L’idea di intervistare Mauro Teho Teardo ce l’avevo da parecchio. In parte perché già tempo fa avevamo avuto una sorta di “dialogo” a distanza, piuttosto stimolante su temi decisamente seri, un po’ perché ho sempre stimato parecchio la sua attitudine. Questo non ha nulla a che vedere con il fatto di essere più o meno fan della sua musica (anche se devo dire che ci sono alcuni suoi album che mi fanno letteralmente impazzire), piuttosto con il provare interesse per un modo di fare che non si è mai posto limiti di intraprendenza, fintanto che andavano d’accordo con una necessità di coerenza verso sé stessi. Parliamo di uno che è partito suonando industrial e noise a base di nastri magnetici, ha continuato sperimentando diversi orizzonti del rumore più o meno ritmico in solo, con i pesanti Meathead e in molte collaborazioni estemporanee, ed è finito poi a coniugare questa lezione con una attività da “vero” musicista, lavorando al commento di film di Salvatores, Sorrentino, Cupellini e altri. Tutto questo senza mai farsi problemi a spostarsi di chilometri dalla natia Pordenone per andare a condividere lo studio con chi gli pareva, finendo con molta naturalezza a fare dischi insieme a membri di Nurse With Wound, Scorn, Cop Shoot Cop e Girls Against Boys.
Abitudine che gli è rimasta, tanto che uno dei suoi lavori più apprezzati degli ultimi anni vede lui alle musiche e la parte vocale affidata al crooning roco di Blixa Bargeld. Questa intervista prende invece le mosse dal lavoro che sta per fare uscire sulla sua Specula Records: Le Retour A La Raison, un dialogo dall’oltretomba con il lavoro di Man Ray, realizzato evitando la presunzione di fare la “colonna sonora” dei suoi film e miscelando archi, elettronica ed elettrictà pesante. L’ho video-chiamato su Skype giusto ieri mattina e ci ho fatto una chiacchierata davvero piacevole, questo perché Teho, oltre che un musicista brillante, si è rivelato anzitutto una persona molto interessante e con una parlantina inarrestabile. Eccola qua:
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Continua Sotto.
Noisey: Buon giorno Teho, come stai?
Teho Teardo: Buon giorno! Bene, stavo per dare lo straccio ai pavimenti! Tu come stai?
Haha, bene, grazie! Iniziamo dal nuovo album?
Certo, aspetta, ti faccio vedere la cover in anteprima… [si alza e ravana un po’ tra le sue cose, torna con in mano il primo EP dei Godflesh] Eccola, ti piace?
Hahahahaha moltissimo. Bella, davvero! Mi ricorda qualcosa…
Ha funzionato una volta, potrebbe funzionare una seconda, no?
Dimmi, come è nata l’idea Le Retour A La Raison?
È un progetto su commissione. Villa Manin, un grosso ente espositivo che c’è in Friuli, una villa della fine del Seicento dove soggiornò anche Napoleone quando firmò il trattato di Campoformio con gli austriaci. L’anno scorso hanno fatto una grossissima retrospettiva di Man Ray, c’erano tre film che avrebbero voluto proiettare a ciclo continuo per tutta la durata della mostra e mi hanno chiesto di produrre della musica per questi tre film. Non di fare una colonna sonora, ma di immaginarsi qualcosa che potesse in qualche modo trovare un dialogo con quei film: poi mi hanno detto “Ci piace molto, ti andrebbe anche di suonare dal vivo questa cosa con i film?” E lì si è aperta una nuova possibilità per questa musica, ho dovuto rivederla completamente. Così si è aperto un altro capitolo, ma pensavo sarebbe finita lì. Mentre suonavo però ho pensato “a me sembra che sta musica potrebbe diventare anche un disco”. Così ho portato in giro parecchio questo progetto, ho fatto molti concerti, poi ho riaggiustato tutto perché prendesse la forma di un disco. Che è un po’ il processo contrario a quello a cui siamo abituati. Nel senso, normalmente la gente annuncia che farà un disco, e lo fa. È un altro modo di pensare: ho del materiale e quello determina il formato, per me è la cosa più sensata: hai del materiale e quello può diventare un EP perché può stare in un EP, non solo perché hai tre o cinque pezzi. Il tipo di musica determina il formato, e per me questo poteva diventare un album.
E i live gli hanno fatto cambiare forma nel tempo?
Sì, necessariamente. Sono uno di quelli che finché ha la possibilità di mettere mano ci tiene sempre le dita sopra. Cambio sempre quello che faccio.
E ti è mai capitato il processo inverso? Fare un disco e poi cambiarne completamente i brani live?
Sì, sì, assolutamente. Coi Meathead mi sono divertito un casino: in ogni disco c’erano almeno un paio di brani che erano sempre gli stessi ma prendevano forme diverse in ogni disco, in base a quello che succedeva poi dal vivo, e la gente non se ne è mai accorta. Questa cosa continuao a farla perché c’è una possibilità plastica nella musica che ti permette di andare altrove. Poi magari mentre stai suonando hai una sorta di illuminazione, senza dare eccessiva enfasi, pensi “questa sezione qui posso staccarla da questo brano e farla diventare un altro pezzo.” E pi succede, ma quella briciola lì continua a stare dentro quel brano, ma poi diventa anche altro. Da questo punto di vista è come se non fossi mai soddisfatto, anche se in realtà sono soddisfatto.
Sì, capisco benissimo. Ma quando hai iniziato a comporre il disco come ti sei approcciato in rapporto ai film stessi? Ovviamente vorrei sapere anche quanto è stato diverso rispetto a tutta la musica per film che hai fatto finora.
Ma non è musica per film questa… Man Ray mi sembra la classica persona che viene a casa tua e ti gonfia di botte se fai musica per il suo film, e farebbe solo bene! [ridiamo] Bisognerebbe avere paura ad avere a che fare con Man Ray, un certo timore… Non reverenziale, proprio timore. Spesso le riunioni di dadaisti e surrealisti finivano a botte, lo sai no? Gente che si sparava per pensieri diversi. Poi c’era anche un’altro aspetto che mi interessava molto: loro si cinontravano e dicevano “domani facciamo un film”. Lui andava in camera oscura, appoggiava oggetti sulla pellicola, montava e saltava fuori quello che è successo. Poi, tra l’altro, di questi film molte tracce sono rimaste nella storia del cinema. Li vedi e ci ritrovi elementi usati da altri giganti.
Assolutamente.
Ecco, quindi come ti avvicini a una roba del genere? Io poi non faccio davvero colonne sonore, io faccio dei dischi. Ogni volta che lavoro a un film è come se facessi un disco, e infatti spesso diventano degli album. Ho comprato colonne sonore per anni e spesso mi annoiavo quando le ascoltavo perché non succedeva più quello che era successo in sala, per cui faccio sempre molta attenzione quando si parla di colonne sonore: questo qui è un appuntamento, un appuntamento con un morto. Quando hai a che fare col cinema muto non c’è più nessuno di vivo, sono tutti morti. Guarda, l’altro giorno parlavo con un regista che mi interessa molto, Roberto Faenza. Era seduto proprio qui da dove ti sto parlando ora qualche giorno fa e mi ha detto “Sai, nel mio primo film il protagonista era John Lydon…” E io: “Cosaaaa? Hehehehe.”
Ma certo, Copkiller!
Sì, Copkiller! Ma gli ho chiesto di raccontarmi com’era andata, perché io non me lo ricordavo più, lo avevo proprio perso dalla memoria quel film. Allora ha iniziato a parlarmi di John Lydon ed è venuto fuori tutto il film. Per cui, ecco, se hai a che fare con un regista vivo ci puoi parlare, ma con un morto cosa fai? Io ho sognato un sacco di volte Man Ray, perché poi quando lavoro a qualcosa questa diventa un’ossessione, divertente, ma un’ossessione. Ho preso appunti da questi sogni, ma non sapevo bene cosa farne, allora ho contattato un analista che ne ha fatto dei racconti, delle storie, e con delle storie riesco a costruire della musica. Un racconto ha una forza evocativa che mi stimola a scrivere, è come se mi fossi inventato una sceneggiatura. Ma ancora non è una colonna sonora, perché non puoi fare una colonna sonora di questi film. È più onesto dire, ma non è una convenzione, che è come se ci fossimo dati un appuntamento. Sembra una follia, magari sembro un matto… Spesso quando suono l’ultimo brano di questo progetto ci sono quaranta chitarristi, perché un giorno ho sognato Man Ray che arrivava e mi diceva “QUARANTA, QUARANTA”. Io mi sono svegliato e ho pensato “ma che vuol dire quaranta?” In realtà avevo già preparato tutto per questo progetto… Ma mi sono inventato quaranta chitarristi che avrebbero suonato nel finale, che è una marcia funebre, lo stesso accordo (un Do# minore) per un quarto d’ora. Creano un universo e gli archi ci svolazzano attorno.
Quindi immagino sia stato anche semplice evitare i cliché sonori a cui si potrebbero associare quel tipo di immagini. Non so, come recuperare la musica d’avanguardia di quel periodo…
Sì, perché quelli che hanno fatto quel tipo di esperienza non ci sono più. Io racconto tutto un altro tipo di esperienza. Mi era successa una cosa analoga quando una quindicina di anni fa mi hanno commissionato della musica alle Giornate Del Cinema Muto, mi avevano chiesto di fare della musica per un film giapponese del ‘26, bellissimo, in costume e girato in un manicomio. Non ho pensato neanche per un istante a recuperare strumenti giapponesi o atmosfere orientali, avevo due batterie elettroniche, dei synth, dei campionatori, ho fatto quello che dovevo fare col mio linguaggio. Devi fare così, altrimenti fingi, e se fingi entri in quel territorio sfigato e drammatico di colonne sonore per cui molti sembrano dei pianobaristi.
È interessante quello che dicevi prima riguardo al fare film da un giorno all’altro, che è un po’ l’approccio di molta musica noise underground, o almeno lo era fino a qualche tempo fa. Quando facevi quel tipo di cose come MTT su Broken Flag avevi questo approccio? Ti ci sei ritrovato?
Mah, in realtà siccome all’epoca ero veramente una scarpa e non sapevo usare nulla, ci mettevo un sacco di tempo. Per le cassette che facevo per Gary della Broken Flag ci mettevo sei mesi a fare un pezzo. Però nella velocità anche all’epoca c’erano delle cose per me fondamentali, cioè c’erano dei movimenti veloci. Fare musica per me vuol dire stare in una stanza con dei microfoni e dover fare succedere qualcosa, da lì in poi viene processato ed editato, ma se non succede quella cosa lì, istantanea, che dura secondi, allora non avviene niente. Quindi all’epoca sprecavo la velocità nella totale incompetenza, ora sono passati molti anni, ho studiato tanto e ho capito come fare quello che mi serve per cui ho recuperato quella velocità. Ultimamente ho recuperato il mio vecchio quattro piste Tascam e ho ripreso a usarlo, facendo cose solo con i limiti che ti impone, ma non per essere nostalgico, quanto per dirmi: adesso sei lì e con quello che hai, se hai qualcosa da dire, lo dici, altrimenti stai zitto.
Quindi ti interessa proprio partire da un “fenomeno acustico” che si verifica nel momento.
Sì, a prescindere dal fatto che utilizzi un synth analogico, un’aspirina che si scioglie in un bicchiere o un violoncello…
Quindi immagino non ci sia mai stato un momento della tua vita in cui coscientemente hai deciso di iniziare a fare musica per film. Come ci sei arrivato?
Per caso. Il cinema in italia è uno degli ambienti più chiusi e reazionari che esistono. Hanno quasi tutti gli stessi cognomi, alla fine è un problema di emofilia. Quindi ci finisci o per raccomandazione o casualmente. Io mi sono trovato per caso a lavorare con Gabriele Salvatores a Denti perché lui e Federico De Robertis avevano sentito un mio disco e mi hanno coinvolto. Non avevo idea di come si facesse, per cui ci ho lavorato come se stessi facendo un disco e non ho mai smesso di lavorare in quel modo lì. Negli anni ho studiato molto, anche perché il rapporto tra musica e immagini mi ha sempre interessato. Ho voluto studiare, ma non sono riuscito entrare in un conservatorio e non ci sono in Italia scuole di musica in senso anglosassone, soprattutto all’epoca non c’era nessuno che ti insegnasse a usare l’elettronica. Per studiare tradizionalmente avrei dovuto fare un percorso che mi avrebbe portato a diventare una persona sgradevole, forse sarei diventato un cocainomane furioso… Per cui ho studiato l’altra cosa che mi piaceva di più: l’arte contemporanea. Per cui la musica per me è venuta da lì, ho sempre avuto un approccio visuale alla musica.
Ti è mai capitato che un lavoro venisse rifiutato o messo pesantemente in discussione?
No. Mi è solo stato chiesto una volta di fare una cosa che non mi apparteneva assolutamente. Era un film di Guido Chiesa sulla Madonna. Io non voglio proprio sentir parlare di religione… Già mi trovavo con questo imbarazzo, in più mi si chiedeva di fare musiche che avessero a che fare col Nordafrica, e questa cosa mi fa infuriare, io non posso suonare una roba che non mi compete. Ho anche provato a suonare con un musicista che arrivava da quel mondo lì, ma non riuscivamo a parlarci musicalmente. Non si può fare finta, devi sempre suonare quello che sei. Per cui ho mollato il film e si sono un po’ infuriati.
Ma comunque fin dai tuoi esordi ti sei relazionato soprattutto con contesti lontani dal tuo, musicisti e label che non stavano in Italia. Immagino anche per necessità, perché la musica che ti piaceva in Italia la facevano in pochissimi. All’epoca lo sentivi come un limite o come un’opportunità che altri erano stupidi a non cogliere? Ora quale senti sia il tuo contesto di riferimento, l’Italia o una dimensione più globale?
Non sono un etnomusicologo per cui non divido la musica per territori. Non lo facevo quando ero ragazzino perché non sapevo nemmeno cosa fosse l’etnomusicologia, andavo semplicemente a cercare la musica dove c’era: in Germania, negli Stati Uniti, un po’ in Francia e soprattutto in Inghilterra. Andavo a contattare con lettere e francobolli quelli che secondo me facevano musica interessante. Ma non andavo a cercarli perché erano inglesi. Ho sempre considerato certa musica come fuori dai territori. Pensa a uno come Masami Akita, per me è completamente fuori dalle mappe. [va di nuovo a frugare tra i dischi e pesca Echo Bondage di Merzbow] Negli anni ci siamo scambiati una montagna di dischi. Ce li spedivamo, questo è dell’87 per cui avevo già ventun anni. [Pesca un disco di Conrad Schnitzler] questo invece lo hanno stampato a Milano, c’era un tizio che si chiamava Marco Veronesi che girava il mondo e scambiava un sacco di dischi con un sacco di persone.
Schnitzler ha fatto anche dei dischi con Giancarlo Toniutti, ne ho uno. Tu Toniutti lo conosci molto bene, no?
Suo fratello Massimo era il mio compagno di banco alle superiori. Loro conoscevano Whitehouse, NWW, Ramleh, mentre io ascoltavo i Black Sbbath e il post punk. Ho conosciuto questi artisti lì tramite loro, che avevano una piccola distribuzione di dischi. Le cose le scoprivi così in seconda superiore, in gita a Bologna, siamo andati a Bologna e al Disco d’Oro in vetrina c’era appeso il disco di Ramleh quello con il tizio sbudellato in copertina, aspetta, ce l’ho qui… [si mette a cercarlo ma non lo trova]. Comunque: sui dischi c’erano gli indirizzi, per cui ci scrivevamo, poi ci si incontrava. Sono andato a Londra e ho conosciuto Gary Mundy dei Ramleh, che allora era anche il chitarrista dei Breathless ma questa cosa non si poteva dire. Se facevi musica estrema non potevi suonare in un gruppo rock psichedelico. I miei amici Toniutti detestavano i Breathless, mentre io li adoravo, ho anche organizzato dei loro concerti. Gary mi spediva i dischi che gli chiedevo di comprarmi a Londra che qui non trovavo. Lui era molto aperto musicalmente. Anche Steve Stapleton: quando avevo diciotto anni mi ha aperto un modo sul Krautrock di cui non sapevo niente, quei dischi non si trovavano più.
Poi sei finito a collaborare anche con gente che ha fatto il possibile per abbatterli i confini tra musica estrema e altro, no? Penso a Mick Harris o Jim Coleman…
Il contatto con Mick Harris e Justin Broadrick fu perché avevano campionato pezzi del mio disco Caught From Behind per fare i drone nel primo album degli Scorn. Un giorno coi Meathad suonavo a un festival e c’erano i Godflesh, che mi piacevano un casino e mi piacciono ancora. Mi presento a Justin, anche con un certo timore, e lui mi fa: “ma tu sei MTT?” e mi abbraccia! Pensa che connessioni interessanti, eppure come imprinting venivamo da un periodo, gli anni Ottanta, in cui gli ambiti musicali erano rigidamente confinati, non si poteva parlare di contaminazione.
Il progetto che hai fatto con Mick Harris, Matera, mi piace da morire: cosa ti ricordi del periodo in cui avete lavorato a quel disco?
A me piacevano moltissimo gli Scorn, li avevo visti molte volte dal vivo. Ero più che mai interessato all’idea di ripetizione con dei beat, ma suonati con strumenti veri, e infatti la batteria la suonava Mick in quel disco. Però mi interessava anche un elemento che nei dischi degli Scorn non c’era, cioè la melodia. L’uso della voce in senso quasi ritmico ma che potesse suggerire degli sviluppi in forma canzone.
Quasi hip-hop, no?
Sì. A me l’inizio del mondo hip-hop lì aveva colpito molto, però volevo qualcosa di più morbido, delicato. Ed era curioso parlare di atmosfere delicate col batterista dei Napalm Death. Abbiamo passato molto tempo in studio a Birmingham. Non abbiamo fatto un secondo disco perché mi sarei aspettato un’evoluzione, il disco di Matera è un disco che va, ma non arriva. Il secondo passo sarebbe dovuto essere più chiaro, ma non è potuto succedere perché Mick voleva fare la stessa cosa. Allora ho deciso di proseguire con Here, il disco che ho fatto con Jim Coleman dei Cop Shoot Cop.
Comunque in Matera c’erano molti elementi ballabili, legati alla jungle a molta musica breakbeat dell’epoca. Te lo dico perché come DJ mi è capitato spesso di suonare quei pezzi e funzionano di brutto sul dancefloor.
Quel disco lo abbiamo iniziato a fare nel ’94. Avevo iniziato a preparare una quindicina di pezzi con un AKAI S1000, tutte le costrizioni base. Mick è un batterista molto originale, e io suonavo chitarra e basso. Però poi Mick mi dice: il basso suoniamolo con un synth. Quella roba lì era veramente drum&bass, però all’epoca non è che ne circolasse molta, soprattutto in Italia. Se parlavi con Bertallot non sapeva mica cosa fosse. Ti dicevano: “e dove sono gli altri strumenti?” ma per me basso e batteria bastavano già. Mick faceva i droni con la cassa della batteria… È diabolico Mick Harris al lavoro. Io avevo un forte interesse per il dub ma non sapevo fare i bassi, trovare le frequenze basse. Il basso del dub… Quella roba lì in Italia non la faceva nessuno. Per cui sono stato a Birmingham da Mick e mi ha portato in studi di fianco al suo dove c’erano produttori neri che facevano roba con bassi che ti mandavano nell’altra stanza. Mick nel suo studio ospitava Surgeon, arrivava anche molta techno, altra cosa che mi ha totalmente affascinato. Grazie a lui ho imparato delle cose che non avrei mai conosciuto altrimenti, roba che stava già facendo con Scorn. Elipsis è un capolavoro in quel senso. In Italia non c’era nessuno che facesse dub.
C’erano gli Almamegretta a Napoli.
Sì ma, stando a Pordendone, Napoli era geograficamente fuori dalle mie coordinate. Facevo prima ad andare in Slovenia, dove invece questa roba passava. La geografia è importante, Birmingham è il posto più sfigato sulla terra, ma aveva una comunità nera di gente che faceva musica, senza la quale gli Scorn non sarebbero mai esistiti.
In che direzione saresti voluto andare dopo quello?
Mi interessava la forma canzone a partire dalle idee di Matera. A Jim quel disco piaceva moltissimo, ci conoscevamo perché avevamo suonato assieme con Meathead e Cop Shoot Cop. Io pensavo di trasferirmi a New York e avevo pensato di mettere su questo progetto per rimanere lì.
E invece….?
E invece mia madre si ammala di cancro e mi chiede per la prima volta di starle accanto. Così decido di restare per un po’ a Pordenone e mi imbatto per caso in Salvatores, in Denti e inizio a lavorare al cinema. Completamente un’altra avventura.
E invece il progetto Operator con Scott McCloud è stato un terzo capitolo?
Scott aveva suonato nel disco di Here e al tempo i Girls Against Boys avevano un successo clamoroso, sembrava diventassero i nuovi Nirvana. Ci vedevamo spesso, avevamo un ottimo rapporto. A un certo punto mi dice: perché non facciamo un disco che abbia a che fare con Here ma sia più pop e abbia molti elementi Electro dentro? Io ho sempre amato il modo in cui Scott cantava. Avevamo una specie di base delle operazioni a Parigi, poi il disco è finito in mano ai Placebo, e gli è piaciuto al punto che ci hanno chiesto di fare un tour lunghissimo con loro. Non mi fa impazzire il tipo di scrittura che hanno i Placebo, però ci sanno fare e quando suonano hanno una convinzione tale per cui tutta la loro vita al momento è quella roba lì, e io ci credo.
Invece ti dispiace che oggi i Meathead non siano molto ricordati?
Non me ne frega niente, è un problema della gente. I Meathead per me sono stati fenomentali: erano un progetto con una data di scadenza, con l’idea di fare tre album in cinque anni (in realtà ne abbiamo fatti quattro), collaborare con musicisti di tutto il mondo e fare una band in divisa (Gino, il bassista, era un fan sfegatato dei Devo) in cui nessuno sapesse suonare niente. All’inizio c’era gente di mezzo mondo che ci suonava, è stato registrato quasi tutto spedendosi i nastri. Erano i primi anni Novanta e aveva appena iniziato a prendere forma il rock italiano. Facevamo un sacco di concerti e iniziava a venire un bel po’ di gente, abbiamo aperto per Soundgarden, Helmet, Cop Shoot Cop. Noi pensavamo di fare qualcosa di utile, sensato, ci sentivamo connessi col mondo. Però poi in italia qualcosa ha iniziato a chiudersi, c’è stata l’invenzione della tradizione del rock italiano, sono arrivate sul mercato un sacco di band che prima suonavano nelle birrerie a fare le cover dei Doors e poi diventavano headliner nei vari festival facendo una brutta copia degli Alice In Chains. Tutti hanno iniziato a parlare in italiano, è finito il periodo in cui l’Italia era un punto di passaggio per un sacco di artisti. Prima, per dire, potevi vedere in continuazione i Motorpsycho, mentre oggi ti becchi tutte le settimane i Verdena che sono la brutta copia dei Motorpsycho.
Ma non ho rimpianti. Ci siamo tolti tutte le soddisfazioni che volevamo.
È un po’ conflittuale questa cosa: ovviamente la stagnazione tiene a galla solo la merda, però non pensi che di contro ci sia il rischio di non promuovere la musica del proprio territorio, generando una certa esterofilia altrettanto insana?
Non sono d’accordo. Io ho portato qui a registrare e suonare con me gente da tutto il mondo, eppure la mia label ha l’indirizzo a Roma. L’esterofilia mi lascia altrettanto perplesso perché ha comunque a che fare coi territori, mentre la musica sta sopra di noi. È una costellazione. Chiedi a Blixa Bargeld se rappresenta Berlino? Si infuria, così come io non sento di rappresentare l’Italia.
Assolutamente, ma è questo il punto: sono condizioni, entrambe malate, che si presuppongono a vicenda, e si basano entrambe sull’esistenza dei confini. Però ci sono stati un sacco di esempi di band che sono uscite molto dai confini ma poi non hanno fatto da viatico per la scena da cui venivano e a cui magari dovevano molto. Penso per esempio agli Uzeda, che avevano un botto di contatti con Albini e la scena di Chicago, mentre le altre band di Catania che spaccavano quanto loro non se le ricorda nessuno.
Secondo me nemmeno gli Uzeda se li ricorda più nessuno. Sono delle persone squisite ed erano una band fantastica, ma sono stati completamente ignorati per far passare quella robetta del rock italiano.
Ci sono anche stati poi risvolti differenti, tipo tanti musicisti validissimi della mia generazione che sono emigrati a Berlino impoverendo di brutto la scena locale.
Certo, ma vale per qualsiasi cosa, è difficile costruire qualcosa qui.
Lo so bene, purtroppo…
Però credo che Berlino non sia la soluzione. È un alibi territoriale, come se tu delegassi alla città il compito di fare il lavoro che dovresti fare tu. Io sono molto contento del fatto che le label, le grosse etichette indipendenti non esistano più, perché ora le cose te le devi fare. Non puoi dire “è colpa dell’etichetta che non ha investito su di me.”
Assolutamente d’accordo.
Dai, però volevo la domanda cattiva… Ho letto su facbook che sei uno cattivissimo e scrivi cose pien d’odio e ho pensato “finalmente…!!!” [ridiamo]
Haha ma sono cattivo solo con chi se lo merita! Comunque ok, l’hai voluta tu: avendo fatto musica per film famosi ti sembra di essere diventato mainstream?
Hahaahha, io adesso vorrei che qui ci fosse a rispondere il mio amico Jim Thirlwell. Io starei con la testa appoggiata alla sua spalla.
Minchia forse non reggerei il confronto, me lo sono sempre immaginato come uno che verbalmente sa benissimo farti un culo così, se vuole!
Eh ma che ci vuole a fare un culo così a uno…
A un giornalista, poi…
È uno estremamente intelligente, ha molto tatto. E quanto mi garba il tatto… Però è anche come avere una pantera in casa. Anche lui a un certo punto ha pubblicato un disco per una major, un disco molto buono. Ma per rispondere alla tua domanda: io posso davvero vantarmi di avere pubblicato le cose più assurde e sperimentali per Warner Bros. Secondo me loro non se ne sono nemmeno accorti, non li avranno nemmeno ascoltati. Il mainstream è precipitato, non esiste quasi più. Le major producono pochissimo. Però è inevitabile che se la mia musica finisce in un film, il pubblico del film ha molti più zeri in più rispetto ai dischi venduti. È molto più mainstream. E allora? Quella roba lì non c’è più. Io ho avuto a che fare con gente delle etichette più grandi e hanno fatto quasi tutti una brutta fine, mentre io e te parliamo qualcuno di una grossa etichetta viene licenziato. Penso sia fondamentale fare quello che ci si sente di fare: la colonna sonora de Il Divo è entrata in classifica, tredicesimo posto. Il mio disco più cupo in assoluto, decisamente non commerciale. Mi ricordo ancora la scena, vado alla EMI e loro: “maestro!”, mi portano una sedia e un caffè, io penso “che cazzo sta succedendo? è cambiato qualcosa?” e loro “siamo in classifica!” Capito, loro erano in classifica!
Haha, tipo “armiamoci e partite”.
Quei tipi oggi lì sono stati licenziati tutti. Gente che si arrabatta. Mentre io sono ancora qui a fare dischi, e ti mostro questo disco qua [di nuovo l’album di Schnitzler]. Me la vivo così. Comunque era prudente come domanda cattiva.
E si vede che non te lo meritavi!
Hahahaha ok.
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