Cibo

Com’è mangiare davvero in una trappola per turisti a Firenze

Alla voce “specchietto per le allodole” i dizionari online all’unanimità notificano così:

“Richiamo, lusinga ingannevole per attirare gli ingenui.”

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Per quale motivo un attacco del genere vi chiederete. Beh, sono sicuro che dopo aver letto la seguente esperienza gastronomica, non vi sembrerà poi così crudele come esempio.

Sì, perché se Venezia fa parlare di sé per i suoi prezzi da capogiro, Firenze – dal canto suo – negli ultimi anni ha affilato una tecnica di cattura del cliente da far invidia ai commercianti dei suq marocchini. Per l’ignaro (se non addirittura ignavo) vacanziero infatti, il tragitto che si sviluppa all’interno del centro storico fiorentino che va da piazza Santa Croce fino al mastodontico Duomo, è da sempre il percorso più battuto e più ammirato dell’intera città e per questo motivo perennemente straripante di gruppetti multietnici di turisti vogliosi di scoprire Firenze, tanto quanto di assaggiare la sua famosissima cucina tradizionale. Le prestigiose botteghe dei mastri calzolai hanno lasciato spazio alle boutique di alta moda, mentre gli antichi vivandieri, per l’appunto, sono stati rimpiazzati da ristoranti con menù luminosi e prezzi stellari. Niente di nuovo. Il classico mutamento della città dai lustri antichi, che soffre una globalizzazione dei prodotti homemade e annaspa per produrre a basso prezzo e mantenere la propria identità di valore. Come dargli torto. Ma c’è un limite a tutto e questo limite molto spesso viene oltrepassato proprio nel campo enogastronomico, dove a rigor di logica dovremmo essere tra i migliori al mondo.

Il buttadentro mi porge il menu: dove sono finiti ribollita, pappa al pomodoro, bistecca sanguinate e lampredotto?

Posso confermarvi che mangiando in uno dei ristoranti “tipici” di Firenze, coperti alle spalle dal cupolone del Duomo mentre si ammira la basilica di San Lorenzo stagliarsi nel cielo di fronte al dehors, ho consumato uno dei peggiori pasti della mia vita. E anche se prima di questa esperienza il solo pensiero mi accapponava la pelle, ho deciso di investire una mia pausa pranzo in un esperimento, scoprendo così come mangia un turista straniero mediamente nella mia città.

Prima però dovevo raccontare il tutto a mia nonna (la cui bistecca fiorentina viene servita quasi cruda e la ribollita aleggia per anni tra frigo e tavola dotata oramai di vita propria) per sentire cosa ne pensava una fiorentina doc di quel tipo di ristorazione. Il risultato è un rude “vien via” (tradotto: ma cosa minchia dici?) e la cancellazione del mio nome da quelli presenti nel suo testamento.

Diseredato da mia nonna, convinco la mia ragazza a seguirmi nell’esperimento pregandola di immergersi al meglio in una dimensione scoutistica, con tanto di calzettone ascellare, fazzolettone al collo, accento nordico e fiumi d’ingenuità. Due perfetti vacanzieri che non riconoscono le stagioni (turista ricorda: a novembre è freddo anche in Italia), oltre che la cucina fiorentina.

L’uomo di fronte a me batte il dito impunemente sui piatti secondo lui tipici: spaghetti all’Amatriciana, lasagne al forno, spaghetti alla carbonara, milanese con patatine fritte…

Foto dell’autore

Una volta in centro ci scontriamo con numerose processioni di turisti cinesi, oserei dire quasi padroni di quelle vie, intenti a sfidarsi tra di loro a chi ce l’ha più lungo (l’obiettivo della reflex naturalmente). Nonostante sia oramai dentro la parte del turista entusiasta, sono solidale a quei banchi di innocenti ad un passo dal cadere nella trappola.

Avrei voglia di fermarli, uno per uno, e dirgli . Troppo sdolcinato, lo so, ma (per chi non la conosce) questa città era cool anche prima del premio assegnato al quartiere San Frediano dalla Lonely Planet e – giuro – sapeva essere un perfetto collante tra le nuove culture e la sua ingombrante storia, anche senza sputtanarsi del tutto.

La mia fidanzata, però, mi riporta sulla terra, ricordandomi che non sono Dante e che Firenze cambia e cambierà ancora, che io lo voglia o meno. Incasso e rapidamente indosso si nuovo le vesti del Mario Rossi tedesco – che dopo alcune ricerche ho scoperto chiamarsi Hans Müller – che adesso comincia ad avere fame.

Bando alla sindrome di Stendhal: voglio testare la famosissima cucina fiorentina.

Individuo una trattoria cui neanche Marasco avrebbe saputo trattenersi. Il nome, forse, tradisce le origini toscane dei proprietari, ma la vista del Duomo e la C aspirata del butta-dentro cancellano ogni mio tentennamento. Il mio finto accento tedesco è penoso ma il cameriere sembra non farci caso e continua a illustrarmi le portate del menù: dove sono finiti ribollita, pappa al pomodoro, bistecca sanguinate e lampredotto?

L’uomo di fronte a me intanto batte il dito impunemente sui piatti secondo lui tipici: spaghetti all’amatriciana, lasagne al forno, spaghetti alla carbonara, milanese con patatine fritte. Insomma tutte cose italiane, ma non certamente toscane né tantomeno fiorentine.

“Ti prego fermati!” penso e forse sussurro visto lo scatto repentino con cui l’uomo si volta verso di me. Tuttavia Hans Müller è carico e sempre più affamato, accetto così le avance del butta-dentro e varco la soglia del ristorante.

Era il ristorante dei miei sogni (i sogni di Hans Müller sia chiaro). All’appello infatti rispondevano tutti i canoni della ben nota trappola turistica: dal “butta dentro” logorroico in prima linea, all’accozzaglia di pietanze made in Florence unite a forma di menù (cosiddetto caratteristico), concludendo infine con la bistecca illividita e dalla dubbia provenienza animale esposta in vetrina.

Entusiasta del posto vista Duomo con tanto di vetrata a mo’ di rettilario, mi siedo e scopro con stupore che il ristorante non ha nulla della tipica trattoria; gli interni sono infelici e lo stile oscilla tra quello di una sala d’aspetto ospedaliera e l’ufficio di Mario Monti. Sento un brivido attraversarmi la schiena, non mi sento a mio agio e loro cominciano ad accorgersene. Ok, solo in quel momento capisco come solo dei turisti possano intravedere tipicità e accoglienza tra quelle mura, in un luogo tanto familiare quanto può esserlo la tana di un lupo.

Il nuovo cameriere mi rifila le stesse fregnacce del collega alla porta: “Le consiglio uno spaghettino alla vongole o, se preferisce, qui facciamo delle ottime penne alla sorrentina”.

Attorno a me, nel frattempo, si siedono altri miei simili: reflex al collo e mappa della città alla mano, si sente lontano un miglio il puzzo di verdoni.

Il locale è pieno e tra cinesi, tedeschi e spagnoli, mancano solo – in quella che sembra l’inizio di una barzelletta – gli italiani (tolto il sottoscritto ovviamente).

Fettuccine all’Alfredo. Foto dell’autore

Dopo alcune occhiate con la mia ragazza e un accenno di sorriso da parte del primo cameriere venuto per accertarsi della nostra comodità, finalmente comincio ad ambientarmi, prendo coraggio e (divertito) scelgo di ordinare ‘sti famosi piatti tipici, nel rispetto del mio ruolo e per non destare i sospetti di un secondo cameriere con gli anni divenuto antropologo. Mi dedico quindi alla scelta del primo: le portate sono molte e non tutte italiane e spulciare quello zibaldone alla ricerca della vera anima toscana non è semplice. Quando il mio dito, però, giunge al piatto “Fettuccine all’Alfredo” (un piatto di origini romane ideato da Alfredo Di Lelio e diventato un cult tra i divi di Hollywood), sento finalmente di esser giunto all’acme interpretativo del mio ruolo da turista. Il metodo Stanislavskij funziona e dopo aver tirato al meglio il calzino di spugna e serrato ermeticamente il sandalo immaginario, faccio quello che un turista su due sceglie di fare una volta entrato in un ristorante del genere, dovunque esso si trovi.

Ma che importa, quando accanto a me una coppia da Mitteleuropa sorseggia cappuccini, lasciandosi inebriare dalle volute fumose dei loro piatti di pasta all’Amatriciana?

Candidamente ordino dei piatti italiani, i più conosciuti, indicati come tipici della zona e per questo buoni. Perché in fondo – capisco adesso perché mia nonna non mi rivolge più la parola – provate voi a fare tutti quei chilometri per poi mangiare una ribollita, onesta, ma comunque dall’aspetto poco invitante (a meno che tu non sia un geofagico).

E naturalmente non potevo non assaggiare la fettuccina sopra citata, che tolta la nota acidula e la consistenza mucosa si è rilevato in fondo un piatto quantomeno decente. Mangio con cura ogni boccone, capendo solo alla fine – con mia poca sorpresa – che l’emulsione di burro e parmigiano si tratta in realtà di semplice panna. Niente di grave, può succedere, soprattutto a chi di questo piatto conosce ben poco, come i fiorentini che, con rispetto parlando, si sono trovati questa patata bollente tra le mani, indecisi se mantenere la proprie radici di cucina povera ma tradizionale o – come è stato poi – adeguarsi alle richieste della clientela, sempre più turistica e sempre più all’oscuro delle abitudini culinarie di ogni regione italiana.

La fettuccina mangiata. Foto dell’autore.

Continuando sull’onda del folcloristico, opto poi per una milanese con patate – piatto tipico, certo, ma di Milano – allungando il tutto con un ‘gotto’ di vino la cui bottiglia di origine attendeva il mio arrivo già disposta amorosamente sulla tavola, logo del ristorante a coprire l’etichetta e di conseguenza nessuna indicazione del tipo di uva o della cantina di provenienza.

La milanese in un ristorante di Firenze. Foto dell’autore

Ma che importa, quando accanto a me una coppia da Mitteleuropa sorseggia cappuccini, lasciandosi inebriare dalle volute fumose dei loro piatti di pasta all’Amatriciana (matriciana in fiorentino), simbolo della tradizione culinaria toscana. Sul loro volto splende un’espressione di soddisfazione mista a fierezza, la stessa con cui, una volta in patria, racconteranno ai propri amici di aver finalmente assaggiato i capisaldi della cucina italiana, senza naturalmente specificare quel piccolo dettaglio che è l’abbinamento. Forse questo è troppo anche per Hans Müller.

Controllo la consistenza della mia pietanza, intristito dal suo aspetto e dalla sua temperatura. Dopo pochi bocconi, la panatura poco dorata si sgretola come se fosse vetro, lasciando “l’orecchia d’elefante” senza la sua fodera. Ispirato dal proverbio in vino veritas, chiamo il cameriere e senza nascondere una smorfia di sdegno faccio portare via quella mattonella mestamente soprannominata da loro cotoletta.

Devo comunque ammettere che la cosa più strana è stato vedere sui tavoli accanto i piatti quasi del tutto lucidi, tanta era stata la voglia e il piacere di quel pranzo, gente sazia che rideva e pezzi di carta rosa sventolare come se nulla fosse. Più che in un ristorante sembrava di essere al festino post-elezioni a casa di Angela Merkel.

Non chiedo il dolce per paura di sorprese, scrutando in un altro tavolo un tiramisù servito in un collins glass di quasi 75 cl. Chiedo il conto e dichiaro concluso l’esperimento, oltre che il mio rapporto con certi tipi di ristoranti (almeno spero). In fin dei conti lo scontrino si rivela magnanimo con me, anche se il costo della milanese è pari a quello che spendo per mangiare in una settimana all’Esselunga; sborsando i trenta euro capisco che a graziarmi sono state le scelte poco esose e il timbro non tradizionale del mio pasto (vedi i 22 euro per una bistecca fiorentina che per un istante durante il pranzo giurerei di aver visto perfino muoversi).

Foto dell’autore.

Uscendo dal ristorante – tolta la maschera da Hans Müller – guardo i volti slavati delle future vittime e ripenso a mia nonna: aveva ragione, non merito i suoi soldi dopo aver mangiato in un posto come questo.