L’unico gioco che abbia mai voluto finire più di una volta è il primo capitolo della saga horror sci-fi Dead Space. Con qualsiasi altro titolo mi sono sempre bastate poche ore di campagna per cominciare a pregare che la missione successiva fosse l’ultima. C’è però un’altra eccezione: il primo capitolo dello sparatutto fantascientifico online Destiny, con cui ho passato 691 ore della mia vita.
A differenza di molti altri videogiochi, Destiny ha una componente sociale fenomenale: tutte le attività end-game (ovvero le missioni più impegnative svolgibili alla fine del gioco) richiedono una squadra di almeno tre amici, fino ad arrivare a sei per le attività più difficili — e appaganti —, dette raid. Basta questa premessa a condannare chiunque a passare una quantità spropositata di ore a giocare — nella mia personale lista amici sono solo il 42esimo per ore giocate: i primi tre della classifica hanno passato nel gioco un totale di quasi 14.000 ore — ma non è l’unico motivo.
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Come fanno videogiochi simili a tenere le persone incollate agli schermi per così tanto tempo? Il meccanismo è quello dei ‘loot,’ ovvero bottini composti da oggetti di vario tipo — come armi, armature, potenziamenti ed elementi estetici — che il giocatore riceve terminata una data attività. Ogni oggetto ha un grado di rarità, dai più comuni ai più rari, fino a quelli leggendari.
Se i loot che trovi non ti piacciono — e succede praticamente sempre — la soluzione è una: ripetere la stessa attività sperando di avere più fortuna. Salvo eccezioni sporadiche i loot vengono generati casualmente dal gioco, sulla base di un random number generator (RNG) a cadenza random-set: il loot appare in determinate condizioni — quando uccidi un nemico di alto rango, o completi una missione o una partita multiplayer. Se non dipendesse nemmeno da questo, si parlerebbe di cadenza completely random.
Per quanto l’idea di ricompensare i propri giocatori in modo casuale — e non sulla base delle loro abilità — sembri controintuitiva, si tratta di una formula che nel tempo si è dimostrata vincente, diventando l’architettura fondante della maggior parte dei MMORPG e di tutti quei giochi che hanno la necessità di mantenere la propria community costantemente forte e attiva.
Il sistema in pratica fornisce uno stimolo potenzialmente gratificante, ma imprevedibile e, per questo, doppiamente seducente.
“I loot system sono fondamentalmente una slot machine inserita all’interno delle meccaniche di gioco.”
Jamie Madigan e Emil Hodzic, psicologi della Video Game Addiction Treatment Clinic, hanno paragonato i loot basati su RNG al gioco d’azzardo, “Sono fondamentalmente una slot machine inserita all’interno delle meccaniche di gioco,” ha spiegato Hodzic a IGN nel 2015. “Nella psicologia comportamentale è chiamato random ratio reinforcement.” In altre parole, un certo comportamento — come uccidere nemici o portare a termine un’impresa — viene incentivato grazie a ricompense costanti, ma il cui pregio varia in maniera casuale.
Stando ai due psicologi, il fatto che il videogiocatore non riceva sempre ciò che desidera non comporta un sentimento di repulsione, anzi. Poiché si crea un momento di tensione — seguito dalla speranza che al termine dell’attività otterrai qualcosa di speciale —, che è, paradossalmente, indispensabile per finire determinate missioni. “Il fatto che il proprio desiderio non venga appagato rafforza ulteriormente la tensione e le aspettative, spingendoti a nuovi tentativi,” concludeva Hodric. Insomma, le stesse meccaniche che portano un sacco di persone a spendere il proprio stipendio nelle slot machine.
Come spiegato in un articolo di Gamasutra firmato da John Hopson, già a capo del reparto ricerca di Bungie (casa sviluppatrice di Halo e Destiny) e ora ricercatore senior per Blizzard, esistono numerose tecniche per persuadere gli utenti a giocare per decine di ore, se non per sempre. La soddisfazione tra una delusione e l’altra è necessaria: il drop fortunato dopo decine di oggetti comuni alimenta tutto il sistema, nello stesso modo in cui una vincita da 10€ al gratta e vinci ti spinge a comprarne altri.
Il problema più grave si pone quando questi stratagemmi non vengono più usati per convincere un utente a passare tempo su un titolo, ma per fargli spendere più soldi possibili — come succede con il sistema dei loot chest, delle scatole piene di equipaggiamento.
Con il termine loot chest si intende tutto quel genere di microtransazioni in-game legate a una struttura RNG. Se in origine nei giochi free-to-play era la norma che alcuni oggetti virtuali fossero ottenibili quasi esclusivamente previo pagamento, ora il nuovo trend è quello di inserirli all’interno di pacchetti o casse. Un po’ come nelle bustine delle figurine Panini o delle carte di Magic: The Gathering, si paga per avere la possibilità di ottenere qualcosa, senza tuttavia avere alcuna certezza di cosa — sulla base di criteri completamente aleatori.
Sarebbe facile liquidare il tutto come un falso problema — uno in cui il videogiocatore è pur sempre libero di acquistare o meno a propria discrezione. Ma se le meccaniche di loot RNG in titoli come Destiny e Diablo ci portano a ripetere missioni su missioni per arrivare al fatidico drop, nei sistemi con loot chest l’azione che siamo incentivati a ripetere è pagare.
Si parla, quindi, di pay-to-loot: si spendono soldi per ricevere oggetti virtuali e ogni aspetto del gioco viene disegnato e progettato per incentivare all’acquisto delle chest. Di tanto in tanto è lo stesso gioco a garantirle — ad esempio, quando sali di livello in Overwatch.
Ma per riprovare la sensazione di piacere data dal trovare un elemento raro in una chest, siamo messi davanti ad un’alternativa piuttosto basilare: o si gioca per altre 4-5 ore al fine di avanzare di livello e ottenere una nuova loot box (senza certezze che il contenuto sia di nostro gradimento) o si possono spendere quei 9.90€ che in pochi secondi ci garantiscono ben 11 box, con buone possibilità di vedere appagate le nostre speranze. Non stupisce che con questo stratagemma Overwatch abbia portato nelle tasche di Blizzard circa un miliardo di dollari nel solo primo quadrimestre fiscale del 2017, buona parte dei quali grazie ai proventi delle loot box. E gli altri publisher non se la stanno certo passando peggio.
Sono in molti a chiedersi se non sia addirittura il caso di considerare le loot chest alla stregua del gioco d’azzardo: in Regno Unito una petizione a riguardo ha raggiunto quindicimila firme, spingendo il Parlamento a rispondere con un position paper dove si definisce il fenomeno come “di grande interesse” per la commissione di regolamentazione dell’azzardo, salvo vincolare a regolamentazione esclusivamente quei sistemi di gioco dove gli oggetti virtuali possano essere scambiati con denaro o altri oggetti fisici. La Svezia ha aperto un fascicolo di indagine per verificare se le loot box siano assimilabili al gioco d’azzardo, e le Hawaii hanno proposto di vietarle ai minori di 21 anni.
Ma la questione è ancora aperta. In Asia, dove il fenomeno del gaming ha un impatto estremamente più esteso che in Occidente, non sono pochi i casi di giovani giocatori portati a spendere vere e proprie fortune nei propri titoli preferiti, un fenomeno che ha spinto la Cina ad imporre ai publisher, per legge, di dichiarare ai videogiocatori le probabilità che hanno di ottenere ciascuno dei singoli oggetti presenti nelle loot box.
Ma dover arrivare a una forma di regolamentazione a tutela dei consumatori è una priorità estremamente sentita anche nelle stesse community. “Sono una forma di gioco d’azzardo, in alcuni titoli si possono acquistare addirittura skin così rare che possono valere centinaia di euro se non migliaia,” ci spiega Giorgio Calandrelli — streamer sotto lo pseudonimo di Pow3r ed ex pro-gamer dell’FPS Call of Duty — in un rapido scambio di messaggi su Twitter. “Esiste anche la possibilità di scommetterle in siti di terze parti come se fosse un vero e proprio casinò.”
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Per Calandrelli sarebbe opportuno adottare le stesse misure adottate dalla Cina, ma anche predisporre degli enti ad hoc ai quali i publisher siano tenuti a comunicare ogni valore e feature del gioco — criteri di matchmaking, struttura delle microtransazioni e via dicendo. L’obiettivo è dare ai gamer la consapevolezza più piena di quanto sia complicato o meno ottenere certi oggetti. È chiaro che alla questione etica si aggiunge anche la giocabilità dei titoli, altrettanto prioritaria per i videogiocatori a livello agonistico come lui. “Le ricompense tramite microtransazioni non sono da condannare, a patto che esista la possibilità di acquisirle anche giocando e non ci sia un vantaggio in-game,” ha detto Calandrelli. In altre parole, c’è modo e modo di integrare le loot box nell’economia di un gioco; “bisogna scongiurare l’eventualità che il tutto si trasformi in un pay-to-win… Il pay-to-win rovina l’esperienza di gioco.” A maggior ragione se parliamo di competizioni ufficiali con tanto di montepremi.
In assenza di regole ferree — emblematico il diniego della ESRB di considerare le loot box alla pari dell’azzardo, con rimbalzo di palla al Governo USA — è tutto nelle mani dei videogiocatori: la decisione di EA di rivedere le meccaniche pay-to-win di Battlefront 2 in seguito alle proteste dei fan fa ben sperare. In alternativa, questo passatempo è destinato a trasformarsi del tutto in una cinica macchina succhia soldi; rimangono comunque i videogiochi di casa Nintendo, unici titoli ad alto budget apparentemente immuni a questo trend del mercato. Chi sa per quanto ancora.