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Recensione: Daniele Luppi & Parquet Courts feat. Karen O – Milano

Scrivere un concept album su una città è un progetto ambizioso, soprattutto se lo fai suonare a gente che nella città in questione ci ha passato al massimo un paio di notti. Dopo Rome, uscito nel 2011, Daniele Luppi torna a parlare d’Italia con Milano, registrato interamente dai Tex-newyorchesi Parquet Courts con il contributo di Karen O (degli Yeah Yeah Yeahs) alla voce in alcune canzoni. L’idea è quella di usare il linguaggio della no wave, il suono spigoloso e aspro della New York arty negli anni Settanta/Ottanta, per raccontare la Milano vissuta da Luppi negli anni Ottanta e Novanta, quella da bere, quella della cocaina sopra un certo livello di 740 e dell’eroina sotto, ma soprattutto quella della moda e del design di Sottsass e del suo Memphis Group.

Solo che, prevedibilmente, il disco suona molto (ma molto) più americano che italiano. L’ascoltatore che a Milano ci abita da un paio d’anni e cerca ancora di capire se ci sta bene o no si sente come un colombiano quando sente parlare l’Escobar di Netflix nel suo spagnolo da scuole serali. Ma del resto se uno volesse fare un album su Milano per i milanesi non recluterebbe Karen O e i Parquet Courts, ma Marracash che rappa sopra a dei sample di Nino Rossi (e questo vale come brevetto dell’idea).

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Quindi Milano suona così, una versione leggermente più Brooklyn dei Modern Lovers (uno potrebbe dire semplicemente Velvet Underground, ma i Velvet Underground facevano paura e loro no), con qualche momento Bowie e spigoli Tyvek. Non so bene se dare un giudizio positivo o negativo, perché è un bel disco da ascoltare ma allo stesso tempo la sua pretenziosità risulta irritante, soprattutto a chi deve tutti i giorni fare i conti con la mancanza di sostanza di una Milano cartonata, in cui a parole tutto è edgy e groundbreaking (rigorosamente in inglese) ma dietro alla maschera si nasconde sempre la solita classe predatrice del capitalismo all’italiana.

Allo stesso modo, le canzoni di Milano fanno riferimento a figure pionieristiche di disturbatori dell’arte e della musica come, appunto, Sottsass, ma soprattutto Arto Lindsay, Lydia Lunch e i Suicide, ma all’ascolto risultano addomesticate. In questo album non c’è molto di più (non che sia poco, attenzione) che buoni pezzi di post punk angolare e molto pop, con divertenti piruli di chitarra dissonanti, sassofono di indubitabile stile vintage, la fantastica voce di Karen O in grado di trapanare nel cervello qualunque cosa dica, e una sezione ritmica capace di far muovere il culo come insegnano i Talking Heads e ancorare i momenti più aspri a un terreno più comprensibile.

Insomma, si tratta di un disco di alti e bassi. Quando compare Karen O si raggiungono i picchi più alti, ma in alcuni punti si toccano abissi di hipsterismo francamente fuori tempo massimo. Menzione speciale per la traccia conclusiva, “Café Flesh”, che finalmente fa sentire un po’ a casa anche noi italiani ricordando un po’ i Confusional Quartet.

Milano è uscito il 27 ottobre per Monitor Pop.

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