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Quali sono i lavori che la nostra generazione deve iniziare a evitare?

lavori che non fanno guadagnare

Personalmente, in quanto millennial, ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in quel periodo storico in cui i sogni lavorativi erano ancora legati alle possibilità individuali. L’idea secondo cui tutto sarebbe stato possibile, bastava avere talento e protervia per bucare la barriera del successo. Per la Generazione Z, però, le prospettive sono estremamente cambiate.

Gli ultimi 13 anni sono stati la Caporetto del mercato del lavoro, a causa di svariati fattori: crisi economica, sviluppo digitale e tecnologico, e globalizzazione, hanno fortemente intaccato la nostra prospettiva su molte realtà occupazionali e d’impresa, in un’infinità di ambiti. Dalle più velleitarie, alle più pratiche e concrete. Generando problematiche complesse nel trovare lavoro, e nell’assicurarsi un reddito dignitoso.

Un po’ di esempi concreti: lauree ed occupazioni che un tempo consideravamo viatico per un buon reddito (come architettura, giurisprudenza, psicologia) oggi sono diventate terreni accidentati, in cui ci si deve far largo a spallate; nicchie iperselezionate per cui si credeva che bastasse avere competenze e bravura per emergere (come i settori creativi, o il giornalismo) sono state trasformate in nuove forme di proletariato dalla rivoluzione digitale (secondo un paradosso economico indicativo: sempre più utenti leggono i quotidiani online o guardano prodotti di intrattenimento, sempre meno soldi ci sono nel settore perché ancora non esiste un metodo realmente fruttuoso di monetizzarli, o perché la rete permette di fruire di questi contenuti gratis); gli autonomi e le partite iva (di qualsiasi tipologia), fra tasse e mancanza di tutele e sicurezze, ormai somigliano più a soldati fantasma giapponesi che non a dei lavoratori. Per molti altri ambiti, invece, sembra che emigrare all’estero sia l’unica soluzione per potersi affermare.

L’automazione e lo sviluppo tecnologico, poi, gettano un’ombra lunga su molte figure professionali del settore industriale e operaio. Secondo una recente indagine di Deloitte, società internazionale di consulenza, la robotica e l’intelligenza artificiale cambieranno il 61 percento dei mestieri.

In questo scenario sorge spontanea quindi una domanda: è possibile capire se esistono dei lavori che i giovani dovrebbero evitare, perché destinati a scomparire o perché rappresentano una condanna certa al precariato e all’indigenza? Per capirlo mi sono rivolto ad AlmaLaurea—consorzio interuniversitario che da anni svolge, fra le altre, ricerche sulle condizioni occupazionali dei laureati italiani—e a Paolo Falco, professore associato del Dipartimento di Economia all’Università di Copenaghen, esperto di sviluppo del lavoro, che ha collaborato al progetto dell’OCSE “The Future of Work“.

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Quali sono le lauree che ti permettono di guadagnare di più?


Partiamo dagli ultimi dati che mi ha fornito AlmaLaurea sulle condizioni d’occupazione a cinque anni dal termine degli studi. Dai numeri che emergono dalle tabelle sulle lauree magistrali non a ciclo unico, si notano evidenze chiare (anche se dovute a specifiche caratteristiche). Nel 2020, ad esempio, la laurea in ingegneria è ancora solida come il granito: con un tasso di occupazione di 93,2 percento (il più alto), e una retribuzione mensile netta media di 1.762 euro. Seguita a ruota dalla laurea in Medicina (92,4 di occupazione, e 2007 euro di retribuzione), in materie scientifiche (occupazione di 89, e retribuzione di 1.675), ed economico-statistiche (89,6; 1.580 euro).

Contrariamente a quanto si pensa, invece, la maggior parte dei laureati in materie letterarie un lavoro lo trova (il tasso di occupazione è del 77,5 percento), anche se il vero problema è la retribuzione fra le più basse (1.240 euro mensili) e la più alta propensione a definire scarsa l’efficacia della laurea nel lavoro svolto. Va un po’ meglio a chi si laurea in lingue (84,1; 1.306 euro) e ambito politico-sociale: 83,1 di tasso di occupazione, e 1.400 euro di retribuzione media (anche se pure questi laureati lamentano più degli altri una scarsa utilità della propria laurea).

Rispetto a questi dati colpisce molto la condizione delle materie giuridiche: il tasso di occupazione è il più basso di tutti (75,2), e la retribuzione media è di 1.340 euro, appena 100 in più rispetto ai laureati in ambito letterario. Gli architetti invece trovano più facilmente lavoro (88,1), ma le loro retribuzioni non sono altissime (1.376 euro). In generale il rapporto fra occupazione e reddito mediamente più svantaggioso, sembrano averlo i laureati in psicologia: con un tasso del 79,3, e una retribuzione mensile di 1.090 euro.

Un fattore da tenere in considerazione, poi, è la propensione ad essere assorbiti dal mercato del lavoro estero: i laureati nelle fasce che presentano retribuzioni più basse (psicologia, lettere, giuridico) sono anche quelle che per impostazione (e i numeri dei dati lo testimoniano) sono meno idonee a consentire sbocchi su altri mercati. I laureati in scienze e ingegneria, quindi, oltre ad essere assorbiti meglio sul nostro mercato, possono optare più facilmente anche per soluzioni all’estero. Fa eccezione, per ovvie ragioni, solo l’indirizzo linguistico.

Quali lavori cambieranno di più in futuro?

La responsabile dell’ufficio indagini e statistiche di AlmaLaurea mi ha confermato che è complesso riuscire a predire come potrebbe mutare il mercato del lavoro in base ai dati che abbiamo oggi, possiamo comunque ricavare informazioni abbastanza eloquenti (soprattutto riguardo alle potenzialità di guadagno) dei vari settori. “Riguardo alle prospettive sul futuro,” mi ha detto Marina Timoteo, direttore del consorzio, “dobbiamo tenere presenti i grandi temi con cui questi mondi si stanno confrontando oggi: internazionalizzazione, sviluppo delle competenze digitali, ibridazione delle competenze umanistiche e scientifiche.”

Quindi mi sono rivolto al professor Falco, a cui ho chiesto se le sue indagini evidenziano particolari settori a rischio, su cui sarebbe meglio non investire in formazione e speranze. Il professore, innanzitutto, ci ha tenuto a fare una cesura fra lavori che potrebbero effettivamente scomparire, e lavori che a causa di paradossi sistemici sembrano destinati a diventare appannaggio di benestanti che possono permettersi di lavorare guadagnando poco. Perché le cause e le soluzioni per questi settori sono molto diversi.

Partiamo dai primi: “da quando si parla di sviluppo tecnologico, e di robotica, si millanta sempre lo spettro della sostituzione umana. Ma mi sento di stemperare queste paure: per quanto sia vero, e le tendenze ce lo confermano, che determinati lavori nell’ambito dell’industria e dei servizi, andranno a scomparire (soprattutto quelli di produzione legati alla ripetitività e meccanicità, codificabili da algoritmi), è anche vero che se ne creeranno molti altri di conseguenza. Perché l’automazione va gestita (in funzionamento e manutenzione) attraverso la creatività, il problem-solving deduttivo, e la capacità di relazionarsi e fare squadra con gli altri lavoratori. Il punto sta tutto nel creare un sistema che sia in grado di offrire formazione adeguata, e capacità di adattamento, alle tipologie di lavoratori le cui mansioni saranno soggette a cambiamenti drastici.”

Secondo il professor Falco, quindi, i lavori legati alle mansioni industriali non sono destinati a generare occupazione zero. “Anzi: se uno vuole affidarsi ai trend numerici, si scopre che i tassi di occupazione globale continuano ad aumentare, anche se siamo in piena transizione tecnologica. Questo principalmente perché sempre più donne lavorano, ma è comunque un dato che smentisce l’idea secondo cui una parte del lavoro sta scomparendo. Ci sono sempre state rivoluzioni tecniche che hanno cancellato determinate mansioni, creandone altre però.”

Ci sono altri lavori, invece, il cui futuro plumbeo non è legato tanto ai tassi di occupazione, ma alla capacitò di generare reddito. Qui la situazione è diversa, e il sistema non si autoalimenta come nel precedente caso. Settori prosciugati economicamente da vari fattori: come la polarizzazione del mercato digitale ad esempio, che con i suoi macro-player monopolistici (Facebook, Google, Amazon) sta abbrutendo le regole di domanda e offerta per interi settori, o dalla liberalizzazione univoca di certe dinamiche di impiego, che tagliano tutele e diritti senza mai alzare gli stipendi. “Pensiamo a tutto il comparto dei lavori creativi, o dei servizi e delle consulenze: professionisti che generano con il loro lavoro un enorme indotto per determinati operatori, ma che spesso guadagnano pochissimo. Una fuga di potere economico che non rientra neanche dalla finestra, perché i flussi fiscali dei gruppi polarizzanti di cui parlavamo li conosciamo bene.”

Come colmare il divario tra competenze richieste e stipendi minimi?

Lo squilibrio ormai è tale che determinate occupazioni sembrano sempre di più destinate a diventare degli scherzi: grande richiesta di competenza, alte performance attese, e ricavi minimi. Per queste situazioni l’unica omeostasi possibile è quella politica: “nell’ultimo decennio siamo stati abituati a pensare che è sempre il mercato a dover indicare il futuro. Quindi si possono distruggere intere industrie, che magari continuavano a generare valore economico e culturale, perché determinati player devono lucrare con le loro regole dittatoriali di mercato. Ma non è detto che debba necessariamente essere così,” continua Falco.

“Sono recentemente coinvolto in un studio che mira a dimostrare quanto l’aumento della concentrazione in determinati mercati, genera condizioni lavorative infinitamente peggiori. Non voglio sembrare un economista smaliziato, ma siamo ad un punto per cui o i regolatori politici intervengono, o la situazione diventerà insostenibile. Non solo a livello economico, ma proprio democratico.”

Quello che sembra suggerire la riflessione del professor Falco, quindi, più che un investimento tecnico e formativo, è un investimento di consapevolezza e prese di posizione. Più che evitare certe tipologie di lavori, la Generazione Z dovrebbe mettersi nell’ottica futura di evitare certe imposizioni lavorative.

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