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Che cosa intendiamo quando parliamo di contenuti nel rap

Quando ero ragazzino, prima che Internet fosse ovunque, ho consumato il DVD di Fight Club. Ma ho un problema con l’effetto che questa e altre opere (V per Vendetta, 1984) hanno avuto su una considerevole maggioranza del pubblico. Non si tratta solo del proverbiale “fare riflettere”: c’è tutta una categoria di persone che dopo aver visto questi film o letto questi libri si considera illuminata, dotata di lenti speciali che la fanno spiccare sul resto dei pecoroni. Basterebbe guardare i dati di vendita dei prodotti in analisi per capire quanto davvero strano possa essere che dei veri e propri blockbuster abbiano deciso di comunicare un messaggio a solo pochi eletti, ma, ehi, questo è Noisey, non un vertical sul cinema, per cui veniamo al punto.

Da quando il rap è diventato mainstream, l’insieme di questi sedicenti grandi esperti e quello degli ascoltatori del genere rap si è intersecato sempre di più, creando una fetta di pubblico hip hop che non chiede altro che di sentirsi dire quanto la società ci stia controllando e le grandi multinazionali governino il mondo. Come reazione uguale e contraria, sono nati fenomeni come Sfera Ebbasta, Dark Polo Gang, Drefgold: il rap “senza contenuti”.

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È da quando avevo 10 anni che sento catechizzare sulla mancanza di contenuti del rap, da quando costringevo i miei genitori ad ascoltare “quei rumori che sembrano la spia della macchina” da Genova a Vibo Valentia, con qualche pausa per pisciare. In quel caso il compromesso fu “Spaghetti Western”, che citava esplicitamente Calderoli, la Lega e la destra, e questo significava che “aveva del contenuto”. A me adolescente della politica fregava meno di un cazzo, ma i Dogo erano sempre i Dogo. Mia madre era felice perché c’era della critica sociale, io ero felice perché sentivo Jake La Furia e soprattutto “tipa” rimare con “fila” e “figa”.

Negli anni, questo dibattito sul contenuto non si è mai arrestato. Persino qualche giorno fa, dopo l’intervista con Massimo Pericolo, mi sono dovuto “scontrare” con gente che continuava a sostenere che in “7 miliardi” mancasse il messaggio, mancasse il contenuto. E forse questo può essere un ottimo esempio del grande fraintendimento sul contenuto. Ascoltando distrattamente Massimo Pericolo può venire quasi normale accostare il suo linguaggio a uno stile quasi bomberista. Eppure, in un paese giustizialista come il nostro, Massimo Pericolo, senza ergersi su nessun pulpito ma semplicemente raccontando la sua storia, sottolinea un concetto che non è chiaro a tutti, specie ai più giovani influenzati da messaggi contrastanti: in galera ci puoi finire anche se non sei un mostro e, anche se mostro lo dovessi essere, ciò non toglie che la galera è una merda vera, che disumanizza. La forza del messaggio sta anche nel fatto che chi canta non ha nulla del malandrino; come la maggior parte dei “criminali giovanili” italiani è semplicemente uno “sfortunato” a cui Dio (o chi per lui) ha affibbiato un destino di merda, in un posto di merda, che comporta scelte di merda, in un ambiente in cui la gente si fuma la roba (che è una merda).

E se il rap deve svegliare le coscienze, magari non sveglierà quelle di chi è nello stesso sfortunato calderone umano che descrive Pericolo, ma quelle di chi crede che tutto il mondo sia la sua bolla. Per me, ad esempio, cresciuto e totalmente immerso in un mondo molto diverso, sentire le storie di chi viene da Brebbia, Cinisello o dalla Trecca mi apre a mondi che non conoscerei altrimenti, così come c’è chi lo ha fatto con la provincia italiana in tempi non sospetti da Lou X a Fibra.

Proprio mentre mi indignavo e litigavo su Facebook per Massimo Pericolo, ho aperto YouTube e di conseguenza le tendenze. E tra i Me contro Te e Space Valley, campeggia nel momento in cui scrivo Nayt, con il nuovo singolo “Animal”.

Spulciando su Instagram nella noia quotidiana, l’unica cosa che avevo sentito in precedenza di questo brano era uno snippet che riportava una chiara citazione a “Mal di Stomaco” di Fibra, che potrebbe essere il giusto compromesso tra chi urla al “messaggio” e chi come me vuole sentir rappare. La curiosità era ovviamente tanta, perché “Mal di Stomaco” è un pezzo al quale sono molto legato, nonché il primo pezzo che mi ha fatto pensare davvero che un mio “idolo” fosse morto, se ricordate il video.

“Mal di Stomaco” è una critica alla società moderna. È a tratti paraculo e retorico (“Dimmi quanti laureati hanno la garanzia / di non finire lavapiatti in pizzeria”), ma è prima di tutto in prima persona: Fibra veste i panni di chi critica. Non si erge su nessun pulpito, non dà soluzioni semplici a problemi complessi, non è mai troppo pedissequo e lascia che sia sempre l’ascoltatore a trovare significato alle sue barre. Rimane comunque un pezzo mainstream, di un rapper che deve sfondare le porte per il proprio genere, ma, ecco, rimane comunque qualcosa che non fa dire immediatamente a mia madre: “Oh, bravo questo Fibra che fa ragionare mio figlio”. E per me basta.

Il “contenuto”, nel rap (italiano, mi permetto di aggiungere, ma perché questo è il mio catino di appartenenza) è spesso scambiato con “retorica sociale” da due soldi.

Ora, ho sempre odiato la scuola, come uno stupido ragazzino annoiato può fare. Ho rifiutato ogni tipo di imposizione dall’alto. Il motivo per cui il rap, alle mie orecchie, è sempre sembrato così fico, è che nessuno mi voleva insegnare nulla: erano persone che raccontavano i cazzi loro, cazzi dai quali io, volendo, potevo estrapolare delle idee.

Ecco, “Animal” di Nayt, invece, ha un tono paternalistico. Il percorso di Nayt è molto travagliato: rappa da che io ho memoria, praticamente, ma ha vissuto il primo vero e proprio boom circa un anno fa. La sua fortuna è stata quella di avere uno stile che potremmo definire “classico” (ci sono mille sfaccettature, ma facciamo che extra-beat e incastri corrispondono allo stile “classico”) in un momento in cui i newcomer rigettavano e respingevano tutti quei canoni, in modo simile a quello che hanno fatto Vegas Jones ed Ernia. Nayt è esploso su Real Talk proprio per questo motivo: era un puro distillato di tecnica, spesso anche in culo alla musicalità, che solo di recente sembra divenuta un’ossessione per chi segue il genere.

Visto che questa sua predisposizione alla tecnica lo ha subito messo nel compartimento dei “rapper-contro”, o alternativi a un mainstream del genere che andava in direzione opposta, era abbastanza normale che nel giro di qualche mese Nayt, da rapper “tecnico” sarebbe passato a diventare il rapper impegnato.

Il problema è che attingere al bacino di utenza della gente che cerca il contenuto molto più che l’evoluzione tecnico-stilistica comporta il fatto che alla fine rischi di rimanere tu stesso vittima di un personaggio, per non tradire quei fan che tanto ti osannano.

Non voglio puntare il dito: Nayt è solo l’ultimo di una lunga lista di esempi, una scusa per parlare di questa ossessione, dal momento che è in tendenza. In tutto il testo di “Animal” Nayt confonde il “messaggio” con il generico slogan sui mali della società: la droga come via di fuga al sistema che ti inquadra, le persone superficiali che filmano le tragedie per i like su Instagram, con immagini tagliate con l’accetta che hanno la stessa forza di vignette complottiste su Facebook. E lo fa perché funziona.

Il risultato è esattamente l’opposto di quello auspicabile: predica ai convertiti, a chi si sente superiore al “gregge”, usando contenuti che sembrano più seri di chi parla di fumare le canne o di ghiaccio sui polsi, ma sotto sotto sono parole vuote. Confrontiamolo con Ketama126, che spiattella sulle sue basi il suo “fare schifo” e tramite queste immagini forti, senza alcuno scopo didattico, è in grado di muovere qualcosa dentro chi l’ascolta. Dirmi che “uso troppo Instagram” è un messaggio retorico, moralista e che serve solo a prendere gli applausi da chi ai mali della società non sa proporre altra soluzione che condividere citazioni da 1984 su Facebook.

Tommaso è su Instagram.

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