Mio padre è un assassino

Nota: la storia qui riportata è realmente accaduta, ma nomi e dettagli sono stati esclusi per proteggere la privacy dell’autrice.

Avete presente le storie di cronaca nera, gli omicidi efferati che ogni giorno vengono raccontati e che tanto affascinano e inquietano il pubblico italiano? Io dentro a una storia di cronaca nera ci sono cresciuta.

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Quando avevo 13 anni mio padre è stato arrestato per omicidio e occultamento di cadavere, e io voglio raccontarvi una storia dal punto di vista di chi assomiglia, nel volto, all’uomo che è stato dipinto come un “mostro”.

Cosa vuol dire essere la figlia di un killer? Le persone attorno a me a volte mi compatiscono e a volte mi giudicano. Ho perso tanti “amici” e tante persone care, e quando parlo di ciò che mi è successo mi sembra di scollegarmi dalla vita attuale e di riviverne una diversa, lontana, un vecchio sogno. Ma partiamo dall’inizio.

Ho avuto un’infanzia felice: i giocattoli più belli, Natali da cartolina, vacanze in posti esotici o in parchi divertimento. La mia vita quotidiana proseguiva tra le noiose lezioni a scuola e la gioia di tornare a casa accolta dal profumo dei pranzetti che mia mamma preparava per me e mia sorella, la mia migliore amica allora e oggi. Mio papà era un noto imprenditore, ma appena aveva un po’ di tempo libero diventava il protagonista dei miei giochi e delle storie che mi inventavo, destreggiandosi tra castelli e regni immaginari spesso investito del compito di proteggermi.

Chi uccide, pensavo, è una persona cattiva, violenta e talvolta irascibile, ma mio padre per come lo conoscevo io non rifletteva affatto questi aggettivi. Con noi non ha mai alzato la voce, non è mai stato duro né ci ha mai rimproverato—anche quando forse avrebbe dovuto farlo.

Quando avevo 12 anni e mi preparavo a entrare in un’adolescenza riottosa, anche lui cominciò a cambiare: per quasi un anno prima del fatto, era sempre più distaccato e serioso, la battuta pronta che lo contraddistingueva sostituita dal silenzio. Una volta mi prese in giro perché mi ero messa a piangere davanti alla notizia di un animale maltrattato al TG. Ricordo la rabbia e lo sgomento che provai.

Il suo profondo cambiamento, scoprii in seguito, era dettato da un segreto: un cospicuo debito di cui mai ho conosciuto l’ammontare e che si era procurato per farci mantenere il tenore di vita a cui eravamo abituati. Penso sia stato l’orgoglio a spingerlo a tanto. Quando porti con te un grande segreto finisci per logorarti e distaccarti dal mondo—anni dopo mi disse che per la disperazione tentò anche il suicidio, ma un pensiero a noi rivolto lo fermò in tempo.

Il giorno in cui la vita come la conoscevo finì e molto altro cominciò fu un lunedì qualunque, cominciato con le mie lamentele perché non volevo andare a scuola—me lo ricordo come fosse oggi. Nel pomeriggio, io, mia sorella e mio nonno passammo a recuperare le chiavi di casa nel negozio di mio padre, diretti in gelateria. Il volto di mio padre quando comparve sulla porta si impresse nella mia memoria come una fotografia: era rosso e cupo, con le pupille dilatate e lo sguardo truce. Urlava, “Avevi ragione!” rivolto a mio nonno. Ricordo il mio spavento nel vedere quella persona che non riconoscevo più.

Circa un quarto d’ora prima del nostro arrivo, mio papà aveva ucciso un uomo. Quella notte, mio nonno l’avrebbe aiutato a occultare il corpo.

La vittima era entrata nelle nostre vite molto tempo prima, a mia insaputa, ed era il motivo delle paure e del cambiamento di mio padre, che gli doveva molto denaro. Quello stesso pomeriggio l’uomo lo aveva minacciato di farci sparire se non lo avesse riavuto.

Sono sicura che nel gesto di mio padre entrarono in gioco follia e irrazionalità: non so se è sempre così per gli omicidi, ma è così che me lo sono spiegata. Fu un vero e proprio “teatro degli orrori”, una carneficina riportata in tutti i suoi dettagli più macabri, in seguito, dai giornali.

Venni a sapere dell’arresto, avvenuto il giorno dopo il delitto, solo il giovedì: nei giorni precedenti c’era stato un susseguirsi di scuse e bugie a cui non credetti mai. Era come se in cuor mio sapessi cosa stava succedendo, e non ne rimasi sorpresa.

Tra le macerie di una vita distrutta e un futuro da riprogrammare, io, mia mamma e mia sorella ci trasferimmo a chilometri di distanza. Stavamo scappando dai giornalisti e dai curiosi che ci perseguitavano sino all’esasperazione; stavamo tentando di cancellare i pensieri più tristi e venire a patti coi dubbi che ci perseguitavano e sui quali brancolavamo nel buio: cosa lo aveva spinto a tanto? Perché non si era confidato prima con noi? Perché aveva accettato quei soldi? Sono tutte domande alle quali ho tentato di rispondere senza mai chiedere, forse per proteggermi dalla reazione che le risposte avrebbero potuto scatenare in me.

Cosa si prova? È una domanda che mi viene rivolta spesso quando parlo di questa storia. A volte tanta rabbia, a volte malinconia, a volte piango. Ma più frequentemente, soprattutto col passare del tempo, il pensiero ha cominciato a suscitarmi solo indifferenza: ci si abitua, la verità è questa. Forse per proteggermi, ho “sdoppiato” nella mia mente la figura di mio padre in due persone completamente diverse: l’una, alimentata dai ricordi, amorevole, l’altra estranea—non la conosco e non la voglio conoscere, ed è quest’ultima che ha commesso il fatto.

Ho anche imparato a raccontare la vicenda come se fosse una normale considerazione sul tempo: forse per questo, quando lo faccio, le persone attorno a me si stupiscono, alcune chiedono e altre stanno in silenzio, ma nessuno mostra mai pena o compassione.

Da otto anni per me il carcere è una routine mensile: arrivo in portineria, consegno i documenti, mi danno le chiavi dell’armadietto per riporre i miei effetti personali. Prima perquisizione, poi la seconda circondata da persone accomunate a te solo da un dolore che non sanno gestire. Camminiamo in gruppo tra i numerosi cancelli, a volte in silenzio, a volte si chiacchiera; ma nessuno parla con qualcuno di esterno al proprio nucleo familiare, le linee sono ben definite e invalicabili.

Nel migliore dei casi, dunque, mio padre fa parte della mia vita una volta al mese, e quella volta al mese spesso non so cosa dirgli. Non che non abbia cose da raccontargli—ho 20 anni, tanti amici, tanti sogni da realizzare—ma è così lontano dal mio mondo che spesso nelle nostre conversazioni emergono o i ricordi, o i silenzi. Amo ancora mio papà e amo quello che faceva per me quando c’era, ma il mio amore è nuovo, diverso, doveroso e malinconico. Lui non può esserci, per me: non posso chiamarlo per raccontargli se mi è successo qualcosa o per chiedergli aiuto o perché mi manca e sono triste. Ed è come se amarlo solo per il nostro passato insieme non mi bastasse più.

Sabato scorso—dopo anni di incontri tra quattro mura fredde e malamente dipinte per camuffarne il grigiore, in una sala in cui risuona il vociare di lingue diverse, con un odore acre e inferriate—è cominciato un nuovo capitolo: ha ottenuto i primi permessi per stare all’aria aperta, e d’ora in avanti potrò passare con lui anche intere giornate.

Tra le varie emozioni che la “libertà” può suscitare, però, mi ritrovo ad avere paura di non riuscire a reintegrarlo nella mia vita come vorrei: con molta fatica ho cucito la ferita che lo riguarda, e mi sono creata un equilibrio che non lo comprende—riaprire questa ferita per fargli spazio mi spaventa. Ma dall’altra parte desidero gli abbracci e il rapporto che spesso vedo tra padri e figlie intorno a me. Spero di ricostruire qualcosa che ho perso da molto tempo.

C’è anche qualcosa che ho “guadagnato”, se vogliamo guardare al lato positivo, da questa esperienza. Sono i rapporti sempre più intensi che costruisci in situazioni simili con le persone che ti amano, che impari ad apprezzare nonostante i difetti. Ho anche imparato a non tenermi mai un problema solo per me, perché so bene che rischia di diventare insormontabile nella mia testa. Soprattutto, sono diventata grande, mi sembra, prima degli altri. La gente mi chiede se quello che è successo mi ha cambiato—certo, profondamente e radicalmente, ma volete la verità? Alla fine non serve un grande carattere per superare le vicissitudini della vita, si va avanti per il semplice fatto che si deve andare avanti e si deve badare a se stessi. Meglio se ci si vuole anche un po’ bene.

Mio padre, oggi, sta cercando di riscattarsi: di recente ha ricominciato a lavorare, ha pubblicato un libro sulla vita dietro le sbarre con cui ha vinto un concorso di scrittura. Durante la premiazione, come ogni personaggio “famoso” che si rispetti, ha commosso il pubblico di compagni di carcere dicendo una cosa che voglio condividere con voi: “Mi auguro e vi auguro di trovare sempre persone che vi dicano tu sei meglio del male che hai fatto.”

Forse sarebbe stato meglio, per lui, per me, per la persona che ha ucciso e per tutti gli altri, se la fama l’avesse avuta per come scrive e non per come uccide.