“La Rosetta non è veramente il pane di Roma. Il pane di Roma era la Ciriola, allungata e piena di mollica. In realtà la ricetta originale è quella della milanese Michetta.”
ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO È SCONSIGLIATO AI FONDAMENTALISTI DEL LIEVITO MADRE E DELLE FARINE INTEGRALI
Videos by VICE
Di questi tempi se non fai il pane con la farina integrale macinata a pietra di grani antichi come la civiltà etrusca, lievitato con un lievito madre di 120 anni non sei nessuno. La lievitazione naturale è ok, i semi dentro gli alveoli sono ben accetti, la farina bianca è l’incarnazione del demonio in terra.
La storia di oggi riguarda proprio una tipologia di pane che non solo viene fatto con farina raffinata e lievito di birra, ma non può essere fatta in altro modo. Il trionfo del benessere, la vittoria dell’industria alimentare, il fattore popolare. In poche parole: il pane di Roma, la Rosetta.
La Rosetta la conoscono tutti. Con quella sua inconfondibile forma, quel suo cappello sulla cima, è diventato in pochissimo tempo il pane prescelto di ogni romano, da ogni merenda. All’interno è vuota, piena solo di aria, perfetto per essere imbottito con un sacco di mortadella o di qualsiasi cosa vi venga in mente.
Siccome ho un legame molto stretto con questo pane, che ha fatto parte della mia vita e che ritorna da sempre nei racconti dei miei amici romani o degli anziani con cui ho parlato, ho deciso che era arrivato il momento di scriverci qualcosa, sebbene non fosse più così di moda.
E quale modo migliore se non alzarsi in piena notte per imparare a farlo da un panettiere? Trascinandomi dietro il fido Andrea per fare delle foto, ovviamente. (SCUSAMI ANCORA!)
Le rosette le si trova ancora in tutti i panifici storici della Capitale, ma la gente non le compra più, sta scomparendo.
Sergio Conti, che mi avrebbe insegnato a fare le Rosette, lo conosco da quando mi sono trasferito a Roma. Da quando consegnavo Rosette gourmet in giro per il centro a cavallo di una bicicletta gigantesca per conto di Zia Rosetta, un locale che serve tuttora quasi esclusivamente rosette ripiene di tutti i tipi. Da quella con il Salmone affumicato, Misticanza, Salsa Yogurt Menta Basilico e Sesamo Nero a quella grondante parmigiana di melanzane. Ah, e ogni rosetta ha il nome di una rosa.
Insomma, Sergio era il panettiere che riforniva Zia Rosetta ogni mattina di rosette freschissime. Lo è tuttora. È anche l’unico che fa le rosette in formato mini, apposta per loro. Così, quando dovevo scegliere dove andare per farmi raccontare la storia di questo pane, non ho avuto dubbi che sarei finito nella sua panetteria. A quanto pare è stato anche interpellato dallo chef stellato Lele Usai, che vuole farsi le rosette da solo nel suo ristorante a Fiumicino. Magari ci mette dentro i pesci trovati all’Asta, chissà.
“Vieni per le cinque di mattina”, mi fa quando ci mettiamo d’accordo. Ho tirato un sospiro di sollievo, per un attimo pensavo che saremmo dovuti andare molto prima. E sarebbe stato davvero hardcore. Per fare le cose come si deve, la sera prima sono passato dalla panetteria per vedere anche come si fa la biga, il preimpasto da aggiungere all’impasto del giorno dopo. Acqua, sale, farina 00, malto e lievito di birra. Il tutto è durato tipo cinque minuti.
La mattina della mia iniziazione al mondo della panetteria era una di quelle incredibilmente fredde e ventose. La Panetteria Romana di Sergio è uno di quei luoghi storici della città, che hanno ancora le insegne antichissime sopra la porta.
La trovate a Trastevere, in via della Lungaretta, da quel lato meno battuto dai turisti. Il lato di Meo Patacca, per intenderci. Tempo di un caffè, di capire come ci chiamassimo e siamo entrati nel negozio per fare due chiacchiere e metterci a lavorare. Stupidamente ho pensato di essere l’ospite d’onore, con il mio bel bancone a disposizione dove fare il pane in tutta calma. E invece a occupare il piano c’era Giovanni, un panettiere vero che aiuta Sergio dalla mattina presto e che non aveva nessuna intenzione di perdere tempo sulla tabella di marcia. Stava lì, intento a impastare e infornare in silenzio, veloce e preciso come chi fa un mestiere da tutta la vita. Così ci siamo seduti a parlare per un po’.
“La Rosetta non è veramente il pane di Roma. Il pane di Roma era la Ciriola, allungata e piena di mollica. Si è diffuso da queste parti solo negli anni ’50, nel dopoguerra”, mi spiega Sergio. “In realtà la ricetta originale è quella della milanese michetta.”
La michetta milanese pare debba il suo nome al pane austriaco kaisersemmel, un tipo di pane soffiato che si usava a Milano già nel 1700. Micca, e quindi Michetta, era la storpiatura di quel nome austriaco. E in dialetto milanese significa anche “briciola”, dato che va consumato ancora fragrante. Dall’avvento della farina raffinata importata dagli americani dopo la guerra, la michetta è entrata a far parte delle panetterie di varie zone d’Italia. Michetta a Milano, Stellina a Bergamo, Rosetta a Roma. Sono tutti e tre lo stesso tipo di pane.
“Rappresenta il benessere del boom economico di quegli anni, dal momento che non può essere conservato. Dopo qualche ora si rammollisce. Si può fare solo con la farina bianca raffinata e il lievito di birra stabile, perché dentro deve essere soffiata, vuota, senza mollica.” Non è difficile capire perché tutti se ne innamorarono: era elegante, aveva la forma di una rosa, rappresentava la modernità e poteva essere riempita con qualunque cosa. Anche se la mortadella era la morte sua.
“Da ragazzino”, mi dice Sergio, “la riempivamo con una sola fetta di mortadella.” Nel frattempo a supportarlo è arrivato anche Claudio, il padre, non che presidente dell’Associazione Italiana Panificatori e Affini. Mamma Graziella e la sorella Elisabetta, invece erano già lì. La Panetteria Romana è loro dagli anni ’50. Oggi Sergio gestisce anche la panetteria storica di Monti, in via dei Serpenti.
Le rosette le si trova ancora in tutti i panifici storici della Capitale, ma la gente non le compra più, sta scomparendo. Si preferisce comprare filoni di pane di farina integrale, segale, farro, monococco, che durano molto di più nel tempo. Però il fascino di un pane che aveva stregato una città intera per me rimane ancora intatto. Se parlo con i miei amici romani lo considerano ancora il pane preferito. Quello che gli togli il cappello e lo riempi dall’alto.
“La Rosetta era allo stesso tempo immagine di benessere e di popolarità. Era elegante e sensuale, ma era anche vuota, quindi pesava di meno. A quei tempi c’erano i prezzi calmierati per il pane, che venivano decisi dal Prefetto di Roma in persona. Perciò i panettieri non erano molto contenti di sfornare rosette, visto che, svuotandosi in cottura, pesavano molto meno. Insomma, ci si faceva un culo così per realizzare una pagnotta tecnicamente molto difficile da fare per poi non guadagnarci più di tanto. Così sono nati i panini all’olio e al latte: l’ordinanza prevedeva un certo peso massimo di farina e acqua. Aggiungendo olio o latte si potevano alzare i prezzi senza infrangere la legge.”
Si chiamano così non perché assomiglino a una rosa. Si chiamano così perché in cottura sbocciano come delle rose a maggio.
Giovanni stava finendo gli ultimi filoni di pane, quindi siamo andati dietro al banco di lavoro per impastare. Mi sono messo anche la maglia bianca, per essere in tema. Una macchina su cui si mette l’impasto, lo divideva in tanti piccoli panetti da 80 grammi l’uno.
Giovanni e Sergio intanto mi facevano vedere come muovere le mani: si spinge dal basso con i pollici e poi si accarezza alternativamente con una mano e l’altra per formare un panetto rotondo. O si muovono con i palmi se si tratta di quelle piccole. Non me la sono cavata affatto male, anzi, penso di aver chiesto a Sergio un paio di volte se gli servisse un aiutante. Fare il pane con le proprie mani è una sensazione fantastica.
Abbiamo fatto i panetti delle mini rosette e poi di quelle grandi, da 90 grammi. Aspettato che lievitassero una mezz’ora e finalmente abbiamo creato lo stampo: sembra una ruotina di bicicletta, con un cerchio centrale e i raggi intorno. Lo si spiaccica sul panetto fino in fondo, a creare la forma di una rosa, con quell’impasto nel cerchio che sarà il capezzolo del panino. “Abbiamo detto che non è rosetta se non è vuota dentro.”, mi dice Sergio. “Questo stampino crea una serie di tagli in modo da fare entrare l’aria in cottura e farla alzare al massimo“
Le luci del giorno erano ormai alte. La prima infornata di mini rosette non solo era uscita, ma ne abbiamo aperte un paio e le abbiamo pucciate nella sugna della porchetta appena arrivata. Sì, la colazione dei campioni, so che lo state pensando. Quelle piccole, in particolare, hanno richiesto uno stampo speciale fatto da un fabbro, sono carinissime, ma non riescono a svuotarsi più di tanto. Quelle grandi, invece, una volta infornate erano bellissime.
Ok, molte – sicuramente quello che avevo fatto io – erano storte e a volte non sembravano nemmeno delle rosette. Ma una buona parte – quelle fatte da Giovanni e Sergio – sarei rimasto a guardarle per ore. Mi avevano detto perché si chiamasse Rosetta. Ma solo guardandole ho capito tutto. Si chiamano così non perché assomiglino a una rosa, visto che sembrano più delle tette. Si chiamano così perché in cottura sbocciano come delle rose a maggio.
È vero: non ha la farina integrale. Non ha il lievito madre. Non dura nel tempo. Però la Rosetta è un pezzo di storia di una città, del suo animo popolare e della sua rinascita.
Ho fatto le rosette in una panetteria dalla mattina presto e ho capito due cose: che mettere le mani in pasta è bellissimo. E che questo pane non deve morire. Anche solo perché è super instagrammabile.
Segui Andrea su Instagram
Segui Andrea Di Lorenzo su Instagram
Segui MUNCHIES su Facebook e Instagram .
Vuoi restare sempre aggiornato sulle cose più belle pubblicate da MUNCHIES e gli altri canali? Iscriviti alla nostra newsletter settimanali.