La grande ‘arte’ di Salvini di spararne una dopo l’altra

Per un politico è molto comodo stare all’opposizione. Non avendo responsabilità di governo, si può scaricare la massima violenza verbale contro l’avversario di turno e si può sostanzialmente dire tutto e il contrario di tutto; tanto, nessuno andrà a chiedere conto.

Quando si sale al potere, di solito, le cose cambiano—i toni tendono a smorzarsi, e le modalità di comunicazione adottano un registro più “istituzionale.” O almeno, questo è come dovrebbe funzionare. Perché se si prendono in considerazione le uscite e i profili social di Matteo Salvini, non sembrerebbe proprio.

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Nei suoi primi giorni da ministro dell’Interno, il leader leghista se l’è presa—tra gli altri—con: i “clandestini,” per i quali la “pacchia è finita”; la Tunisia, rea di mandarci “galeotti” (frase non particolarmente apprezzata dai tunisini); i “vicescafisti” delle Ong; Roberto Saviano; Mario Balotelli; e, ovviamente, imprecisati “poteri forti” che gettano “fango” rendendolo ancora più orgoglioso (“!!!”).

Nonostante sia al Viminale, Salvini continua a essere mediaticamente ubiquo con i classici trucchi retorici: semplificare al massimo le questioni, spararla grossa, sollevare un polverone, fomentare gli animi e poi ri-spararla ancora più grossa.

E dunque, per quale motivo il segretario della Lega continua su questa strada? Da un lato, la risposta è abbastanza intuitiva: è ancora troppo presto per comunicare provvedimenti governativi o misure legislative. Dall’altro lato, probabilmente è più utile ribaltare la prospettiva e chiedersi perché mai dovrebbe cambiare il suo stile—anche perché, a conti fatti, si tratta di uno stile estremamente più elaborato di quanto appaia a prima vista.

Da ormai diversi anni la sua pagina Facebook (che ha superato abbondantemente i due milioni di fan) è al contempo il principale hub comunicativo e il punto d’osservazione privilegiato sulla sua strategia mediatica, nonché un canale di propaganda che ha davvero pochi eguali nell’Europa occidentale. Come già osservava nel 2014 Mauro Munafò sull’ Espresso, Salvini sui social “non è solo un politico: è quel cugino-amico che se la prende con gli immigrati, fotografa sempre quello che mangia, guarda il calcio in tv, e condivide status con domande esistenziali un tanto al chilo.”

Oltre che dal “Capitano” in persona (non va mai dimenticato che si è fatto le ossa a Radio Padania) questo profilo pubblico che incarna il “pensiero mediano” è stato creato da Luca Morisi—un ex consigliere della Lega Nord di Mantova che ha tenuto un laboratorio di “filosofia informatica” all’Università di Verona, e che si definisce il “social-megafono” del segretario leghista.

L’incontro tra i due avviene nel 2012, in un momento complicatissimo per la Lega. “Ebbi una specie di innamoramento per lui dovuto alla constatazione della sua enorme capacità di gestire il talk show,” racconta Morisi nel saggio di Matteo Pucciarelli Anatomia di un populista. “Salvini giustamente aveva l’ambizione di crescere. Altri social media gli dicevano di puntare su Twitter, io gli dissi che il popolo stava su Facebook.”

Ed è proprio in questo social che Morisi intravede il “puro spirito salviniano”—quel mix tra “dimensione privata e ludica con quella politica”—ed evoca “l’epica del Capitano”; all’inizio per andare oltre i confini del vecchio leghismo pedemontano, e poi per “pompare” il personaggio al punto tale da trainare l’intero partito.

Le tecniche utilizzate da Morisi—che si avvale di uno staff e di una “infrastruttura informatica” chiamata la “Bestia”—sono riconducibili, grosso modo, in tre categorie. La prima è stare sempre sulla notizia e commentare all’istante, prima di ogni altro: arrivare tardi su Facebook, dice, “è come uscire su un giornale tre giorni dopo.” La seconda, appunto, è quella di “confondere pubblico e privato.”

La terza è invece la “polarizzazione dei sentimenti,” condotta attraverso una progressiva “raffinazione” (non nel senso di bellezza o eleganza, sia chiaro) del linguaggio propagandistico. In pratica, si legge in questa lunga analisi pubblicata su Wired, Salvini usa i sentimenti “negativi” (come rabbia, paura) per “abbassare la guardia” e far passare messaggi, se opportunamente confezionati con un “sentiment positivo.”

Per quanto cruciali, però, i social non potranno mai essere abbastanza. I valori aggiunti della comunicazione salviniana sono infatti la crossmedialità—ad esempio: ogni ospitata di Salvini in tv è ripresa e spalmata su tutte le piattaforme—e quello che Morisi definisce il “circolo virtuoso TRT” (tv-rete-territorio). “Gli ambiti si trainano a vicenda,” ha spiegato il “social-megafono” al Corriere. “Uno vede Salvini in televisione, scatta la curiosità e va su Internet, dove scopre che magari tra pochi giorni è in piazza dalle sue parti.”

Di recente, inoltre, questo “circolo virtuoso” si è rinforzato con le dirette Facebook “sul tetto”—quelle fatte nei momenti di massima tensione durante la trattativa di governo—che sono state sistematicamente riprese dalle televisioni, e che Morisi rilanciava ancora una volta con il retroscena delle dirette su Twitter.

Come si vede, nulla è lasciato al caso: il meccanismo è oliato ed efficace, e (per ora) abbastanza flessibile; adattabile, cioè, a nuove esigenze. In Anatomia di un populista, del resto, Morisi spiegava la differenza tra il Renzi “rottamatore” (che “utilizzava moltissimo i social”) e il Renzi di governo (che “si è chiuso nel palazzo”), e prometteva di non fare lo stesso errore: “saremo innovatori, esaltando l’umanità del ruolo e del personaggio.”

Osservando i suoi ultimi tweet, è esattamente questa la direzione impressa al Salvini governativo. Tra una riunione al Viminale (“subito operativo!”) e un selfie al Quirinale, Morisi ha scritto che il nuovo ministro dell’interno “starà poco nel Palazzo e molto in giro, sempre dalla parte delle nostre forze dell’ordine!”

Al di là della “umanizzazione,” il vero obiettivo rimane sempre uno: occupare il ciclo delle notizie anche attraverso i social, costringendo media, avversari e pure alleati a rincorrere ogni dichiarazione, gesto e azione. Rimanendo su questo schema, mi viene in mente un paragone con una figura ben più rilevante di Salvini: Donald Trump.

Secondo il linguista americano George Lakoff, autore del classico Non pensare all’elefante!, i tweet del presidente degli Stati Uniti assolvono a quattro funzioni ben precise: fare un framing preventivo di un’idea; spostare l’attenzione; schivare un attacco parlando d’altro; e sondare gli umori dell’opinione pubblica.

Per Lakoff, questa strategia funziona alla grande perché trasforma Twitter in un’arma politica con cui condizionare il dibattito pubblico. In una serie di tweet, poi, il linguista ha provato a tratteggiare un approccio diverso alle sparate di Trump sui social: “Immaginate di trovarle confinate in un piccolo angolo di un quotidiano, o trattate come una curiosità alla fine del telegiornale. Immaginate di reagire ad esse con calma e lucidità, e non con un’indignazione fulminea.”

A proposito di indignazione: pensiamo a quello che è successo ieri, quando una dichiarazione di Salvini su flat tax e ricchi (piccola nota a parte: sì, la flat tax è una misura per ricchi) ha scatenato un immenso dibattito. Il problema è che il virgolettato riportato da molti media attribuiva a Salvini parole da lui mai pronunciate; in questo modo, il neo-ministro ha avuto gioco facile nell’evidenziare l’errore, nell’attaccare i giornalisti e nel prolungare l’occupazione dell’intero palcoscenico mediatico.

Se Trump non ha smesso di utilizzare Twitter in quella maniera, insomma, non si vede perché non debba farlo Salvini dal Viminale. Dopotutto, ogni sua sparata è costruita per entrare nelle nostre teste e per rimanerci. E ora che—per la prima volta da quando è segretario della Lega—ha responsabilità di governo, non dobbiamo permettergli di farlo; piuttosto, dobbiamo giudicarlo prima di ogni cosa per quello che dice veramente, e soprattutto per ciò che realizza o non realizza.

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