Arrivo a Dancehall scevro di preconcetti. Non ne so niente, non so nemmeno chi siano i The Blaze. Allora ascolto il disco, raccolgo un po’ di informazioni, cerco di entrare un po’ in questa manciata di canzoni che, dice Noisey d’oltremanica, sta facendo impazzire l’Europa. La verità però è che il vero punto di forza dei The Blaze è nei loro video: sì, sono belli, sì, sono emotivi, ma sì, sono pure un sacco ruffiani. Parlano di periferia alla periferia, di minoranze alle minoranze, di donne alle donne. Loro però dicono di voler parlare a tutti di tutto, di voler fare poesia, di raccontare le res humanae. Incredibile. Oserei dire innovativo.
Al di là del sarcasmo e del riciclaggio di idee basiche (che in questi tempi in cui le idee si stanno perdendo potrebbe pure essere un buono spunto) sarebbero pure bravi, i The Blaze, se fossero dei videomaker. Solo che non sono videomaker, anzi, hanno pubblicato un album, un insieme di canzoni, una roba che si ascolta, rispetto al quale la dimensione visiva è soltanto un accidente. E fa schifo.
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Privato del potere empatico dei suoi video, Dancehall non è che un insieme di banalità, un insieme di pezzi che in realtà non hanno nulla da dire, con dei testi scontati e delle soluzioni ancora più scontate. Un po’ vorrebbero essere gli Algiers (con un vocione effettato che presumo tenti di scimmiottare il soul), un po’ Nathan Fake, in qualche sparuto momento addirittura Paul Kalkbrenner: i The Blaze razziano qua e là dal mondo dell’elettronica facile, senza avere assolutamente alcuna idea di cosa farsene del bottino. Qualche pezzo, quando ha un minimo di variazione, riesce a non essere irritante, e quindi furbescamente diventa il prossimo singolo (“Heaven” e “Queens”), ma tolti questi sparuti momenti sono talmente tante le cose sbagliate che è snervante persino metterle in fila.
Soprattutto, però, i testi: ok, si tratta di beat faciloni, nessuno vuole la nuova “Trapeze Swinger”, ma se scegli di fare tre minuti e mezzo di elettronica dandole una struttura pop e poi ripeti per quasi tutto il tempo “You dance so well” non solo sembri un cretino, ma diventi pure fastidioso (“Places”). E invece i The Blaze ripetono e ripetono e ripetono, come se dovessero spiegare per bene dei concetti basilari a una classe di bambini con problemi di apprendimento. O forse è solo che sono francesi, e quindi ci tengono a portare avanti il luogo comune di non sapere l’inglese, non lo so, ma cazzo, potrebbero scrivere in francese, o almeno stare zitti.
Tutto questo senza parlare dei beat, principalmente perché non c’è niente di cui parlare. I brani si susseguono lineari, senza nessuna variazione, così iniziano e così finiscono, e non hanno assolutamente niente da dire. Non c’è un’idea, non c’è un messaggio, non c’è un umore, non c’è niente. Un’insulsaggine che si protrae stancamente per dieci tracce, senza trasmettere altro che un vuoto pneumatico. D’altronde è pur vero che se oggi ad andare di moda sono artisti che non hanno la minima cognizione di se stessi, i The Blaze rientrano perfettamente nell’equazione.
Dancehall è un disco di merda. Però oh, che bei video.
Dancehall è uscito il 7 settembre per Columbia.
Ascolta Dancehall su Spotify:
TRACKLIST:
1. Opening
2. Heaven
3. She
4. Places
5. Rise
6. Runaway
7. Breath
8. Queens
9. Faces
10. Mount