere il tour manager degli Zu da sempre suona anche in un duo, i Light The Bob, Lorenzo sta pubblicando in questi giorni il disco dei suoi oscurissimi Lento) e legati agli spazi sociali in cui ha trovato espressione la gioventù alternativa del litorale, come Spaziokamino e, dopo lo sgombero, Zk.

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Il centro sociale ZK.

Il mare è lì davanti. Siamo ancora a Roma, ma nella sua periferia più particolare. I palazzoni ci sono anche qui, ma l’atmosfera è diversa, rilassata. Nella spiaggia libera dopo il curvone troviamo una numerosa famiglia sudamericana che cena in spiaggia, con forniture di cibo abbondanti. Due bambini hanno steso un asciugamano sul muro basso all’entrata della spiaggia, per esporre i loro vecchi giocattoli e provare a venderli. Una vecchia, in tono non proprio cordiale, mi urla di aiutarla a trasportare il suo carrettino (davvero pesante) fino al limite della spiaggia libera – e da lì entra nello stabilimento privato. Ostia, con le sue spiagge chiuse, il turismo d’élite, gli yacht che si avvicinano alla costa, sta cambiando, diventando un luogo per pochi e lasciando ai margini i suoi ceti popolari.

“Ostia continua a racchiudere in sé tutta la frustrazione, il disagio del vivere metropolitano, la ricerca dell’altrove, la fatica e nello stesso tempo lo straniamento di un presente sempre più assurdo. E tutto ciò nonostante la nobiltà dei suoi paesaggi, il suo mare: la sua bellezza struggente” così scrive la scrittrice ostiense Ilaria Beltramme in Ostia! Romanzo di una periferia , pubblicato quest’anno, racconto collettivo che parla di aspetti poco conosciuti della città, dal basso.

Una periferia con quasi 100mila abitanti lasciata a se stessa, trascurata, dimenticata. Un mix di umanità unico, multiculturale, una comunità formata da lavoratori dell’aeroporto (siamo a pochi passi da Fiumicino), da chi lavora in spiaggia, chi abita nelle case popolari, chi si è trasferito qui per uno stile di vita diverso.

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Ostia.

La narrazione di questo luogo è stata spesso legata alle tragedie. Ostia è famosa per essere il luogo in cui è stato ucciso, picchiato a morte, Pier Paolo Pasolini – esiste un pezzo della band inglese Coil dedicato alla città e a questo episodio, brano che ha molto ispirato i primi passi degli Zu. Ostia è quella raccontata nei film del regista piemontese (ma innamorato delle cruda poesia di qui) Claudio Caligari. Come in Amore tossico, film in cui i giovani si confrontavano in modo nichilista con lo spirito libertario del tempo, una società che cambiava, senza sapere esattamente cosa fare. Così come in Non essere cattivo, ambientato negli anni ’90, in cui droga, piccola criminalità, un atteggiamento di sfida contro il mondo e sfottò verso tutto, per ridere della propria impotenza.

Gli anni ’90 sono gli stessi dell’inizio delle attività per Spaziokamino. L’ex mercato generale (oggi un centro educativo per l’infanzia), uno spazio immenso, occupato per più di un decennio da una gioventù un po’ sbandata, un po’ indolente, molto idealista. Nella capitale si assiste a una recrudescenza di un conflitto mai sopito tra zecche e fasci, risse, assalti. Sono gli anni delle Posse, del movimento della Pantera, che esprime le rivendicazioni studentesche di quegli anni, della scena hardcore romana. Spaziokamino, o SPZK, è in connessione continua con altre occupazione e luoghi di controcultura come il Forte Prenestino e la colonia Vittorio Emanuele, spazio che a Ostia diventa occupazione abitativa per attivisti e immigrati rimasti senza casa.

A Spaziokamino però tutte queste energie assumono una sintesi inaspettata. SPZK diventa infatti uno dei punti di riferimento della rave culture non solo italiana, con ragazzi da tutta Europa che arrivano a Ostia, fermandosi anche dei giorni o delle settimane, accampandosi, per sperimentare nuove forme comunitarie, in nome della musica, di uno stile di vita liberatorio, spesso accompagnato da fiumi di droghe sintetiche. A Spaziokamino, a parte le varie street parade, si organizzavano serate con mille, anche duemila persone. Cui anche i coatti fascisti partecipavano, ma “chi aveva il bomber con lo scudetto tricolore, per esempio, entrava solo se accettava di rigirarlo”, così spiegano dei membri del collettivo Ostia Rioters nel già citato libro Ostia!. Fenomeno dunque in grado di coinvolgere un’intera città, unita dalla voglia di far festa e da un’insolita capacità di rompere gli schemi.

Gli Zu nascono qui, sul finire di un decennio, gli anni Novanta, che in poco tempo vede scomparire molte di queste categorie e opposizioni. Un trio originale, dalla formazione inusuale (basso, batteria, sassofono), che in pochi anni diventa una band di culto in tutta Europa. Un approccio aggressivo, musica strumentale incazzatissima, un mix di generi, free jazz, noise, metal, hardcore, che qualcuno ha provato a definire come jazzcore. Soprattutto, l’unione (che pareva indissolubile) di tre amici uniti dalla passione: Massimo Pupillo al basso, Luca T. Mai al sax, Jacopo Battaglia alla batteria.

Ad accompagnarci in questo viaggio a Ostia sono Jacopo e Massimo, intervistati assieme per la prima volta dopo l’abbandono di Jacopo Battaglia, che ha lasciato gli Zu nel 2011.

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Jacopo Battaglia.

“Massimo ed io ci siamo conosciuti nell’unico posto in cui ci potevamo conoscere in quegli anni, Spaziokamino”, racconta Jacopo. “Non suonavo ancora la batteria, però mi piaceva. Da bambino avevo studiato pianoforte. Spaziokamino era il primo contatto che avevo con le band. C’era una sala prove all’interno del centro sociale e io mi mettevo a guardare chi veniva a suonare. Da ragazzino ero tipo Silent Bob, stavo ore a guardare i gruppi provare, poi quando andavano via tentavo di suonare quello che avevo appena visto. Tra questi c’era anche il gruppo di Massimo”.

Massimo, come Luca, ha qualche anno in più di Jacopo, che ha cominciato a frequentare Spaziokamino molto presto. “Aveva 12 anni la prima volta che l’ho visto, quindi doveva essere forse l’89. C’era questo ragazzino che andava in giro con la maglietta degli Slayer e i capelli lunghi”, racconta. “Con Luca invece ci siamo conosciuti nell’84, avevo 15 anni. Era al concerto dei Saxon, il primo concerto metal cui sono andato. Ero con un compagno di classe, Luca era con suo fratello, abbiamo passato tutto il giorno assieme, eravamo ragazzini. Ho scoperto che abitava a Ostia Antica, e da lì abbiamo cominciato a incontrarci. Poi, verso i 21 anni, siamo andati a vivere assieme. Luca aveva da poco iniziato a suonare il sax, io invece all’epoca suonavo con un gruppo noise e lo invitammo a suonare con noi. Il gruppo finì, ma intanto continuavamo ad abitare assieme, ci scambiavamo musica continuamente. Luca, anche per il suo strumento, ascoltava tanto free jazz, io ero un grande fan dell’industrial al tempo. Avevamo questa idea di riuscire a mettere assieme queste cose diverse, anche ispirati da esperimenti che c’erano in quegli anni, per esempio i Naked City e le altre cose che faceva John Zorn. Il senso era: si può fare, è possibile mettere assieme strumenti così diversi e fare musica nuova”.

“Col tempo ci siamo conosciuti meglio dentro a Spaziokamino, nel frattempo ho un po’ imparato a suonare la batteria”, racconta Jacopo. “Poi un capodanno, che in realtà era un rave molto delirante, sono andato da Massimo e gli ho detto che ero pronto, che secondo me avremmo dovuto suonare assieme. Massimo suonava con i Gronge, il gruppo che ha anticipato la nascita degli Zu. I Gronge in quel periodo usavano delle basi preregistrate, anche per le ritmiche dunque. Cercavano un batterista e hanno chiesto a me e io ho accettato subito, entusiasta. Sono entrato nel gruppo, poi dopo pochi mesi è arrivato Luca. Stavamo cercando un chitarrista in realtà. Mi ricordo ancora Massimo ed io a fare i provini ai vari chitarristi che venivano nella saletta di Piazza degli Zingari, a Roma”, continua Jacopo. “Insomma facevamo questi provini, puoi immaginare, c’era qualunque tipo di chitarrista, dal virtuoso solista, al chitarrista blues, a quello che suonava una nota sola e poi tutti i pedali…”
“Abbiamo provato anche un flautista una volta, ce lo portò Tiziana, ti ricordi?”
“Finché Massimo a un certo punto dice: Ho questo amico, Luca, lo conosco da una vita, suona il sax”.
“Il sax alto, ancora non suonava il baritono”.
“È venuto a provare, come abbiamo cominciato a suonare è venuta un po’ fuori la cifra stilistica che poi si è sviluppata in Bromio. La cantante, su una forma sonora simile non si trovava assolutamente, quindi dopo qualche mese si è eclissata da sola. Siamo rimasti noi tre, decidendo di proseguire comunque. All’inizio avevamo lasciato ancora delle sequenze com’eravamo abituati nei Gronge, dei giri di pianoforte soprattutto… All’inizio provavamo anche a cantare, in italiano. Urlare più che altro, eravamo molto dentro alle cose sullo stile dei Nomeansno, un hardcore rivisto totalmente a modo nostro.”

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Massimo Pupillo.

“Il nome Zu risale all’estate del ’97, quindi sono esattamente vent’anni”, spiega Massimo. “Però il gruppo esiste da prima. Poi tieni conto che quando la cantante se n’è andata, per due anni abbiamo fatto solo prove. Erano altri tempi, oggi si fanno dischi ogni tre o sei mesi”.

Il primo disco pubblicato dagli Zu è Bromio , uscito per la pisana Wide Records nel 1999. Fino ad oggi sono usciti una quindicina tra album e live ufficiali, molti split album (con i Dälek o il Teatro degli Orrori, ad esempio), una miriade di collaborazioni e progetti paralleli, a volte con vere e proprie formazioni alternative, come in Black Engine o con la band Ardecore nell’album Chimera. Progetti usciti con svariate label internazionali, tra cui spiccano sicuramente l’italianissima Wallace Records e la Ipecac, etichetta di Mike Patton.

Bromio è aperto da “Detonatore“, il cui titolo celebra la folgorazione del gruppo illuminato sulla via della nuova direzione musicale intrapresa. Il primo brano scritto è però “Villa Belmonte“, “che era in realtà una parte di un pezzo dei Gronge”, spiega Jacopo, “nome con il quale non abbiamo mai fatto dischi, ma qui sentivamo qualcosa di diverso, l’inizio di un repertorio completamente nuovo. Una volta rimasti senza cantante, quindi liberati anche da un’ipotetica struttura-canzone, ci siamo proprio allargati noi, anche con il suonato. Da questo pezzo è venuta la scintilla. È uscito una mattina presto, mi ricordo che erano forse le 9 e Massimo e Luca avevano lavorato la notte. Eravamo nella nostra sala prove a Monti. La saletta era vicina a un bordello, siamo rimasti lì parecchi anni. Mi ricordo che quando c’è stato l’11 settembre, siamo entrati nel bordello a guardare cosa stava succedendo con gli attentati a New York, perché noi non avevamo la tv in sala prove”.

“Il fatto di avere una formazione come la nostra, di avere uno come Luca al sassofono e suonare questo tipo di musica, ci ha completamente differenziato da tutto il resto. Il fatto di suonare con uno strumento a fiato ci ha permesso di distinguerci da moltissime realtà”, riflette Jacopo. “Luca, anche per il lavoro sui suoni, è stato un pioniere” continua Massimo, “abbiamo cominciato a usare amplificatori e distorsori sul sax senza averlo visto fare da nessuno prima di noi. È stato un esperimento in sala prove, uno dei tanti. Si prova e da lì si aprono altre possibilità”.

Gli Zu attraversano un decennio che si illude di poter cambiare qualcosa. La fine degli anni Novanta e l’inizio del 2000 rappresentano però la fine degli ultimi movimenti studenteschi italiani. Molti spazi sociali chiudono, o cambiano forma. La canzone di denuncia, prettamente politica, che va dal cantautorato degli anni Settanta fino alle Posse, tramonta. Le band cosiddette indipendenti, anche in Italia, riescono a ritagliarsi un ruolo nuovo, in virtù degli sconvolgimenti dell’industria musicale mainstream. Gli Zu sono uno di quei gruppi che cerca di esprimere, in musica, una rottura completa con quello che c’era prima, rottura prima di tutto estetica. Senza cantare, senza dover esprimere o rivendicare esplicitamente qualcosa. La scelta stessa di rinunciare all’uso della voce rappresenta già una presa di posizione.

“Non ci siamo mai considerati un gruppo hardcore, oppure metal, ad esempio”, spiega Massimo. “Ma nemmeno un trio jazz. Ancora oggi quando mi chiedono che musica facciamo io non so cosa rispondere. Ci sono tante chiesette in musica, molti che sono esteticamente predefiniti, che vogliono metterti dentro un certo canone, per cui ti devi vestire in un certo modo, esprimere quella cosa… Noi abbiamo avuto sempre una certa vocazione eretica, perenne, in tutto”.

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Massimo e Jacopo davanti alla porta dell’ex-Spaziokamino, sgomberato nel 2001.

“Secondo me c’entra anche il fatto di venire da un posto come questo, che non esprimeva niente”, continua Massimo. “Ostia era veramente una tabula rasa indifferenziata. Già a Roma era diverso. C’era la scena punk, i metallari, gruppi che spesso si picchiavano anche. Io sono cresciuto completamente all’oscuro di tutto questo. A Ostia non c’era nemmeno un posto dove suonare. Non esisteva un locale, ad esempio. C’era un centro sociale, in cui eravamo noi a organizzare. Gli unici eventi musicali li abbiamo portati noi. Pensa che abbiamo organizzato il primo concerto romano dei Blonde Redhead, a Spaziokamino nel 1994. Hanno dormito a casa di Jacopo, il giorno dopo li abbiamo portati al monumento dedicato a Pasolini all’Idroscalo”.

Jacopo: “Noi abbiamo sicuramente vissuto un’epoca un po’ a cavallo tra il declino dei centri sociali e di quel modo di fare le cose, e la ripresa di un’attività culturale di alcuni locali di Roma, che poi sono diventati, ad esempio, il Circolo degli Artisti, l’Init o altri. Abbiamo vissuto questo passaggio, come tanti altri. Tra l’era pre-internet e quella di internet, ad esempio. È una situazione completamente imparagonabile a oggi. C’era molta più separazione, ad esempio, tra la musica estrema, alternativa, e il mondo pop. Sembra di parlare di cento anni fa e invece sono passati vent’anni. Molte barriere ormai non ci sono più. Ci sono stati cambiamenti veramente significativi, che vanno molto aldilà della fruizione della musica, anche questa completamente cambiata. Ma è proprio un altro mondo. Che non era dominato da internet, ad esempio, semplicemente perché non c’era. Quando abbiamo cominciato noi c’era il telefono, per organizzare i concerti chiamavi. Questo richiedeva una dose di coraggio molto maggiore rispetto a mandare una mail spersonalizzata a 500 promoter. All’epoca dovevi proprio metterci la faccia. Dovevi proprio volerlo fare, dovevi sentirti sicuro, anche rispetto a tutti i no che ti saresti preso in faccia. Del resto tutti ci hanno sempre detto ‘Ma dove cazzo andate con questa musica?’ E invece la reazione era proprio: noi spacchiamo e quindi vogliamo suonare”.

Da subito gli Zu hanno cominciato un’intensissima attività dal vivo. Centinaia di date in giro per l’Italia, poi per l’Europa. Qualcosa come duemila concerti in carriera. Una prima incursione negli Stati Uniti nel 2000 (quindi a poca distanza dalla pubblicazione del primo disco), il primo tour vero e proprio poco dopo l’11 settembre 2001. Tour che vedrà una tappa a Chicago, nello studio di Steve Albini, per le registrazioni di Igneo (che uscirà nel 2002). Poi molti altri tour negli Usa, tra cui quello assieme ai Dälek del 2003. La prima volta in Giappone nel 2005.

“Mi occupavo io del booking all’inizio”, spiega Massimo. “Ho cominciato a collaborare con Carmelo, un nostro amico che organizzava la maggior parte dei concerti al Forte Prenestino. Capiva la mia passione per la musica e mi chiese di dargli una mano. Per me era una cosa entusiasmante perché era l’unico modo che avevo per capire come facevano questi gruppi ad andare in giro. Noi non sapevamo niente. All’epoca c’era questa cosa che serviva un contratto, un’etichetta, un manager. E l’unica cosa che sapevamo per certa è che questa non sarebbe stata la nostra strada. Quindi l’alternativa quale poteva essere? Era quella dei Fugazi, ad esempio, che hanno suonato spesso al Forte grazie a Carmelo. Autorganizzarsi, cioè. Loro lo fanno, dunque è possibile. Ho cominciato avendo la possibilità di vedere da vicino tutte queste band, potendo capire come facevano sotto tutti i punti di vista. Del suono, tanto per dire, noi non sapevamo niente all’inizio”.

“Guarda, io mi ricordo che ai nostri primi concerti ancora cantavamo”, racconta Jacopo. “Non li aveva organizzati Carmelo, ma questo promoter di Firenze, che ci chiese di aprire due date italiane degli Half Japanese a Roma e Firenze, un gruppo americano che esisteva da più di vent’anni. Questi sono stati i primi due concerti in assoluto, credo fosse il ’98. Per noi fu una cosa sconvolgente, non eravamo mai usciti da Roma, figurati suonare a Firenze. E poi mi ricordo che alla fine del concerto di Firenze, ci arrivò questa grossissima iniezione di fiducia perché gli Half Japanese ci chiesero di partecipare a una compilation che avrebbero fatto uscire. Praticamente era la prima volta che affrontavamo un pubblico con la nostra musica. Questa è stata una di quelle cose che ci ha fatto pensare: ok, forse continuiamo”.

“Parlando di iniezioni di fiducia”, s’intromette Massimo, “una volta suonammo a Catania, in estate. Era un festival, la sera avrebbero suonato i Fugazi al porto. C’era Agostino degli Uzeda, cui avevo mandato il demo, quindi prima dell’uscita di Bromio. E mi disse: sbrigatevi a fare un disco, avete un’idea nuova, particolare, le idee girano per l’aria quindi se non siete voi fra un anno uscirà un’altra band con il vostro suono”.
Jacopo: “Io sto ancora aspettando che esca una band così, comunque”.
Massimo: “Poi l’abbiamo fatto noi quel disco, in effetti”.
Jacopo: “Eh beh, meno male”. Si guardano, sorridono.

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Jacopo e Massimo davanti a ZK.

“Gli Uzeda sono stati i primi a fare certe cose in musica, da noi. Sono stati i primi a registrare da Albini ad esempio, ma soprattutto è stato il primo (e forse quasi l’ultimo) gruppo italiano che ho visto che dal vivo aveva un suono unico, riconoscibile, e che veramente esprimeva qualcosa. E per noi erano un riferimento, visto che c’era così poco attorno a noi. Poi c’è stato il tour con The Ex, il nostro primo tour dopo la pubblicazione di Bromio e la prima data al Brancaleone”, spiega Massimo.

“Tutto va anche ovviamente contestualizzato all’epoca. Oggi sembriamo due nonni che parlano”, chiosa Jacopo, “ma all’epoca questa era una cosa significativa. Com’era significativo, che ne so, registrare da Steve Albini e finalmente potersi relazionare con qualcuno che un certo tipo di suono lo aveva creato, con cui ti sei confrontato tanto. Nel caso nostro poi abbiamo capito che forse quel disco era un po’ sottotono rispetto al valore reale del nostro gruppo nel 2002. Igneo, fatto diversamente, avrebbe potuto essere ancora più d’impatto”.

“C’è stato un momento in cui ci siamo detti: ok, i lavori che stiamo facendo quali sono? Nessuno di noi si stava arricchendo o aveva altre opzioni e stava dunque rinunciando a qualcosa di stabile. Per noi la figata era stare in tour. A fare 300 concerti l’anno eravamo contenti, non era uno stress” continua Jacopo. “Quindi nel momento in cui abbiamo scoperto questa vita, mi ricordo ancora il primo tour lungo che facemmo all’epoca, un mese fuori, nel 2000. Tornammo a Roma dopo un tour europeo e mi ricordo la sensazione in tutti e tre che qualcosa fosse cambiato, nel senso che era proprio quella la cosa che volevamo fare. Quella è stata proprio la rivelazione totale, fare tour poi per me è diventata una cosa quasi mastodontica, però per noi è sempre stata una cosa fondamentale, necessaria, molto più che fare dischi. Infatti ci siamo impegnati molto per essere presenti sui palchi di tutto il mondo, abbiamo dato molto più peso a quello. Anche perché la maniera nettamente più bella per vivere la nostra musica è sempre stata dal vivo, penso che gran parte del nostro pubblico la pensi così. I pubblici migliori, a parte in Italia, li abbiamo avuti in Francia, in Belgio, posti che abbiamo battuto tanto all’inizio. In Inghilterra. Gli Stati Uniti invece li ho sempre trovati un po’ dispersivi, ogni volta era un po’ un salto nel vuoto. Poi, nei miei ultimi tempi, dopo Carboniferous, c’è stata una crescita di interesse un po’ ovunque andassimo a suonare”.

Carboniferous , il disco del 2009, l’ultimo con Jacopo Battaglia alla batteria, rappresenta forse l’apice della band, almeno per quanto riguarda quella fase. Un album perfetto, compatto, potentissimo. Pubblicato dalla Ipecac di Mike Patton, ospite in alcuni brani, così come Buzz Osborne dei Melvins.

“In quel momento le cose sono un po’ cambiate”, racconta Massimo. “Anche perché eravamo entrati in un immaginario che in quel momento era fortissimo. C’era grande interesse verso i gruppi di Patton, i Melvins, c’erano riviste come Rock-a-rolla che si occupavano solo di quella scena lì. Anche lì comunque entravamo sempre un po’ di lato, però questa cosa portò a collaborazioni interessanti, che ci fece partecipare a quella scena, per un momento almeno”.

Mike Patton si lega alla band almeno dal 2000, quando, in occasione della tournée italiana con i Fantômas, ha modo di vederli dal vivo. L’aneddoto, raccontato dagli Zu varie volte, è favoloso. Patton non è convinto della band che avrebbe dovuto aprire il concerto a Roma. Si ricorda delle parole dell’amico John Zorn, che aveva ricevuto il demo degli Zu all’indirizzo della sua label, rimanendone colpito (pur senza rispondere alla band) e consigliando l’ascolto della band romana a Patton. Mike allora cerca un contatto, riuscendo a trovare finalmente una ragazza che li conosce personalmente. Immaginate Massimo Pupillo rispondere al telefono di casa, con Patton che gli propone di aprire il concerto (gli Zu si erano ovviamente tenuti liberi per andare al concerto). E, soprattutto, Massimo costretto a chiedere se cortesemente i loro idoli potessero prestare loro l’amplificazione, visto che gli Zu da Ostia sarebbero arrivati in motorino.

In apertura a Carboniferous c’è un pezzo che si chiama Ostia. È praticamente il primo e unico pezzo degli Zu con la cassa dritta, omaggio ai trascorsi techno degli anni di Spaziokamino. “Inizialmente il brano si chiamava Ostia 180 bpm“, spiega Massimo, “per richiamare il beat della musica che si balla ai rave. Ma più che altro è nata come un piccolo tributo a Zk e a Sekketto, a quella storia”. La storia di Spaziokamino non si è interrotta infatti con lo sgombero del 2001. Un anno e mezzo dopo, alcuni attivisti (tra cui Sekketto) hanno occupato un nuovo stabile in mezzo alle fratte, una vecchia balera in cui si narra si sia esibita anche Mina negli anni Sessanta. Abbandonato da tempo, ha ripreso nuova vita con il centro sociale. Ogni estate ci si organizza l’Ostia Palusa (festival giunto alla quinta edizione), durante l’anno ci sono concerti, una sala prove frequentata da giovanissimi (in cui ha preso forma anche Carboniferous degli Zu) e in cui, ovviamente, lo spirito rave non è mai morto. “Diciamo che quella componente techno o elettronica, la stessa che c’è in Ostia, esiste da sempre”, osserva Jacopo. “Magari uno pensa che possiamo esserci conosciuti a un concerto jazz tipo di Bill Frisell, oppure al conservatorio. E invece ci siamo formati a un rave illegale”.

Massimo e Jacopo nella sala prove di ZK in cui è stato composto Carboniferous.

“Noi abbiamo sempre avuto, lo si vede anche dalla discografia, un’attitudine molto inclusiva” spiega Massimo. “Non abbiamo mai creato barriere tra la nostra band e gli altri. Se qualcuno entrava nella nostra traiettoria, con grazia diciamo, con interesse e curiosità reciproca, ci siamo sempre aperti molto. Siamo cresciuti molto grazie a questo, perché ci siamo ritrovati a suonare con musicisti incredibili, che ogni volta ci hanno dato tantissimo. Che ne so, penso ad un musicista come Mats Gustavsson“.

“Di certo le nostre collaborazioni non c’entrano niente con la ricerca della notorietà, altrimenti non avremmo mai suonato con musicisti così. Ci è capitato di suonare ad esempio con Hamid Drake degli Spaceways Inc, abbiamo fatto un disco assieme come doppio trio, un batterista così mi ha sconvolto totalmente”, dice Jacopo. “Per noi è sempre stato un discorso prettamente musicale, e ovviamente umano. L’eccezione forse è Mike Patton, che unisce un po’ le due cose, perché è stato una rockstar con i Faith No More ed è anche un musicista della madonna”.

Jacopo Battaglia, dopo il lungo tour seguito al disco, decide di lasciare la band. Nel 2011 il trio terrà gli ultimi concerti con Jacopo alla batteria, che dopo pochi mesi entrerà nella formazione live del progetto elettro-noise Bloody Beetroots (e grazie alle lunghe frequentazioni con il Veneto, da Sir Bob Rifo a Giulio Favero del Teatro degli Orrori, Jacopo sfoggia un dialetto veneto davvero apprezzabile).

“È successo tutto abbastanza velocemente nell’ultimo anno con gli Zu,” racconta. “Diciamo che dopo tanti anni assieme, può succedere che uno cerchi cose diverse rispetto a quello che cerca il gruppo. Quel periodo poi era molto particolare, suonavamo già da dieci anni e più, è venuta fuori anche un po’ di stanchezza da tour. Eravamo veramente sempre in giro, e anche se c’erano tensioni o cose da chiarire, non avevamo mai il tempo di farlo. E insomma, se stai male, non ci sei. Penso sia normale. In quel momento lì, almeno, è stato così”.

“Prima di lasciare gli Zu definitivamente”, continua Jacopo, “ho provato a vivere in Giappone, mi sono trasferito lì per un periodo. Anche per maturare meglio la decisione, che all’epoca mi sembrava qualcosa di davvero enorme. L’idea di tornare e dire loro che mollavo, era davvero difficile da immaginare. Poi il caso ha voluto che, per qualche motivo, Bloody Beetroots venisse a conoscenza del mio nome. Credo fosse per un concerto fatto a Milano per l’iniziativa di Manuel Agnelli cui avevamo partecipato anche noi, Il paese è reale . Un tecnico che ci vide in quell’occasione aveva fatto il mio nome a Bloody Beetroots quando si trovarono senza batterista. Mi è capitata un po’ una scappatoia, nel senso che tutto sembrava dirmi che fosse giusto cambiare. Sarebbe stato folle non accettare, in quel momento. Ci siamo visti, poi sono andato a Tokyo per un po’. E nel frattempo è venuta fuori la notizia che lasciavo gli Zu. Mi son trovato catapultato dentro una realtà del tutto nuova. L’ho presa con l’idea di imparare il più possibile, non avendolo mai fatto prima. Sai, noi Zu eravamo abituati all’etica DIY: smonta, rimonta, sali in furgone, riparti. Con Bloody Beetroots era una cosa completamente diversa. Di fatto, ho imparato un lavoro, il turnista. Ho suonato davanti a 50mila persone, però più che altro ho conosciuto persone splendide, forse perché paradossalmente c’è molta meno competitività che nel mondo underground, dove spesso ci si sparla un po’ addosso. C’è l’aspetto ludico, sicuramente divertente, ci sono responsabilità che sono molto diverse. Con gli Zu viaggiavamo in tre o quattro in furgone, in quelle situazioni invece hai quindici tecnici a disposizione dei musicisti”.

“All’inizio per me tutta questa storia di Jacopo è stata uno shock”, racconta Massimo. “Stavo male. E quasi ho pensato: non suono più. Ho dovuto fare una pausa lunghissima. Con gli Zu ci siamo fermati per un bel po’, due anni e mezzo, davvero benedetti. Io per più di un anno non ho avuto né mail né telefono. Poi ti ritrovi. Anche con Jacopo, ci siamo ritrovati, abbiamo parlato a lungo. Durante i miei viaggi, le miei riflessioni, cercavo di capire cosa non aveva funzionato, cosa era andato fuori strada per me, per la band. Mi sono dato davvero un sacco di tempo per fare solo questo. Anche per riflettere poi veramente su che cos’è la musica per me. Cosa significa suonare, che cos’è l’entusiasmo. E come si fa a tenere vivo quel fuoco, e a trasformarlo. Sono piccoli passaggi, di giorno in giorno. Anche perché magari in altre fasi sei più rigido, mentre poi assumi un’altra ottica. Tutto è un fluire di cose, di cambiamenti. E sta a te accettarli o meno. Le cose importanti diventano anche altre, no?”.

La ricerca portata avanti da Massimo Pupillo in questi anni lo ha portato ad approfondire temi che hanno sempre fatto da base concettuale al suo lavoro in musica. L’interesse per lo sciamanesimo e per le forme rituali, condiviso soprattutto con Luca T. Mai fin dagli anni della formazione, lo ha condotto, durante la lunga pausa dagli Zu, prima in Tibet e poi in Amazzonia. In Tibet, ha modo di studiare le modalità di canto rituale presso una comunità di monaci che lo ospita per un anno. È proprio ai riti funerari tibetani che è ispirato l’ultimo disco Jhator , un album inaspettato, apparentemente molto diverso dalle cose precedenti degli Zu, in realtà in linea con molte delle direzioni di sperimentazione, che emergono soprattutto nei progetti paralleli. Un lavoro di ambient, in cui i suoni si dilatano, vengono usati strumenti diversi (gong, cornamuse, il koto giapponese), puntando molto più sulle atmosfere avvolgenti e inquietanti piuttosto che sulla violenza dell’impatto.

“La nostra è sempre stata un’unione anche tanto extramusicale. È contata tantissimo soprattutto all’inizio, quando cercavamo un nostro linguaggio. Oltre ai riferimenti musicali cominciano a diventare molto forti anche le altre influenze, molte condivise. La musica in fondo la nutri in tanti modi, no?” riflette Massimo. “E noi abbiamo evoluto il linguaggio assieme. Abbiamo iniziato a lavorare sulle forme che ci venivano in mente, e ci accorgevamo c’entravano poco con generi predefiniti perché semplicemente erano le nostre”.

“Tutte queste cose rientrano poi nel suono. Anche tutta una serie di influenze musicali che non sono dirette, o immediatamente visibili. Nel caso di Jacopo, ad esempio, in come suona la batteria è sempre entrato molto più Aphex Twin che gli Slayer o il free jazz. O in Jhator, ad esempio. È un disco di quaranta minuti in cui i tre strumenti degli Zu quasi non esistono. Però il senso era: come raccontiamo questa storia? Che strumento ci serve, che suono vogliamo esprimere? Per quanto riguarda il mio lavoro, il basso ho cominciato a vederlo sempre di più come un sintetizzatore. A concentrarmi sulle frequenze, sulla costruzione del suono. All’inizio abbiamo esplorato tantissimo l’architettura, poi però è come se la gravità fosse andata sempre più verso la materia, verso la corporeità del suono. E diventa una componente fondamentale anche quando scrivi. Ti accorgi che un certo suono ti penetra, ti nutre. E se succede a te, succede anche a chi ti ascolta. E tutto ciò diventa un esperimento su qualcosa che è indicibile. Per quello poi la parola, il testo, la voce, diventano superflui, perché stai proprio andando in un’altra direzione”.

Massimo in questo autunno sarà al lavoro con diversi progetti, portando avanti anche le molte collaborazioni da solista. Luca T. Mai nel frattempo suona con alcuni progetti paralleli come Mombu e Divus, mentre il nuovo arrivato, il batterista norvegese Tomas Järmir (dopo la parentesi con Gabe Serbian dei Locust), è da poco entrato anche nella nuova formazione dei connazionali Motorpsycho. Scelta ideale per la band, visto che il trentenne originario di Trondheim, per imparare a suonare studiava gli Zu e Jacopo Battaglia, “cosa che mi lusinga e mi sorprende, sinceramente. Tomas comunque secondo me è perfetto. Quando l’ho visto suonare la prima volta ho detto: eccolo, è lui. È un musicista eccezionale, sta avanti e di parecchio. Ovviamente io ho continuato a seguirli, la band è come un figlio, una parte della tua vita che sai che continua ed è bello, soprattutto dopo i vari chiarimenti, e quindi non c’è più quel qualcosa di irrisolto. Nella vita le cose irrisolte sono tremende”.

“Alla fine è stato veramente un bene che sia successo tutto questo, sai”, riflette Jacopo. “Non avremmo imparato tante cose, non ci saremmo evoluti, probabilmente ci saremmo chiusi sempre di più dentro le nostre posizioni. Il gruppo magari non sarebbe andato avanti, e invece i ragazzi continuano. Quanti gruppi esistono per vent’anni, con qualcosa da dire? E poi stiamo qua insomma, ci vogliamo bene, siamo fratelli. Però in quel momento se non avessi fatto quella scelta magari oggi non ci sarebbero più gli Zu. Oppure non saremmo amici, che poi è la cosa più importante”.

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Ostia.

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Marco scrive su il manifesto e Noisey. Seguilo su Twitter: @marcodevidi.
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