“Di trentotto solo due sono di mano maschile: il primo di un cuoco e il secondo di un suo zio che non si era mai sposato e che aveva nella cucina la sua passione più profonda”
A casa ho due copie del libro La Scienza In Cucina e L’Arte di Mangiar Bene di Pellegrino Artusi. Una è un regalo di laurea in ottime condizioni, l’altro una serie di fogli scompaginati e tenuti insieme da un nastrino che apparteneva alla mia bisnonna. È la cosa più simile a un ricettario di famiglia che abbiamo: negli anni lei, la mia prozia e mia nonna ci hanno infilato dentro dei fogli su cui scribacchiavano alcune ricette, dal Liquore al cioccolato al Fiordilatte. Mi sarebbe piaciuto avere un ricettario ben rilegato a cui fare riferimento, e invece mi ritrovo con un foglietto volante che cita un misterioso Elisir i cui unici ingredienti sono spicchi d’aglio e alcol.
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Da una ricetta su un quaderno, per dire, tu puoi anche geo-localizzare la provenienza della persona che lo ha redatto. E tutto questo è davvero straordinario.
Per questo sono stata estremamente affascinata da RAGU. Me ne ha parlato la prima volta Mila Fumini, storica riminese che non poteva trovare acronimo più appropriato — Reti e Archivi del Gusto — per un progetto che si propone di raccogliere, catalogare e mettere a disposizione di tutti quello che può essere definito un patrimonio immateriale della tradizione culinaria italiana: i ricettari di famiglia.
E attenzione, non lo dico perché sono convinta dell’assoluta superiorità della cucina italiana rispetto alle altre, come diversi miei compatrioti. Lo dico perché, in qualunque lingua siano e da qualunque paese provengano, i ricettari mi sembrano testimonianze preziose per sbirciare dentro le abitudini quotidiane delle famiglie, scoprire piatti dimenticati, smontare stereotipi e ricostruire bocconi di storia.
“La prima cosa che mi è saltata all’occhio è la pressoché totale mancanza di quantificazione degli ingredienti. Molte volte c’è scritto ‘q.b.’”
MUNCHIES: Com’è cominciato il progetto di RAGU?
Mila Fulmini: Un giorno stavo sgomberando la cantina di un’amica e a un certo punto trovammo uno scatolone pieno di quaderni, buste contenenti scontrini, ricette mediche, tutti materiali cartacei della persona che aveva posseduto quella cantina prima di lei. Cerano un paio di quaderni contenenti ricette di famiglia. Io mi sono sempre occupata di scritture religiose femminili e, in particolare, dei cosiddetti ego-documents (diari, epistolari, quaderni di discernimento spirituale) e anche questi quaderni secondo la mia sensibilità avevano qualcosa di sacro ed erano tracce, importanti, di scritture di donne delle epoche passate.
Come sei riuscita a sistematizzare il lavoro di ricerca e catalogazione?
Non ci sono riuscita [ride, NdR]. Nel senso che ho presentato al pubblico il mio progetto a settembre del 2019 e ho iniziato a far conferenze, lezioni e qualche incontro di raccolta ma poi è iniziata la pandemia, sicché, dato che eravamo tutti chiusi in casa, ne ho approfittato per studiare gli strumenti che mi avrebbero permesso di creare la digital library che avevo in testa. Quindi la sistematizzazione dei materiali digitalizzati per ora è proprio — e solo — quella dentro l’HD, mentre uno studio a tappeto delle fonti potrà essere fatto solo con un numero consistente di questi quaderni e dopo qualche raccolta di testimonianza orale legata ad essi.
Quanti ricettari hai raccolto finora, da dove provengono, a che periodo risalgono? C’è qualcosa che li accomuna tutti?
Fino ad ora ne ho raccolti trentotto e la maggioranza sono emiliano-romagnoli perché le call publiche che ho fatto le ho svolte tutte tra Castelfranco Emilia e Bologna. Me ne sono arrivati tre, diciamo così, spontaneamente da tre fanciulle riminesi. Di trentotto solo due sono di mano maschile: il primo di un cuoco e il secondo di un “signorino” – così lo descrisse il signore che me lo portò una mattina al Mercato della Terra – ovverosia suo zio, che non si era mai sposato e che aveva nella cucina la sua passione più profonda.
Poi, proprio in pandemia, è successa una cosa magica: la mia vicina di casa, una delle due meravigliose fanciulle che ha inventato la community di FB di via Orfeo/Rialto qui a Bologna, mi scrisse per dirmi che aveva una cosa da farmi vedere. Mi passò una busta di plastica che conteneva quattro quaderni molto piccoli, vergati in bella grafia: firmato “Jesusitas” con una grafia totalmente diversa e tremula. La vicina di casa mi raccontò che per un certo tempo la sua famiglia di origine emigrò dalla Liguria in Argentina. Lì sua madre e le sue sorelle ebbero come tata/cuoca/factotum, una signora del luogo, che non aveva potuto studiare, che però – su idea della loro madre – dettò tutte le ricette che utilizzava per preparare da mangiare alla loro famiglia. Loro dunque si misero a vergare tutte queste su questi piccoli quaderni e Jesusitas firmò la sua opera nell’ultima pagina.
“In uno dei ricettari che ho raccolto, c’è la Torta di Guerra una torta senza farina, fatta col pane secco. Pensa che roba”
Ti racconto questo perché descrive molto bene quella che è, per la mia sensibilità, ciò che accomuna tutti questi quaderni, ovverosia, la cura, la volontà di tramandare un sapere, dei gesti, i trucchi, dei riti, semplici ma fondamentali per ognuna delle persone che le hanno vergate.
Quali sono le differenze principali con i ricettari di adesso?
La prima cosa che mi è saltata all’occhio è la pressoché totale mancanza di quantificazione degli ingredienti. Molte volte c’è scritto “q.b.” e anche quando ho chiacchierato con le signore che mi hanno portato i loro quaderni sovente mi dicevano “mo’ dai, lo vedi a occhio!” e, se ci pensi, è vero nel senso che, ad esempio, quando impasti, lo vedi quando la massa dell’impasto ha assorbito la giusta quantità di olio, di acqua, di latte o di qualsiasi altra cosa.
L’altra cosa, naturalmente, sono gli ingredienti. A me piace enormemente cucinare e mi accorgo che una parte importante per cucinare, la metà del mio divertimento, è andare a fare la spesa. E io faccio la spesa “vecchia maniera” ossia il sabato mattina vado al Mercato di Campi Aperti al Pratello e poi al Mercato Ritrovato del e lì cerco quello che trovo. Oppure, ancora, se la domenica voglio fare la pizza, a inizio settimana, vado a chiedere il lievito madre ai ragazzi del Forno Brisa.
In quali modi un ricettario può raccontarci qualcosa del periodo storico in cui è stato creato?
In parte proprio in quello che ti dicevo poc’anzi, ossia dagli ingredienti che usa. E poi c’è una cosa, altrettanto emozionante per la mia sensibilità, che emerge, ossia il costante occhio all’economia domestica. In uno dei ricettari che ho raccolto, c’è la Torta di Guerra una torta senza farina, fatta col pane secco. Pensa che roba. Eppure è vero e io me lo ricordo: sono nata in un borgo molto popolare adiacente il centro storico di Rimini, il Borgo di San Giovanni, che si interseca con la piazza dell’Arco di Augusto. Fino al 1985 nella strada principale è esistita una drogheria a fianco di una bottega alimentare: io ho imparato a fare la spesa lì, quando mia mamma mi mandava da loro — e conta che avrà avuto 5/6 anni — con una sportina che conteneva la lista della spesa e i soldi. Tutto era strutturato affinché l’economia in primis familiare e domestica e in secundis delle attività commerciali si sorreggessero. Nessuno ti avrebbe mai dato una cosa scadente. Oppure se un cibo era ammaccato, a fine giornata magari te ne facevano omaggio. E, ancora, spesso il bottegaio ti avvertiva che la settimana successiva avrebbe avuto il baccalà.
Tutto questo racconta la vita di un quartiere che, ancora tra la fine degli anni Settanta e i primi degli anni Ottanta, poteva dare origine nelle sue ricette, all’appunto “comperare lo stoccafisso di Cesare del Borgo di San Giovanni, non quello del Mercato Coperto” (nome con cui viene comunemente indicato dai riminesi il Mercato Centrale dove si trovano la maggioranza dei banchi di vendita di pesce della città). Perciò da una ricetta su un quaderno, per dire, tu puoi anche geo-localizzare la provenienza della persona che lo ha redatto. E tutto questo è davvero straordinario.
Qual è l’obiettivo finale di RAGU?
Per quanto mi riguarda è di mettere in piedi il portale e farlo nella maniera più semplice e funzionale possibile. Questa è una ricerca che, potenzialmente potrebbe proseguire ad libitum. Fino ad ora l’ho portata avanti io nel poco tempo che sono riuscita a ritagliare dalle mie principali attività di ricerca in università. E proprio per questo motivo, poche settimane fa, ho firmato una convenzione con l’Istituto Parri di Bologna. Lì, con l’interessamento di una persona che è stata fondamentale per lo sviluppo del progetto, Agnese Portincasa. una importante studiosa del cibo, come mi piace sempre dire “RAGU ha trovato casa”.
“Ho come obbiettivo far parlare i silenti. Perché la storia più bella e appassionante è quella che è stata costruita da chi non ha mai avuto voce, in larga parte donne”
Il progetto ora non è più portato avanti con i miei soli e semplici mezzi, sempre sostenuta e aiutata in tutte le maniere possibili e immaginabili da quel genio di Luca Cesari, il mio nume tutelare nella storia della gastronomia italiana, ma da Agnese e dalla sua bellissima squadra. In questo modo spero di riuscire a mettere in atto sia una buona attività di fundraising per sostenere le attività di progettazione, programmazione e uso del portale, ma anche — questo sarebbe il mio sogno — di riuscire a trovare fondi a sufficienza per elargire delle borse di studio.
Questo progetto di ricerca è ciò che io raccolgo e restituisco alla collettività perché la cosa più terribile che possa accadere è perdere la memoria di ciò che è stato. E sovente, le cose più belle e significative, le hanno fatte storicamente, non personaggi famosi, ma la tua nonna, la mia zia, donne semplicissime che mai e poi mai saranno nominate in un libro di storia. Ecco. Io ho come obbiettivo questo: far parlare i silenti. Perché la storia più bella e appassionante è quella che è stata costruita da chi non ha mai avuto voce, in larga parte, donne.
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