Le regionali sono un appuntamento elettorale ibrido, in cui si intrecciano dinamiche nazionali e locali—dinamiche che stanno perennemente in tensione tra loro, e cercano di prevalere l’una sull’altra. E questo l’abbiamo visto all’opera nelle elezioni in Calabria ed Emilia-Romagna, forse come mai prima d’ora.
Mentre le prime erano praticamente già decise, con una vittoria netta del centrodestra (cosa che poi si è puntualmente verificata), le seconde erano caratterizzate da molta più tensione e incertezza.
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La Lega ha fatto una martellante campagna elettorale, cercando di espugnare una regione da sempre governata dalla sinistra e facendo di tutto per legarle al destino del governo nazionale. Fino all’ultimo, infatti, i sondaggi parlavano di un sostanziale testa a testa tra il centrodestra a trazione leghista e il centrosinistra.
Ora, come sappiamo, non è andata proprio così. Stefano Bonaccini, il presidente uscente nonché candidato del Partito Democratico, ha vinto con il 51.4 percento dei voti; e la sfidante Lucia Borgonzoni si è fermata al 43.7 percento. A livello di voti alle liste, il Pd è arrivato al 34.7 percento e la Lega al 32. Non pervenuto invece il Movimento Cinque Stelle, inchiodato ad un catastrofico 4.7 percento.
Le regionali in Emilia-Romagna impartiscono una serie di lezioni a tutti i partiti—in primis a Matteo Salvini, che evidentemente ha fallito la spallata—e suscita tutta una serie di riflessioni che provo a mettere in fila qui di seguito.
NONOSTANTE TUTTO, LA STORIA DELLA “REGIONE ROSSA” È COMUNQUE ARCHIVIATA
Di fronte a un risultato del genere, la prima reazione più scontata è quella di dire: grazie al cazzo che la sinistra ha vinto e la Lega ha perso; governa lì da tempo immemore, pensavate che le cose potessero cambiare di colpo?
In realtà, le cose sono già cambiate in profondità. L’Istituto Cattaneo, che ha coniato l’espressione “regioni rosse” nel lontano 1968, avverte da tempo che non esiste più alcuna “zona rossa” nella mappa politica italiana. Nemmeno in Emilia-Romagna.
In un esauriente studio pubblicato prima del voto, e sostanzialmente ignorato dai media, i politologi scrivono che “per quasi un secolo l’Emilia-Romagna è stata il cuore pulsante” di questa “zona rossa,” ma che “oggi quel ‘modello emiliano-romagnolo’ che teneva assieme in maniera sistematica e coordinata pezzi vasti di società, politica ed economia si è spezzato.”
Basti pensare a un solo fatto: nelle ultime tre elezioni di rilievo nazionale precedenti a quelle di ieri (regionali 2014, politiche 2018 ed Europee 2019) c’è stato un vincitore sempre diverso: prima il Pd, poi il M5S e infine la Lega.
La geografia elettorale della regione è cambiata radicalmente, con il centrosinistra non più egemone e ormai arroccato attorno alla “metropoli diffusa” che va da Reggio Emilia e Ravenna; e il centrodestra che raccoglie sempre più consensi nelle aree lontane dai grandi centri urbani (con la significativa eccezione di Ferrara) e nei comuni sotto i 15mila abitanti. Il tutto in quadro di affluenza sempre più bassa, con il picco negativo delle regionali del 2014 in cui aveva votato solo il 37 percento dell’elettorato.
Per la prima volta i partiti di sinistra arrivavano al voto con due sconfitte elettorali alle spalle, cioè all’inseguimento. La posta in gioco era dunque alta, soprattutto sul piano simbolico. In altre parole, l’Emilia-Romagna si è trasformata in un “ultima linea di resistenza” all’avanzata della Lega—sia su scala locale che nazionale.
Ma si trattava pur sempre di un’elezione regionale, in cui bisognava saper intercettare le richieste dei cittadini dell’Emilia-Romagna. I quali, secondo l’Istituto Cattaneo, chiedevano una cosa molto semplice: “Non promesse mirabolanti per un futuro radioso, ma progetti realistici per evitare che i cambiamenti all’orizzonte siano meno rischiosi di quanto oggi si possa immaginare.”
LA SCELTA DI BONACCINI DI PRESENTARSI COME IL “SINDACO DELL’EMILIA-ROMAGNA” HA PAGATO
A tal proposito, Bonaccini ha cercato di capitalizzare sull’alto consenso di cui godeva prima della campagna elettorale. Secondo alcuni sondaggi, il governatore dell’Emilia-Romagna riscuote il 62 percento del gradimento; una percentuale tra le più alte in Italia, seconda solo a quella del governatore leghista del Veneto Luca Zaia.
In più, Bonaccini ha fatto leva sul maggior radicamento del centrosinistra a livello comunale—sfruttando quindi l’eredità del municipalismo di sinistra e ottenendo l’endorsement di 210 sindaci su 328. Il tentativo non poteva essere più chiaro: il governatore uscente, sempre secondo l’Istituto Cattaneo, ha cercato di tenere la competizione sul piano amministrativo rivendicando l’operato della sua giunta.
E si tratta di un operato tutto sommato positivo: la regione ha oggettivamente degli standard d’eccellenza. La qualità della vita è alta, la sanità funziona, la scuola pure, l’economia va bene, e c’è una sicurezza diffusa. Certo, non tutto va a meraviglia: le disuguaglianze crescono anche lì; il divario territoriale tra centro e periferia si è allargato non poco negli ultimi anni; la popolazione sta invecchiando sempre di più; e alcune aree sono ancora in profonda crisi.
Insomma, gli elettori hanno optato per la continuità amministrativa—andando anche al di là dell’appartenenza partitica. E forse, ma questo lo dico io, Bonaccini è stato aiutato da questo nuovo look alla Thanos.
MATTEO SALVINI INVECE HA SBAGLIATO, NAZIONALIZZANDO TROPPO LE REGIONALI E RUBANDO LA SCENA ALLA CANDIDATA
In questi mesi Matteo Salvini si è di fatto trasferito in Emilia-Romagna battendo paese dopo paese, sagra dopo sagra, fabbriche di salumi dopo fabbriche di salumi. Per calarsi ancora di più nel mood, ha iniziato a vestirsi come un Fausto Bertinotti qualsiasi e abbozzato un improbabile accento romagnolo.
Nulla di cui sorprendersi, per carità; la politica contemporanea ruota attorno ai leader del momento e alle loro capacità comunicative. La campagna personale (e nazionale) per “liberare” l’Emilia-Romagna e mettere in difficoltà il governo “giallorosso,” tuttavia, ha avuto come effetto collaterale quello di oscurare una candidata già debole come Lucia Borgonzoni. E alla fine era lei che gli elettori avrebbero dovuto votare.
Nemmeno le varie piazzate di Salvini, quelle che gli hanno permesso di dominare l’agenda mediatica, hanno pagato. Prendiamo solo l’ultima—l’infame citofonata al quartiere Pilastro di Bologna. Bene: lì il Pd ha preso il 41 percento, e la Lega si è fermata al 18. In pratica, gli abitanti hanno rifiutato con forza quel tipo di propaganda (che tra l’altro ha pure causato un incidente diplomatico con la Tunisia).
A livello regionale si attesta comunque al 32 percento dei consensi, risultando il secondo partito. Unendolo al fatto che governa una città importante come Ferrara, si può dire che l’avanzata sotto il Po—iniziata più di dieci anni fa—è ormai compiuta. Avrà pure perso a questo giro, ok: ma l’Emilia-Romagna è macchiata di verde, e non da ieri.
IL MOVIMENTO DELLE “SARDINE” HA AVUTO QUALCHE EFFETTO, MA NON È DETTO CHE SIANO STATE DECISIVE PER BONACCINI
Una delle prime cose che ha fatto Nicola Zingaretti, l’attuale segretario del Partito Democratico, è stato ringraziare le “sardine”—principalmente per aver riempito le piazze e, nella sua lettura, tirato la volata a Bonaccini.
Tuttavia, è impossibile sapere se e quanto il movimento nato lo scorso 14 novembre abbia inciso a livello numerico. E il loro effetto, con ogni probabilità, è da misurare sul piano politico e non elettorale.
L’emersione delle “sardine,” infatti, ha confermato che la società emiliano-romagnola si è definitivamente slegata dalla politica partitica. Come sottolinea l’Istituto Cattaneo, “la tradizionale cinghia di trasmissione che legava ‘il partito’ al mondo associativo e cooperativo si è allentata a tal punto che proprio l’Emilia Romagna è diventata il palcoscenico privilegiato per il debutto di nuovi movimenti collettivi.”
Negli ultimi dieci anni, insomma, la regione è stata una sorta di laboratorio; e Bologna, la patria simbolica dell’ex “regione rossa,” il palcoscenico di lancio di questi esperimenti. Nel 2007 c’è stato il V-Day, e sulla fine del 2019 quello delle sardine. Se il primo ha dato il via al M5S, cioè un qualcosa che è nato in opposizione al sistema di potere locale e nazionale, il secondo è una reazione al vuoto di rappresentanza politica.
Quindi: le “sardine” una spinta a Bonaccini gliel’avranno sicuramente data. Se fossi nel centrosinistra, tuttavia, le ringrazierei non perché mi hanno fatto vincere le elezioni, ma per la loro funzione critica e di pungolo. Nel senso che sono il sintomo di un qualcosa che non funziona più, e va migliorato.
IL CROLLO DEL M5S FA RITORNARE IN SCENA IL BIPOLARISMO, E METTE IN DIFFICOLTÀ IL GOVERNO
Il dato impressionante di queste regionali è il crollo verticale del M5S—che non è riuscito ad arrivare nemmeno al 5 percento, venendo completamente prosciugato dal PD e dalla Lega. Parliamo di un partito che in Emilia-Romagna praticamente ci è nato, e che alle politiche di appena due anni fa era primo.
Di quel successo non è rimasto nulla. Solo un cumulo di macerie, che nessuno sembra in grado di smaltire. Tant’è che luigi Di Maio, proprio per evitare questa “Waterloo” (come l’ha definita lo storico esponente emiliano Massimo Bugani), si è dimesso qualche giorno fa.
Paradossalmente, seppur in maniera diversa, questo voto fa tornare in auge il bipolarismo centrodestra-centrosinistra che ha contraddistinto la Seconda Repubblica—e che proprio il M5S aveva scardinato. Al momento però il partito è allo sbaraglio più totale, in una crisi profondissima. E stando così le cose non è più “l’ago della bilancia” del sistema partitico italiano; un’evidenza che non fa ben sperare per la tenuta dell’attuale governo, nonostante tutte le rassicurazioni di Conte e Zingaretti.
Ma del resto, lo sappiamo: se in politica qualcuno dice che sta andando tutto bene, allora la situazione è disperata.
“PARLATECI DI BIBBIANO”? PARLIAMO DI BIBBIANO, FORZA
Per finire, solo un dato. Durante tutta la campagna Salvini ha puntato moltissimo su “Bibbiano”—inteso non come città in provincia di Reggio Emilia, ma come meme della destra su un presunto sistema corrotto che organizza furti collettivo di bambini per trasformarli in attivisti LGBTQI+—e ha pure concluso il suo tour elettorale lì.
Bene: a Bibbiano il Partito Democratico ha preso il 40.7 percento, e la Lega si è fermata al 29.46.