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Chester Bennington e i Linkin Park ci hanno insegnato a essere strani

Se hai frequentato le superiori tra il 1998 e il 2005, hai perlomeno sentito nominare sicuramente Hybrid Theory—era dappertutto, come succedeva a un best seller ai tempi in cui la radio era ancora in grado di spostare milioni di copie, prima che internet entrasse in funzione a pieno regime. Ci sono buone probabilità che tu l’abbia anche amato, quel cazzo di album. È stato il disco che ha catapultato i Linkin Park, allora un giovane ibrido rap-rock, verso le stelle; i suoi quattro singoli—”One Step Closer”, “Papercut”, “Crawling” e specialmente “In the End”—erano ovunque, e grazie alla distribuzione della major, ogni giovane con un Walkman e una paghetta poteva comprarselo.

Il debutto dei Linkin Park arrivò durante il picco commerciale del rap rock, riempiendo esattamente il buco tra il declino del grunge e l’ascesa del nu-metal esagerato e aggressivo che lo aveva seguito. Hybrid Theory certamente non si discostava molto da certi canoni nu-metal (vedi il basso ciccione e l’alternanza sussurro-urlo su “Run Away”), ma era diverso dalla rabbia nuda che veniva venduta da gente come Slipknot e Korn. Anzi, i Linkin Park sembravano più tormentati che altro. Chester Bennington, morto ieri all’età di 41 anni, scriveva testi pervasi dall’infelicità, in cui i suoi lamenti mezzi sussurrati si trasformavano in ruggiti una volta incontrati gli ipocriti, i falsi e i bulli, invisibili antagonisti.

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Più di ogni altra cosa, Bennington suonava incazzato, ma mai minaccioso o estremamente macho. La sua voce aveva una caratteristica di fragilità, amplificata dalla sua figura minuta e dal suo aspetto giovanile (io ho avuto una cotta per lui da quando ho visto il loro primo video su MTV). Qualunque cosa fosse, ci ipnotizzava e ci aiutava a trovare un senso a un mondo che spesso ci sembrava troppo grande e freddo. Mentre molti rocker della loro epoca spremevano fino all’osso l’immagine da “sono arrabbiato e odio mio padre” (in quegli anni, con dischi di platino regolarmente assegnati ad album nu-metal, era un’immagine che pagava bene), la loro angoscia era genuina, alimentata dai ricordi del cantante di un’infanzia dura e costellata di abusi.

La sua disponibilità nel parlare sinceramente dei suoi traumi diede conforto a milioni di altri giovani in lotta contro le circostanze. L’album parlava di delusione, solitudine e ribellione, temi istantaneamente riconoscibili per gli irrequieti, frustrati e musoni ragazzini che così tanti di noi erano, e la musica stessa—uno strano, inoffensivo ma affascinante mix di alt-rock, nu-metal e hip-hop, con l’alternanza tra le barre del rapper Mike Shinoda e il cantato sofferto di Bennington—sembrava abbastanza pericolosa per piacerci, ma anche abbastanza accessibile da tenerci lì. Live, erano elettrizzanti; in studio, erano senza paura e spingevano i confini già fluidi del rap rock in ogni direzione che potessero concepire. Era il perfetto album d’iniziazione, perché apriva molte strade diverse; mi ha avvicinata al metal estremo, ma altri da lì hanno scoperto l’hip-hop, o la musica elettronica, o il rock in generale. Anche il più ortodosso fan del black metal o dell’hip-hop deve iniziare da qualche parte, e per milioni di ragazzini in tutto il mondo, quel trampolino di lancio fu piazzato lì da un gruppo di sfigatoni dalla periferia di Los Angeles.

Per ragazzini come me, che sono cresciuti in aree rurali e che scoprivano tutta la musica tramite la radio e Walmart, Hybrid Theory ebbe l’impatto di un asteroide. La prima volta che ho ascoltato i Linkin Park era una tarda serata d’estate, ed ero rannicchiata vicino al mio stereo cercando di ascoltare la stazione rock locale a un volume abbastanza basso da non far scoprire a mia madre che ero ancora sveglia. Dal fruscio emerse una cosa nuova—una cosa diversa. Il loro primo singolo, “One Step Closer”, strisciò fuori dalle vecchie casse come il serpente dal melo nell’Eden. Mentre i riff esplodevano, nella voce di Bennington, aguzza e trasparente come vetri rotti, riecheggiava la mia stessa frustrazione adolescenziale e l’aggressività malamente repressa che continuava a farmi finire in punizione a scuola. Si connetté con me in un modo che i vecchi dischi dei Sabbath di mio padre non potevano fare; questa band sembrava capirmi, e capire perché ero così arrabbiata, e sembrava dirmi che non c’era nulla di male a sentirsi così. Corsi alla ricerca di una cassetta vergine per registrare l’ultima metà della canzone, aspettando con ansia che il DJ pronunciasse il nome della band che aveva appena sconvolto il mio mondo. Avevo 12 anni.

Questo successe 17 anni fa, e ripenso ancora a come mi sentii quando ascoltai quel pezzo e capii, per la prima volta e soltanto per un attimo, che non ero sola.

I Linkin Park sono ancora in attività e hanno pubblicato il loro settimo album, One More Light, a maggio scorso. Rimangono un nome gigante nel rock mainstream, ma io non farò finta di conoscere le loro ultime uscite; già nel 2003, quando uscì Meteora, io mi ero convertita ai suoni più duri e meno emotivi del grindcore e del death metal. I Linkin Park mi avevano aperto una porta che ancora non sapevo esistesse, ma una volta superata, non guardai più indietro. Non ne avevo bisogno: mi avevano dato un primo sguardo di quello che c’era là fuori, lasciando che fossi io ad esplorare ulteriormente. Quando Bennington entrò negli Stone Temple Pilots, guardai alcuni video per curiosità, giusto abbastanza per assicurarmi che la sua voce fosse ancora iconica come la ricordavo (lo era) e poi chiusi la finestra, soddisfatta di sapere che il mondo stava ancora girando per il verso giusto.

Anche dopo che i miei interessi sono cambiati, i Linkin Park rimasero una parte della mia vita—e ogni tanto riemergevano in luoghi inaspettati. Quando ero all’università, in qualche momento tra la sua fase boy band e il suo flirt con il pop punk, mia sorella minore sviluppò un’ossessione per loro (aveva anche quella loro strana collaborazione con Jay-Z, Collision Course, e il primo album del progetto Fort Minor di Mike Shinoda). Le diedi le mie vecchie copie di Hybrid Theory e Meteora, visto che a me non servivano più e, nonostante l’abbia presa in giro senza pietà, speravo segretamente che avrebbero attaccato il morbo del metal anche a lei. Lei era molto più tranquilla di me da giovanissima, ma aveva i suoi demoni; sapevo che avrebbe avuto bisogno di una colonna sonora per la guerra che l’aspettava. Il mio piano non funzionò; non si appassionò mai al metal. Alla fine passò anche la fase Linkin Park, sostituendola con il punk e poi il pop mainstream in fasi successive, sulla strada verso la conoscenza di sé—ma loro sarebbero sempre stati lì per lei quando ne avesse avuto bisogno, proprio come lo erano per me e così tante altre persone. Ora non ci parliamo più. Vive nel deserto della California e fa la cameriera. Io vivo a Brooklyn e faccio questo. C’è una parte di me che si chiede come avrà reagito alla notizia. Un’altra parte di me si chiede se leggerà questo pezzo.

Dopo anni di lotta su e giù dal palco, i demoni di Bennington lo hanno sconfitto per l’ultima volta. È morto il 20 luglio 2017, a 41 anni, lasciandosi alle spalle una famiglia, amici e milioni di fan che gli devono di più di quanto possano spiegare a parole. Nel 2002, Bennington dichiarò a Rolling Stone: “È facile cadere nella trappola: ‘povero me, povero me’—lì nascono canzoni come ‘Crawling’: non mi sopporto. Ma quella canzone parla di prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Non dico mai ‘tu’ in quel testo. Parla del fatto che mi sento così per colpa mia. C’è qualcosa dentro di me che mi butta giù”.

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