Música

Il pop sta abusando della dancehall

Immagine di Mikey Espinosa 

Se accendete la radio, è probabile che le vostre orecchie vengano inondate da suoni più o meno tutti di stampo simile, e la cosa va avanti oramai da parecchi mesi. Pensate alla melodia e alla struttura ritmica della megahit di Rihanna, “Work”, la cui produzione è profondamente radicata nella palette sonora della dancehall. Questo tipo di sonorità è caratterizzata dalla produzione prettamente elettronica, che non richiede alcuna strumentazione live, e da testi che ruotano intorno al sesso e alla street cred. Ad oggi molti dei grandi del pop, da Drake a Justin Bieber a Tyga, hanno dato il loro contributo a rendere la dancehall il suono del momento. Il problema è che il contesto culturale da cui derivano i suoni più utilizzati dal pop contemporaneo, di conseguenza, diventa sempre più difficile da delineare, e i suoi pionieri rischiano di essere dimenticati mentre la loro eredità culturale raggiunge livelli planetari. 

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Il reggae e la dancehall sono nati come forme di resistenza delle piccole comunità abbandonate in Giamaica. Il reggae nasce negli anni Cinquanta come una malgama di sonorità locali (mento e ska) e sonorità americane (Jazz e R&B). Ai tempi, l’espressione popolare di intrattenimento in Giamaica coincideva con reinterpretazioni live dei dischi americani, mentre la creazione del reggae diede ai giamaicani la possibilità di conformare il proprio suono distintivo, con testi che si rivolgevano direttamente ai rastafariani e raccontavano il desiderio di liberazione, pace e libertà del loro popolo. Qualche decennio più tardi nacque la dancehall, un genere che prendeva il nome dagli spazi in cui si montavano enormi soundsystem per fare enormi feste e rifletteva lo stile di vita delle comunità diseredate del Paese.

Nei primi anni Duemila la dancehall viveva un ottimo periodo, dato che alcuni artisti di spicco furono in grado di capitalizzare il genere e portarlo all’attenzione del pubblico. Sean Paul fu il responsabile della prima ondata di passione planetaria per quei suoni ardenti, sudati e martellanti: iniziò a farsi conoscere con il suo album del 2002, Dutty Rock, che diventò presto culto, anche grazie alla collaborazione del nostro Sean Paul con la regina Beyoncé nella hit del 2003 “Baby Boy“. Beenie Man, che aveva già una bella carriera avviata in Giamaica e all’attivo una fugace apparizione nel mainstream internazionale qualche anno prima, fu in grado di ravvivare la propria carriera negli Stati Uniti lanciando il suo singolone “King Of The Dancehall” nel 2004. 

Grazie a questa attenzione internazionale, per entrambi gli artisti si aprì un nuovo orizzonte mainstream, che seguiva solamente in parte il successo ottenuto nei primi anni Novanta, quando Beenie Man, Shabba Ranks e Super Cat avevano portato per la prima volta la dancehall fuori dai confini nazionali. Ai tempi, quegli artisti erano riusciti a ottenere una certa attenzione grazie alla loro miscela inesauribile di suoni: le collabo di Super Cat con Diddy, B.I.G., Kris Kross e altri erano i primi segni di un’influenza reggae nell’hip hop, il contributo di Shabba Ranks era unico e sensualissimo, come si può notare in “Mr. Loverman,” il singolo che l’ha portato alla ribalta. Nel frattempo la fama di Beenie Man si espandeva in UK e negli Stati Uniti grazie al pezzaccio “Who Am I?

Conoscendo la storia della dancehall, è abbastanza preoccupante che il suo “revival” culturale, di cui il mainstream sta raccogliendo i frutti, sia spesso ricollegato a musicisti bianchi e a operazioni più intellettuali che culturali, come quella di Palmistry. In un altro senso, questo era successo anche quando Joss Stone fu nominata “artista reggae dell’anno”, ironicamente dalla stessa pubblicazione che poco prima aveva stroncato il suo album. Considerando che ci sono ancora un bel po’ di problemi legati alla situazione socioeconomica dei giamaicani e alla loro lingua, l’appropriazione diventa ancora più contorta quando gli artisti incorporano una versione “light” di quel linguaggio nella loro musica. Viene immediatamente da pensare a quante volte le popolazioni creole o nere sviluppano un proprio linguaggio di riconoscimento e resistenza che viene puntualmente preso in prestito da artisti major e produzioni tutt’altro che rispettose delle origini di un certo sound, un po’ come è successo recentemente all’artista Universal Lucas DiPascale. Prendendo questo movimento culturale sottogamba e mettendolo in bocca ad artisti che non ne fanno parte, si rischia oltretutto di mandare nel dimenticatoio il lavoro di alcune importanti artiste giamaicane come Spice e Tifa che, con i loro testi e con il loro modo di interpretare la cultura dancehall, stanno ridefinendo il ruolo della donna e il rapporto con la sessualità. 

Il nostro interesse tutto rivolto al pezzo dancehall di Drake o al pezzo dancehall di Bieber, lascia paradossalmente in disparte artisti che fanno veramente della dancehall la loro ragione di vita, come Alkaline o Masicka, Vybz Kartel, Mavado o Aidonia, o altri emergenti di quella scena che avrebbero sicuramente più bisogno di visibilità rispetto a Drizzy. E questo non è semplicemente un furto culturale, è un furto di credito artistico nei confronti di musicisti che si vedono, quando va bene, confinati a una menzione nei credits. L’artista dancehall Mr. Vegas ha espresso il suo scontento in un recente episodio di Ebro in the Morning, seguito da un video che ha girato parecchio sui social in cui si capiva molto bene il motivo della sua frustrazione. Un sentimento che tanti artisti dei Caraibi condividono con lui, dal momento che percepiscono che il loro lavoro non venga preso in considerazione fino al momento in cui viene utilizzato da musicisti provenienti da altri Paesi.



Il caso più scottante di appropriazione di suoni e stilemi caraibici degli ultimi tempi è Views di Drake. Chiaramente, ci sono già dibattiti in atto sulle tracce in cui questa eredità culturale è più visibile, ovvero “Controlla”, “One Dance” e “Too Good”, in cui si utilizza il creolo giamaicano. Dato che però Drake è vicino alla cultura giamaicana, essendoci una grossa fetta di migranti provenienti da quell’isola insediatasi a Toronto, si tende a interpretare questo prestito come un omaggio alla presenza diasporica di queste comunità in Canada. Lo stesso, la storia ci insegna che il contributo della cultura giamaicana a progetti che ne trascendono i confini viene spesso malinterpretato, quando non viene rimosso del tutto o utilizzato esplicitamente per ottenerne un profitto. Questo ha portato molti a pensare che anche Drake fosse colpevole di aver sfruttato a proprio favore la cultura giamaicana, giustificandosi solo parzialmente con le sue origini. Ma dato che le origini in questione sono afro-americane e per niente giamaicane, viene da pensare che il modo scelto da Drake per “mostrare la sua ammirazione” nei confronti della cultura dancehall fosse piuttosto un altro dei modi che i grossi artisti hanno per mettere le briglie a istanze culturali minori e sfruttarne il potenziale per ragioni di profitto. 

Questo, come sempre, non significa che sia vietato a un artista prendere in prestito elementi di una cultura tutta diversa dalla sua quando sta creando nuova musica. La differenza sta forse nello iato tra le istanze culturali d’origine e quelle (non) culturali in cui le si trasforma, oltre che nell’attenzione che si conferisce alla provenienza e al senso originario del materiale da cui si prende in prestito qualche brandello qua e là. Oltretutto di solito il discorso del prestito “sano” si può reggere quando gli artisti coinvolti cercano di produrre cose veramente nuove a partire dagli elementi presi in prestito, non ha molto senso quando si prende in prestito un intero genere e lo si svuota completamente di contenuto. Per dirla in parole semplici: le collaborazioni cross-genre sono un modo sano per condividere una visione artistica e trasformarla in qualcosa di diverso. In questo modo, gli artisti meno conosciuti possono mettere il proprio talento e il proprio background culturale al servizio di un lavoro alla pari. Invece quello che succede è che gli artisti emergenti in Giamaica devono scontrarsi non solo con gli artisti più affermati del loro Paese, ma con artisti affermati a livello internazionale che ora fanno le stesse identiche cose che fanno loro, e le fanno con risorse molto più avanzate e onerose e oltretutto senza avere la più pallida idea dell’origine del suono con cui stanno spaccando. 

Così succede che producer provenienti da tutt’altra cultura vengano considerati pionieri di un genere, o eredi di un portato culturale che non gli appartiene affatto, mentre i veri eredi di quella cultura non ottengono alcun riconoscimento e sono destinati al dimenticatoio. 

Potremmo concludere dicendo che sarebbe giusto dare il rispetto e l’attenzione che merita alla storia della dancehall, anziché pensare che sia “il nuovo genere” creato da geniali DJ occidentali. Non ci stupisce che, vedendosi ancora una volta vittime di appropriazione culturale totalmente fuori controllo (come già successo in precedenza col reggae dei bianchi), i giamaicani siano sulla difensiva, dal momento che la cultura in continuo fermento del loro Paese continua a produrre sonorità che diventano di culto in tutto il mondo, ma il riconoscimento che i suoi veri creatori ne ottengono è sempre pari a zero, o quasi. Insomma, è sempre un po’ triste vedere la propria cultura ridotta a un trend musicale. 

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