Il mio primo incontro con Matteo Nasini avvenne tra le pagine web di questa testata. Era il 2012, e nel guardare questo Vice Art Talk mi ricordo di aver avuto una sensazione molto specifica: il CentoCordo—uno strumento a corde eolico suonato dai venti provenienti da Est e da Ovest che si infrangono nel porto di Bari costruito da Matteo l’anno prima—era diventato al primo sguardo una delle mie opere d’arte preferite.
Due anni e mezzo fa, peregrinando per Milano tra varie feste di capodanno, mi ritrovai nello studio di alcuni amici a discutere di suoni con un ragazzo dal forte accento romano per qualche ora, finché sostanzialmente fu chiaro a tutti che non essendoci più né persone nè alcolici, la festa era finita. Solo il giorno seguente mi resi conto che la persona in questione era proprio Matteo, e che la mia scarsissima capacità di ricognizione fisiognomica aveva colpito di nuovo. Sono seguiti un coming-out da fan un po’ imbarazzante e un bel flusso di scambi di link, suoni e idee.
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Matteo ha una formazione musicale classica ed è stato violoncellista per molti anni, del suo passaggio dalla musica all’arte parla come di un flusso, più che un cambiamento: come spesso accade sono più gli altri ad avere bisogno di etichettare le produzioni altrui che gli artisti stessi. Matteo ha presentato al pubblico a Milano in corrispondenza della settimana di MiArt, il suo ultimo lavoro con una mostra su due location: Marselleria e Clima. Il progetto si chiama Sparkling Matter, e questa è stata la prima delle possibili forme mutevoli che può assumere. Il main core è un esperimento sonoro che unisce l’ascolto collettivo allo studio neuroscientifico del sonno. Il tutto viene performato dal vivo, e quello che si genera diventa l’apparato della mostra sotto forma di sculture di ceramica, registrazioni, coperte, lenzuoli, materassi e pavimenti rivestiti di pvc stampato.
Disegnino schematico che spiega la genesi del suono e delle sculture, realizzato da me e approvato da Matteo: “figo, ma nel secondo ci devi mettere anche la stampante 3d”.
Come vedete poi ci ho messo anche la stampante 3d.
C’è una persona che dorme con questo in testa. L’Epoc é collegato a un computer e ogni elettrodo manda al computer un segnale, un’onda cerebrale, che sommata alle altre crea il panorama dell’attività cerebrale in quel momento: in questo modo Matteo può capire in quale fase del sonno si trova il soggetto dormiente. Le onde cerebrali sintetizzate per parametri, passano a un programma che le trasforma in segnali midi, che poi vengono inviati a un sequencer che le suona e le distribuisce in uscita su quattro speaker più un subwoofer che le diffondono nell’ambiente. Le stesse onde derivanti dell’attività cerebrale notturna di un dormiente sono state usate come pattern per modellare in 3D una serie di sculture-vaso di ceramica.
Foto di Sara Scanderebech
Ho incontrato Matteo qualche giorno dopo la prima performance nello spazio di Marselleria e abbiamo discusso insieme di alcuni aspetti legati all’ascolto di una tipologia di concerto così anomala e specifica e dei risultati del primo esperimento sonoro del suo progetto.
Noisey: Parliamo subito della diffusione del suono: come hai gestito la spazializzazione? Potevi fare un surround, non lo hai fatto ma hai accoppiato le uscite in quattro casse giusto?
Matteo Nasini: Sì, ho diviso in due parti gli output degli elettrodi dell’Epoc, che in totale sono sedici, otto per emisfero, e li ho fatti convergere quattro per ogni speaker più le basse. Questo perché l’attività elettrochimica del cervello effettua continuamente dei movimenti di scambio, le sinapsi e le distanze su cui si muovono gli impulsi sono delle diagonali e di conseguenza con una quadrifonia si riesce abbastanza a restituire questo movimento nello spazio attraverso il suono. Però ecco, farlo diventare un surround vero e proprio sarebbe interessante, in questa sede mi sono reso conto che era giusto procedere per gradi, è stato anche giusto così. Ho lavorato tantissimo sulla qualità e la modulazione dei suoni, su come dovevano uscire…si deve davvero sentire bene.
La relazione con il suono nel tuo lavoro è sempre molto importante, anche quando usi i tessuti o altra materia, è sempre un po’ come se stessi ragionando su dei suoni. Questo progetto come si è inserito nel tuo flusso di scambio tra suono e materia?
Questo è un progetto a cui stavo lavorando da un po’ di tempo, dal 2014, e che è davvero sempre stato nella mia testa come solo un lavoro con il suono. Avevo voglia di fare una cosa del genere, più a lungo termine. Alla fine come capita spesso, si entra in un circuito di piccole produzioni e non si ha più il tempo materiale di prendere le distanze e fermarsi a pensare per un tempo più prolungato. È una cosa dovuta anche a fattori economici, mi rendo conto. In questo caso siamo riusciti a far lavorare insieme due realtà diverse, cioè Marselleria e Clima e abbiamo prodotto insieme questa unica mostra su due ambienti. Senza questa collaborazione la messa in pratica del progetto non credo sarebbe stata possibile.
Infatti quando penso alle relazioni tra il “mondo dell’arte” e il “mondo della musica”, penso abbiano dei punti di congiunzione ma delle regole interne spesso differenti. In questo caso i tempi che sei riuscito a sfruttare sono i “tempi della musica”. Mi spiego meglio: nessuno rompe i coglioni se una band non fa uscire un album all’anno, mentre invece quando fai l’artista, sembra che se non produci di continuo tu non stia lavorando.
Esatto, infatti è stato un processo lungo in cui mi sono interessato di una cosa che volevo approfondire, anche nello studio, da molto tempo. In termini tecnici e tecnologici gli step successivi di questo progetto probabilmente saranno più semplici, perché ora ci sono un metodo e delle competenze che sono state acquisite.
Vedendo alcune caratteristiche dei tuoi ultimi lavori, non posso che notare una certa primordialità analogica: in questo caso invece ti sei spinto molto in là con la tecnologia, anche se l’utilizzo della ceramica nelle sculture ha una sua specificità “primitiva” in termini materici.
Sì, abbiamo lavorato con una stampante 3D per ceramica, una tecnica super nuova. Sostanzialmente abbiamo fatto la prototipazione della stampante: la ditta ce l’ha lasciata per fare delle prove, finché non siamo arrivati molto vicini a quello che volevamo produrre. Nella stampa 3D in genere si utilizza l’ABS: una schifezza, è proprio una plasticaccia, per l’ABS non avrei mai investito tutte queste energie. La ceramica invece è Terra, ti metti lì, impasti una cosa che potenzialmente è ovunque, e crei degli oggetti. Poi tutto questo è entrato in una dimensione digitale spinta: abbiamo applicato i pattern astratti generati dal movimento delle onde cerebrali a un solido pre-esistente e modellato sia fuori che all’interno delle sculture-vaso. Tutto il versante sonoro poi, è digitalissimo: volutamente e fortemente elettronico. Il dato tecnologico nel processo è molto importante, perché è quello che muta il parametro di partenza e lo fa diventare un oggetto ibrido che parla dell’attività umana che si intreccia con la tecnologia. La sua identità viene cambiata, il dato tecnologico in modo un po’ post-umanista lo trasforma, anche se rimane specifico.
Foto di Marco Davolio
Ma rimane comunque un mezzo, giusto? Non è il centro del lavoro.
No, è tutto sbilanciato su un piano evocativo, il mio lavoro è stato proprio il ragionamento di che tipo di suono doveva essere, e sicuramente è un suono elettronico. Relazionandoci con il sonno, con i sogni, cercando di capire cosa sono, andiamo a toccare qualcosa di ancora abbastanza sconosciuto. Michele (artista e scrittore, amico di Matteo, che si è prestato come dormiente per il primo live, ndr) ne parla nel testo, (scritto per la fanzine che accompagna la mostra) sono mondi paralleli. E se il sonno ci porta in un mondo diverso, il suono dovrebbe evocare quel luogo, quel passaggio all’altro. Quei luoghi che potevano ricordarti qualcosa e poi non lo erano, altri di pura trasformazione, di rumore bianco, alternati tra di loro. È ancora un discorso aperto, ci sto ragionando ogni giorno, sono sempre lì a provare e riprovare cosa dovrebbe suscitare un tipo di onda piuttosto che un altro.
Nonostante sia una cosa molto studiata, non sappiamo davvero cosa sia, il sogno. C’è una parte, da qualche parte, che è sempre cosciente, anche quando il corpo è in coma: viene chiamato “osservatore nascosto”. Quando si parla di sonno e di sogni si dice quindi che si è incoscienti nello spazio circostante, perchè da qualche altra parte invece si è coscienti, c’è una grande componente spaziale: i sogni sono un modo che il corpo utilizza per comprendere quello che ha intorno, per andare avanti a conoscere lo spazio e, in modo molto primordiale, per difendersi.
Non mi hai mai detto bene il perché hai deciso di iniziare a lavorare sul sonno e sui sogni, è un paio d’anni che mi dici che stai lavorando a questo progetto, ma non ti ho mai sentito veramente dire il perché lo stai facendo.
Premesso che dormo di merda, sto sempre sveglio la notte… Allora mi sono detto: perché non iniziare a farci qualcosa? Mi interessa anche il dato aleatorio della composizione, ma soprattutto mi interessano le possibilità della zona grigia in cui ci muoviamo, è un ritratto acustico della zona misteriosa del sognatore, il quale ha il ricordo visivo di ciò che ha sognato a volte, oppure no. In questo caso c’è una seconda versione di quello che tu ricordi dei tuoi sogni: c’è un’impronta sonora. Volevo creare un suono relazionato a un “oggetto” molto specifico anche attraverso l’intreccio con la tecnologia.
L’altra grande questione in gioco invece è l’ascolto. Tutta la situazione ovviamente non è casuale, ma non è musica di solo intrattenimento, qui volevo rompere un po’ quella dinamica e creare un ambiente in cui semplicemente ti inserisci e stai con il suono.
Ecco, volevo proprio parlare con te dell’aspetto sociale dell’ascolto di una cosa che dura una intera notte.
Standoci molte ore a un certo punto fai un po’ quello che ti pare: dormi, fumi, scrivi, ti copri, abbracci qualcuno, fai tutto questo con il suono che se da un lato non ti intrattiene, d’altro canto non richiede nemmeno un ascolto iperattentivo come quello della musica classica, diventa una strana via di mezzo. Questo lavoro esce del tutto fuori da qualsiasi dinamica musicale commerciale creando una serie di problematiche specificamente nella fruizione, sollevando interrogativi… per esempio dove la vai a mettere una composizione del genere, di sette ore? Che tipo di oggetto, o spazio, può riceverla? L’assetto è fortemente voluto.
Foto di Marco Davolio
Per me è stato molto difficile addormentarmi perché c’era una ricercatezza timbrica dei suoni molto bella, da seguire in tantissimi momenti. Era un racconto prolungato, il modo in cui si muovevano e sviluppavano i suoni era davvero molto narrativo.
È impegnativo anche se ti addormenti. Il giorno dopo senti che hai ascoltato qualcosa per sette ore, sei affaticato, oltre per il sonno mancato, per lo sforzo percettivo, anche se in fin dei conti quando la musica finisce poi ti manca. All’inizio della performance è stato strano, c’erano molte persone e un sacco di casino. Evidentemente quello era il massimo dell’ascolto che potevano dare, forse in quel momento sarebbero riusciti ad recepire di più una cosa molto intensa e concentrata nel tempo, invece lì tanti sono venuti a fare un po’ di contatti, a raccontarsi le mostre che avevano visto durante MiArt, e non c’era niente di abbastanza intenso per portarli da un’altra parte. Ma poi se ne sono andati e sono rimasti solo quelli interessati. Mi va bene anche così.
L’ho pensato anche io all’inizio. Forse c’era un volume di conversazione un po’ sguaiato. C’è una componente di zona grigia e imprevedibile anche in chi fruisce.
Esatto. La dimensione collettiva poi è davvero molto importante, può essere un po’ arrogante da dire, e a tratti è un po’ rischioso, ma mi piace troppo mettere le persone in una condizione d’ascolto aperta, in cui possono decidere cosa fare. Diventa un tempo allungato in cui il suono interviene nella tua vita. Un aspetto che ha a che fare con l’origine del suono…Il suono è uno strumento per cambiare stato, in primis cambia lo stato fisico, e poi in forma rituale, lo stato di coscienza. Questo potere—in effetti il suono ne ha molti, tutti da paura—è molto interessante.
Se ti addormenti con il suono i tuoi sogni cambiano…per esempio la musica medioevale perché è bellissima? Ti parla di una bellezza che esiste ma che non potrai mai toccare. Non è come la musica romantica, è una musica timorata. Una versione contemporanea di quella ricerca mi pare ci sia nella fisica quantistica, nelle teorie sulle dimensioni coesistenti.
In qualche modo tentavi di suonare la parte sublime che emerge da vari elementi sconosciuti.
Eh, ci provo… [segue una digressione che non vi riporto in cui Matteo mi racconta la sua esperienza di ascolto delle lodi cantate secondo l’antico rituale gregoriano da frati incappucciati vestiti di nero in un posto sperduto] Quel tipo di musica è uno strumento con cui la tua testa cambia, è una suggestione potente, che avviene attraverso elementi in qualche modo molto semplici: a volte è solo la voce e una combinazione di suoni. Non ci sono grandi impianti, o strutture, solo lo strumento più primitivo che fa riverberare la sua onda nello spazio.
Avevo mille perplessità sull’ipertecnologizzazione del progetto, ma c’è una bella coerenza di percorso con la tua pratica: è compositivo, c’è tutta la questione primordiale legata a filo doppio sia alla tua ricerca sul suono che a quella sulla materia, e anche l’allestimento è legato al “primitivo”: la tecnologia c’è, in abbondanza, ma sta in un angolo fuori dalla portata dello sguardo, non è centrale né spiattellata, l’aspetto tecnologico non lo racconti, si intuisce e basta.
Se fossimo stati negli anni ‘70 o ‘80 magari l’avremmo fatto. Il computer è uno strumento che usiamo tutti i giorni, non c’è bisogno di celebrarlo, è un oggetto completamente quotidiano. Poi la traduzione delle onde—anche cerebrali—in suono, non l’ho inventata io, e nemmeno la stampa 3D. Negli anni ‘70 ti avrei fatto vedere esattamente quello che stavi sentendo. Questo invece è un lavoro sulla trasformazione della materia sonora. È nella ricerca sonora che sta il mio intervento artistico, nella percezione d’ascolto, nel mettere in scena il tutto, nel lavorare alla materia instabile del pensiero che cambia. La traduzione letterale di un fenomeno—per quanto pieno di zone grigie—non mi interessa per niente.
Infatti, a questo proposito… vogliamo parlare dei suoni pazzi che hai piazzato sul finale del concerto?!
Sono stato dubbioso fino all’ultimo. Ma poi ho deciso di lanciarli. Era un set di campioni anche quello come gli altri, solo che non erano elettronici ma li ho fatti io con la mia voce registrata. Eravamo tutti in una fase di sopore, Michele si stava lentamente risvegliando, venivamo da 400 min. di suono puramente elettronico, era l’alba, e alla fine di questo viaggio in cui tante cose sono andate e tornate e all’alba ritorna il primo strumento, il suono umano, l’elemento primario. Erano dei sussurri, anche se sono un po’ un tradimento della linea sonora che avevo tenuto fino a quel momento, totalmente elettronica, chissenefrega, non siamo più negli anni ‘70.
E cosa mi dici della scelta della dimensione notturna? La notte ha anche un suo panorama sonoro preciso, che, insieme ai tuoi campioni, è mutato al sorgere del sole.
Volevo cercare un momento in cui fosse più facile per il pubblico cadere in uno stato ipnagogica, quello in cui c’è il rilascio. Ti metti giù, e poi forse inizi anche a dormire. Si chiama fase Theta, quella in cui le tue onde cerebrali fanno un movimento specifico: scende tutto. È la fase in cui ci vengono le idee. Quando ti sdrai tutta una parte che era impegnata anche solo banalmente a livello muscolare, è improvvisamente libera da doveri gestionali, quindi può dedicarsi ad altro. Le onde Theta non sono più sormontate dallo stato della veglia. Ti puoi astrarre, ti puoi perdere.
È anche un bel modo di usare la stanchezza, hai cercato un momento in cui ci fosse un ascolto che cercava il riposo. Una fruizione decelerata.
Sì infatti, questo era il mio modus ideale, ho cercato di creare una situazione in cui ci si potesse anche riposare. Poi sono arrivate mille persone, quindi ovviamente era tutto un po’ meno intimo. Ognuno se l’è vissuta come si sentiva in quel momento e probabilmente il contesto non era del tutto come lo avrei voluto. È stato interessante anche quello però, lo spazio performativo diventa anche generativo e questo mi interessa. Solo, il suono non poteva essere quello del set che avevo preparato per le fasi seguenti all’addormentamento perché Michele non riusciva a entrare nel sonno profondo quando c’era troppo casino.
Parlando degli altri elementi presenti nello spazio… come hai lavorato alle stampe, alle lenzuola e alle coperte? C’è stato un momento in cui eravamo quasi tutti addormentati, mi sono guardata intorno e ho pensato che tu fossi molto contento: eravamo diventati anche noi le tue sculture, tutti avviluppati nelle tue coperte.
Ho voluto formalizzare in oggetti utilizzabili una serie di immagini che creano una dimensione estetica attinente. Mi è dispiaciuto non poterle cucire a mano, tipo corredino, ma non era fattibile in termini di tempo. I pattern stampati sulle lenzuola e sulle coperte sono tutti un po’ differenti ma in qualche modo complementari, mi è piaciuto un sacco vedere anche le persone avvicinarsi e comporre disegni e nuovi pattern in base a come si accoccolavano i corpi avvolti a bozzolo tra di loro.
Su cosa stai lavorando ora? Quali sono i prossimi step?
Innanzitutto, collegata nello specifico a questo progetto, c’è l’idea di costruire una scheda audio che dilati il flusso delle onde in entrata, facendole uscire completamente streacchate. In quel modo la composizione può andare avanti per molto più tempo, e avvenire solo in parte già dal vivo. Cambia completamente l’ascolto dell’ “osservatore nascosto” nel dormiente, che sente non più una cosa che si muove di continuo, che riporta i movimenti della mente in tempo reale uno a uno, ma una scansione ritmica del tutto diversa. Poi sto andando avanti sulle sculture, vorrei andare in una direzione di forme completamente astratte. C’è ancora una grande differenza tra le forme che il software sviluppa e quelle che poi tecnicamente si riescono a fare in ceramica nella stampa 3D. Vorrei anche lavorare in futuro con più persone addormentate, con più di un Epoc. Diventerebbe ancora più un processo di produzione relazionale, in cui metà della produzione è generata dall’ascolto, in quel caso dei dormienti stessi. Vorrei anche fare un’altra performance in questo contesto, mi piacerebbe lavorare con dei bambini, dopo gli undici anni c’è un dimezzamento delle onde Delta, l’attività cerebrale cambia radicalmente.
Ognuno di noi poi ha un modo di dormire talmente diverso che suona completamente differente. È difficile tracciare i punti comuni, tutto cambia costantemente, però ecco, non è una cosa risolta per me, è tutto in ricerca quindi non mi interessa particolarmente rifare la stessa cosa due volte, voglio andare avanti a sperimentare.
Nei prossimi giorni, seguendo i canali social di Marselleria e Clima scopriremo se Matteo farà un’altra performance prima della chiusura delle mostre. Per ascoltare i suoni del concerto di sette ore realizzato con i sogni di Michele potete invece andare a visitare le due mostre fino al 6 maggio in Marselleria e fino al 12 maggio da Clima e godervi la diffusione sonora.
Qui sotto un piccolo assaggio.