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Perché si parla tanto del #GamerGate?

Chiedete in giro che cosa sia il GamerGate, otterrete con tutta probabilità facce interrogative. Chiedete su twitter cosa sia il GamerGate e vi si aprirà la bocca dell’inferno sotto i piedi, con tanto di duelli epici.

Tutto inizia in agosto, con l’uscita dell’ultimo video della serie prodotta dalla blogger femminista Anita Sarkeesian Tropes vs Women, che analizza la rappresentazione delle donne nei videogiochi. La serie ha precedentemente suscitato clamore tra i gamer, ottenendo critiche moderate ma anche meno moderate. Contemporaneamente, esplode il presunto scandalo sessuale che avrebbe coinvolto una designer, Zoe Quinn―accusata di essere interessata a una recensione favorevole del gioco Depression Quest―e un giornalista di Kotaku. La recensione non è mai stata scritta e si è scoperto che dietro l’accusa si nascondevano un ex-fidanzato di Quinn e una vicenda di revenge porn.

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Le campagne di trolling e minacce si inaspriscono in entrambi i casi; gli attacchi sono, per la maggior parte, volti a screditare la legittimità delle due donne a lavorare nel settore: non sono vere gamer e il loro lavoro rappresenta una minaccia per l’integrità della comunità. A Settembre, entrambe sono costrette a lasciare le proprie abitazioni per motivi di sicurezza.

Zoe Quinn. Immagine: via

In questo contesto, Gamasutra pubblica un articolo sulla presunta morte dello stereotipo del gamer. Il succo è chiaro: i videogiochi non sono più una faccenda di nicchia, ma cultura popolare. I giocatori sono talmente diversificati demograficamente che il gamer come stereotipico adolescente da seminterrato è obsoleto: non rappresenta più l’unica categoria con cui confrontarsi per chi vuole fare videogiochi o anche solo parlarne.

L’articolo diventa virale. Viene forse preso un po’ troppo alla lettera dai cosiddetti core-gamer (che sembrano volersi tenere stretta un’identità da misogini secessionisti) e il #GamerGate esplode in tutta la sua furia. La danza è complessa: la bandiera dell’etica giornalistica suscita il coinvolgimento di moltissimi, che diventano anche i promotori degli intenti ufficiali del GamerGate. Viene creato l’hashtag #NotYourShield, che spopola tra le minoranze e che viene rivolto contro chi si occupa di diversificazione (critici e sviluppatori). Il caso di Quinn, nonostante le smentite, continua ad essere al centro della discussione e vengono attaccati particolarmente giornalisti, sviluppatori e accademici che hanno condannato gli abusi subiti da Quinn e Sarkeesian.

Il GamerGate invade in fretta social network e caselle di posta di studi, aziende e industrie del settore, cui viene chiesto di prendere posizione con una certa urgenza, pena la perdita del capitale economico che i gamer rappresentano. A inizio Ottobre, la Intel rimuove la propria pubblicità dal sito Gamasutra, con il chiaro intento di andare incontro ai suoi consumatori.

Screen dei tweet di minacce: “Hai sviluppato un gioco che non piace a nessuno. Questo è tutto. A nessuno interessa se muori.”

A metà Ottobre, poco dopo l’attacco ad un’altra designer, Brianna Wu, avviene un episodio di rara gravità: Anita Sarkeesian è costretta a cancellare un incontro all’Università dello Utah in seguito ad una mail che minaccia una strage studentesca nel caso in cui lei si presenti al campus.

L’episodio viene riportato dal New York Times che lo collega al generale clima misogino e anti-femminista subito da chi critica lo status quo dei videogiochi negli ultimi periodi. L’arrivo sul NYT segna una sorta di falso epilogo: le principali testate giornalistiche di settore pubblicano dichiarazioni a condanna del movimento (Eurogamer, Giantbomb, Gamespot) ma il GamerGate continua a trascinarsi e a dichiararsi incompreso nei suoi veri ideali e intenzioni.

È forse importante soffermarsi, per capire questi due mesi di caos, sull’identità del “gamer” e sul suo passaggio da stigma a rifugio prima della recente “dissoluzione”. Se infatti prima i giocatori di ruolo e di videogiochi erano inquadrati come freak sociali, adoratori di satana o semplicemente poveri sfigati, col passare dei decenni sono diventati una fetta della popolazione sempre più nutrita, sulla quale si è modellata un’industria da milioni di dollari.

E il fatto che in molti abbiano gridato all’oppressione e al complotto femminista quando Sarkeesian ha cominciato la sua serie è, oltre che paradossale, sintomo di un sentirsi parte di una categoria di outsider, individui marginalizzati, ribelli contro un sistema e devoti a proteggere quello che è loro―quando evidentemente sono proprio i gamer il sistema.

Come scrive Chu, il GamerGate rappresenta―nel suo nucleo, ma forse anche nella difficoltà delle fasce esterne nel distanziarsi efficacemente dalla parte aggressiva―una rabbia reazionaria di fronte a un cambiamento culturale.

il GamerGate ha fomentato i peggiori stereotipi su cosa sia un gamer

Questo momento storico sta certo vedendo una democratizzazione dei mezzi per chi vuole fare videogiochi (un po’ come è stato per la fotografia ed il cinema), ma il caso della Intel e il fatto che ci siano voluti ben due mesi (e la minaccia di una strage) perché la stampa mainstream se ne occupasse, la dicono lunga su chi detenga il potere nell’industria. Il potere è di chi compra i giochi, perché rappresenta degli interessi economici non da poco.

Una crociata contro giornalisti semi-indipendenti, sviluppatori indie che distribuiscono giochi gratuitamente e classe accademica cela un secondo sentimento di rancore verso chi promuove un progressismo culturale, soprattutto se di eco femminista (filosofia sociale particolarmente criticata nei forum di 4chan e reddit). In parole povere: il terrore di dover condividere il gioco preferito con qualcun altro.

Riassumendo, alla fine di questi due mesi il GamerGate ha causato una generale diffidenza verso la comunità, oltre che due mesi di inferno per numerosi critici, alcuni dei quali hanno deciso di cambiare lavoro. Alcuni, che si riconoscono nella categoria gamer ma non si sono lasciati trascinare dai forconi della folla infuriata, hanno reso noto il loro sdegno, come il giocatore americano Chris Kluwe e numerose icone geek. E, come finale sicuramente paradossale, il GamerGate ha fomentato i peggiori stereotipi su cosa sia un gamer.

In Italia, benché le vicende non si siano consumate nel Bel Paese, il #GamerGate si è fatto sentire. Quando il fenomeno è esploso alcune delle grosse testate di settore si sono attivate preferisco tenere toni moderati con articoli ed editoriali. Il risultato è riscontrabile in un pubblico italiano diviso perfettamente a metà. Da un parte i “pro-femministi”, dall’altra gli “anti-femministi”: è un binomio che sminuisce la faccenda e ci ricorda quanto in Italia, benché i numeri sembrino dire il contrario, la mancanza di una sovrastruttura culturale riguardante il mondo dei videogiochi sembra non permettere ancora l’esistenza di una consapevolezza del medium vero e proprio.

Si può pensare che sia inutile alimentare questa discussione e che il #GamerGate sia un semplice litigio le cui dimensioni sono riscalate sul web. La verità è che una vicenda tanto articolata aspetta ancora un chiarimento definitivo.