Per chi non ci è nato, non ci è cresciuto e non ci è nemmeno mai vissuto, Napoli è una città indecifrabile. Solo Roma ci si avvicina: sotto i cliché e le narrazioni più banali, esiste ed è esistito un groviglio di storie non documentate, una quantità inverosimile di personaggi e vicende ai confini della mitologia. In parte figli di una cultura millenaria, in parte della reazione più radicale e contraria possibile a quella stessa storia. Sono vicende quasi impossibili da raccontare per intero.
Eppure, più lì che altrove ogni tanto i protagonisti di quelle stesse storie alzano la testa e decidono di volere ricominciare a condividere il loro vissuto, non tanto per nostalgia, quanto per capire finalmente in che parti umane della città è davvero passata la loro strada, e dove è andata a finire.
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Per chi non ci è nato, non ci è cresciuto e non ci è nemmeno mai vissuto, Napoli è una città indecifrabile.
Il clubbing partenopeo è una delle “narrazioni banali” di cui sopra. Senza nulla togliere, che a Napoli esista una tradizione house e techno con relativo e prosperoso popolo è una nozione abbastanza consolidata nella testa di tutti. C’è però una storia che non tutti, per i classici motivi storici e geografici, hanno potuto conoscere, e che, pur stando alle radici di quel movimento e avendone rappresentato un elemento fondativo imprescindibile, già all’epoca era roba diversa: United Tribes.
A Napoli, quella storia se la ricordano in tanti, ma la narrazione inizia a rarefarsi man mano che ci si allontana dai confini della città. Ma c’è un libro che la racconta, scritto in prima persona plurale da Ivan Maria Vele, uno dei protagonisti. Noi cerchiamo di fare da appetizer per quel racconto, e di leggerlo un po’ coi nostri occhi e un po’ coi loro.
Non si consideravano promoter, eppure facevano feste. All’inizio degli anni Novanta, ai ragazzi di United Tribes già non interessava riprodurre un modello di serata che, per quanto ancora agli albori, già gli sapeva di asfittico. Anziché utilizzare il divertimento notturno come sostituto dell’esperienza, gli interessava che l’energy flash elettronico fosse la scintilla con cui metterla in moto in maniera collettiva.
Folgorati tanto dal terrorismo poetico di Hakim Bey quanto da una visione arty-glamour che all’epoca si consumava sulle pagine di i-D, si sono lanciati in un’avventura toccata dallo stesso rapporto contraddittorio col tempo: il loro tentativo di rivoluzione consisteva nel provare a cancellarlo, eppure si consumava puntualmente nello spazio di una notte o di un weekend. La loro esperienza è durata solo un pugno di anni, eppure, a sentire come la raccontano oggi loro, sembra essersi posizionata fuori dalla storia, in un tempo del sogno leggendario e psichedelico.
All’inizio degli anni Novanta, ai ragazzi di United Tribes già non interessava riprodurre un modello di serata che, per quanto ancora agli albori, già gli sapeva di asfittico.
Oltre a Ivan—che era un po’ un accentratore multidisciplinare di idee ed energie, oltre che maestro di cerimonie delle loro feste—ho parlato con Danilo Capasso, che della crew era uno dei DJ resident, e con Giovanni Calemma, Francesco Maria Quarto e Lucio Luongo, tutti e quattro impegnatissimi sul fronte visuale, artistico, grafico. Sono solo cinque dei tantissimi personaggi coinvolti, senza avere necessariamente la pretesa di essere gli unici protagonisti, sono quantomeno quelli che hanno sentito l’urgenza di parlare.
Anche il modo che ha Ivan di iniziare il suo racconto, a dire il vero, è tutt’altro che temporalmente lineare: mi parla del 1986, prima che anche solo termini come house e techno entrassero nel vocabolario di chiunque, e di un concerto dei PIL di John Lydon, l’idolo della loro adolescenza post-punk che finalmente arriva a Napoli e sconvolge le loro giovanissime menti.
Poi fa immediatamente un flash forward di sette anni: nel 1993 John canta in “Open Up” dei Leftfield, l’ibrido di progressive house, techno e wave messo su dai DJ Neil Barnes con Paul Daley, che nel frattempo aveva cominciato a frequentare Napoli e United Tribes molto spesso. Questa chiusura del cerchio , per Ivan, è fondamentale per comprendere United Tribes: “Era questo che differenziava United Tribes dalle altre organizzazioni: noi eravamo orientati su un movimento dance che aveva intellettualizzato l’elemento punk irriverente.”
Nel frattempo, però le cose avevano subito un’evoluzione. Non era sempre stato semplicissimo riportare questa urgenza riottosa nell’edonismo house, e infatti la prima fase della crew, non ancora chiamata UT, è più soft e “integrata” nella moda garage house che all’epoca in tanti stavano consumando, attingendo un po’ da Chicago e un po’ da Londra. “Era solo la musica ad essere soft, noi eravamo tutt’altro che soft” mi dice Danilo Capasso e, visto quello che è successo dopo, non posso dargli torto.
“Noi eravamo orientati su un movimento dance che aveva intellettualizzato l’elemento punk irriverente.”
Qualcuno, come Ivan e Danilo e soprattutto Giovanni Calemma, stava già frequentando Londra nonché Ibiza. Giovanni addirittura c’era finito nel’88 cavalcando il ponte offerto da Happy Mondays e New Order, e trovandoci qualcosa che già all’epoca gli sembrava “l’unione di tutto: dal punk al goth, tutti andavano sotto un unico genere musicale, ha unito tutti i generi sotto un unico sound.”
Non solo: a frequentare questo tipo di feste, in Italia come a Manchester e a Berlino, sono già ragazzi di tutte le estrazioni sociali e politiche, le cui differenze si diluiscono nel groove ipnotico della musica e nell’empatia psichedelica offerta dall’LSD e dalla neo-arrivata MDMA. Ecco allora che, con una naturalezza, un entusiasmo e un’insistenza che oggi in troppi faticano a trovare, la truppa entra in contatto con loro DJ preferiti.
Ivan e i suoi soci dell’epoca, Susy Giotto e Florindo Libero Cesareo iniziano a portarli, uno dopo l’altro, tutti a Napoli: Frankie Knuckles, Dave Morales, Tony Humphries, Robert Owens. Tra gli Italiani in questa fase gli fa spesso visita Ralf, da una riviera già bella attiva e già avviata al successo commerciale, “uno che a Napoli scatenava il panico, che alle quattro di mattina metteva i Nirvana in pista.”
Soprattutto, sono già in moto dei resident di tutto rispetto: i JG Bros e, appunto, DJ Danylo (Capasso), che oggi fa soprattutto l’architetto e l’artista ma che all’epoca aveva un modo di suonare che Ivan definisce “funk-punk, all’incrocio tra Donna Summer e i Nitzer Ebb.” Lui invece lo spiega così: “Avevo sempre bisogno di un poco di energia e velocità, per cui i miei set erano sì house ma con il pitch costantemente a +8, per controbilanciare la relativa ‘mosceria’ della house cercavo un groove diverso”. Già, insomma, l’urgenza di radicalizzarsi sta ribollendo sul fondo.
Nel ’92 parte Ecchereccà, appuntamento annuale che scandirà perfettamente l’evoluzione del movimento. Dei veri e propri rave semi-legali in location assurde.
In questi primi anni (’91-’92), le feste si fanno soprattutto all’Hipe, un casermone sulla via Nazionale Appia che diventa il loro Paradise Garage, ma spesso anche altrove. Tra le varie cose, nel ’92 parte Ecchereccà (praticamente “WTF” in Napoletano), appuntamento annuale che scandirà perfettamente l’evoluzione del movimento. Dei veri e propri rave semi-legali—ai tempi il confine era praticamente impossibile da stabilire—in location assurde.
La prima delle tre la fanno in un una cava sul litorale amalfitano. “Un posto clamoroso”, sostiene Ivan “a un certo punto la gente arrivava con le barche. Musicalmente fu abbastanza normale, tecnicamente invece un delirio: il posto era incredibile, si arrivava dalla spiaggia e si scendeva in questa valle dove tutti, quando arrivavano, esclamavano ‘MA CHE RE ‘CCA???!!!!’, c’era una luce che illuminava dal basso la cava creava una scenografia incredibile.” Ecco quindi che allo stupore segue la voglia di ballare e stare insieme per tre giorni di fila: una roba che ancora, da quelle parti, non si era mai vista.
Ecchereccà II, invece, si tiene nel ’93 in un castello aragonese. “Oggi per prendere un posto del genere devi fare cinquantaduemila permessi… Non te lo daranno mai, ti mandano la polizia, i carabinieri, l’esercito…”. Il terzo e ultimo Ecchereccà, invece, arriva nel ’94 “prima del tempo, a Marzo. L’abbiamo realizzato come una specie di statement su quello che stava succedendo.” Ma non affrettiamo i tempi: tra il II e il III erano cambiate troppe cose, e dobbiamo provare a narrarle tutte.
C’era stato nel frattempo un momento di consapevolezza, era salita troppo forte la necessita di “dire un grosso no” a quello che stava succedendo attorno a loro, di trasformare le feste in un’azione sulla città e sulla contemporaneità, di passare un messaggio in forma non verbale ma attraverso un esempio di investimento libidinale.
Nasce United Tribes, una vera e propria famiglia allargata di ragazzi che vivevano tutti assieme in un appartamento di piazza Dante dedicandosi completamente alla loro passione.
Nasce United Tribes, una vera e propria famiglia allargata di ragazzi che vivevano tutti assieme in un appartamento di piazza Dante dedicandosi completamente alla loro passione, vivendo secondo uno spirito anarco-edonista sicuramente contraddittorio e complesso, ma soprattutto spontaneo e vitale.
Che il loro mondo non sia riuscito a dialogare con quello dei Centri Sociali dell’epoca è sicuramente un peccato. Altrove stava—tra mille difficoltà—succedendo: si pensi alla fattanza psichedelico-stradaiola e politicizzata dei rave romani o al coerentissimo lavoro controculturale che stavano facendo i milanesi di Shake con Decoder. La storia di Napoli è completamente diversa, più e meno radicale allo stesso tempo.
Se, infatti, da una parte mancava forse la volontà di mettere questo spirito in moto su un piano più politicamente produttivo, che trovasse davvero gli strumenti per una rivoluzione più duratura di una notte, dall’altra hanno fatto tutto in una maniera sicuramente più pura, inserendo in quelle azioni un rifiuto per i valori borghesi e per l’alienazione occidentale che non veniva da nessuna ideologia, bensì da un puro investimento libidinale. “I C.S. facevano le assemblee per organizzarsi, noi stavamo sempre in assemblea” scherza Francesco Quarto.
Come si diceva, nelle loro corde c’era tanto il fashion post-tutto alla Vivienne Westwood quanto l’idea hippie radicale di un caos immanente, estatico ed escatologico che passava sia per una forma di introspezione individuale che per una liberazione collettiva del desiderio. Tanto Terence McKenna, quanto, sostiene Francesco, Malcolm McLaren, ispiratore dell’approccio curatoriale neo-situazionista, pop e provocatorio che i ragazzi applicavano. Ne conseguì anche tanta vicinanza col mondo dell’arte contemporanea, caldeggiata dal loro “sponsor” e amico, il collezionista Ernesto Esposito, e praticata da personaggi che al tempo frequentavano Napoli come Andres Serrano e Nan Goldin.
“Il pensiero era completamente anarchico, rivolto verso una rivoluzione mentale, e chiaramente politico: potevi trovarti di fianco a persone distanti dalla tua condizione sociale come non mai.”
Spiega Lucio Luongo: “il pensiero era completamente anarchico, rivolto verso una rivoluzione mentale, e chiaramente politico: potevi trovarti di fianco a persone distanti dalla tua condizione sociale come non mai.” Questo senza che gli individui diventassero consumatori, mantenendoli invece protagonisti della notte, cosa che il clubbing di oggi ha completamente perso.
“Per noi importante era il rispetto dell’essere umano nei suoi variegati aspetti, compresa l’omosessualità, del voler vivere e vestire in maniera differente” continua Lucio con parole che ricordano proprio quelle di Hakim Bey in TAZ: “Vivere nel caos significa riuscire a esprimere se stessi all’interno di questo caos, siamo tutti figli di questo caos, siamo tutti figli di un frattale. Questa radicalizzazione punk non era voglia di affermare sé stessi, noi non parliamo mai del singolo, parliamo dello scambio che c’era. Questo era fondamentale, coltivare il proprio io e trovare la connessione con gli altri, perché è lì che succede qualcosa e nasce l’esperienza”.
“Per noi importante era il rispetto dell’essere umano nei suoi variegati aspetti, compresa l’omosessualità, del voler vivere e vestire in maniera differente.”
Uno dei modi più provocatori in cui questo caos è stato raffigurato dai ragazzi è senza dubbio il famigerato Angelo Con Svastica, flyer di una delle loro feste che raffigurava un ragazzo dei quartieri spagnoli, bellissimo e puro, con dipinte addosso delle simbologie che sono controverse solo ad occhi superficiali. Sempre Lucio: “È stato un momento di grossa rottura, ma il concetto era agli antipodi della politica, semplicemente una visione della svastica come vaso di pandora, come caos” appunto.
Le conseguenze pubbliche di un gesto del genere—più Throbbing Gristle/Psychic TV che Sex Pistols—le potete immaginare tutti: piovvero accuse di fascismo a cazzo di cane, mentre lo slogan di operazioni del genere era “Decontaminatio Ntu Pura Concept A”, nella strana lingua minore latino-partenopea che i ragazzi avevano inventato.
In quella stessa lingua, “no future” si dice “nada futurnia” ma, a differenza dei punk settantasettiani, la tribù dava al termine un significato quasi positivo. Come Grant Morrison, per intenderci: “in the future there will be no future”, non avere più bisogno del tempo e del suo svolgersi lineare, tutto è ora e per sempre. Ecco perché nel 1994, dal microfono della consolle, Ivan inizia a urlare al suo pubblico “LET’S PROGRESS”. Nada Futurnia era anche il titolo di una delle prime feste della nuova crew, oramai ribattezzata definitivamente United Tribes e orientata verso le stelle.
Il cosmo stava però sottoterra, nello storico club underground Diamond Dogs, in cui si tiene la festa che ospita—eccolo qua—Paul Daley. Dalla garage siamo passati alla progressive house e all’acid techno, è uscita roba come Dubnobasswithmyheadman degli Underworld, il secondo Selected Ambient Works di Aphex Twin e Musik di Plastikman. Meno funk, meno soul, tanta più psichedelia e più durezza sonora. Arrivano anche nuovi resident, come i brillanti 3 Imaginary Boys (Roberto Biccari, Daniele Vigorito, Marcello Simeone). A questo punto, in città, di clubbing con uno spirito vagamente simile ci sono solo gli after di Space Race.
Napoli inizia a contribuire alla creazione di una nuova carne collettiva—un’offensiva che, però, in Italia sta per fallire in maniera uguale e diversa a quella britannica.
A questo punto c’è anche spazio per un ritorno alle vere origini e per un riavvicinamento a personaggi chiave della Napoli elettronica, come Lino Monaco di QMen e Retina.it, che da piccoli i ragazzi chiamavano (per ovvi motivi di look e interessi musicali) “Skinny Puppy” e che era stato uno dei primi a portare in città groove elettronici post-industriali EBM e New Beat, da Belgio e Germania. Lino prende parte a un paio di feste tra cui Skin 2, party estremo a tema fetish-industrial tenuto in un gay club del centro e strutturato esteticamente da Giovanni Calemma.
Se prima di UT le loro feste si stavano quasi trasformando in eventi di massa, ora a seguirli sono ancora in tantissimi, ma decisamente più consapevoli e convinti. In confronto a prima, il tempo sembra scorrere ANCORA più velocemente, in neanche un anno di vita si lascia un segno spirituale indelebile. A tenere viva questa eterotopia è ovviamente la musica, ma anche le performance videoartistiche che Lucio, Francesco e Giovanni realizzano anche nel bel mezzo delle serate. Oltre al già citato Angelo Con Svastica, si cercava sempre, secondo Francesco, di “partire con una storia che iniziava dal flyer e proseguiva nella serata.”
Passano in città anche Darren Emerson degli Underworld e altri. Napoli inizia a contribuire alla creazione di una nuova carne collettiva—un’offensiva che, però, in Italia sta per fallire in maniera uguale e diversa a quella britannica. Loro hanno avuto il Criminal Justice Act, la legge fascistissima pensata per strozzare raver e traveller in una morsa autoritaria, la fine di United Tribes coincide, neanche troppo casualmente, con la nascita del Videodrome italiano, l’inizio del ventennio berlusconiano. Una forma di potere mediatico a cui i nostri non avrebbero potuto sentirsi più lontani: nella casa di piazza Dante “La televisione ce l’avevamo, ma ci avevamo disegnato la croce degli Psychic TV sullo schermo. Per due anni non l’abbiamo mai accesa.” racconta Ivan.
Ecchereccà III è già la fine di un’era: The End Of The Industrial Age. United Tribes consacra e maledice allo stesso tempo l’arrivo del post-fordismo in italia, e lo fa in una warehouse nei pressi di Avellino, con tremila partecipanti e una line-up contaminatissima: Zion Train, Almamegretta e l’ormai di casa Paul Daley. L’intento è quello di riaffermare la posizione di confine di Napoli nei confronti della fortezza Europa, di catalizzatore di un numero sterminato di influenze culturali e climatologie completamente differenti. Tra gli squat di Portobello e le strade di Napoli non c’era distanza, almeno finché la scena elettronica non è diventata “più WASP” come dice Danilo.
Gli Almamegretta, che già frequentavano Bristol e i Massive Attack, fanno un set speciale per l’occasione, più sperimentale del solito. Gli Zion Train, anche loro fieramente bastardi e mutanti sono alla prima volta in Italia. La festa è così: resistenza dub digitale mista a toni da fine della storia, a un tempo l’inizio di un futuro antico e la rimozione totale della sua possibilità di manifestarsi. L’energia raggiunge il suo apice e poi si disperde. L’intensità è stata altissima e non poteva reggere ancora a lungo e, oltre a questo, i ragazzi rifiutano di volersi confrontare con una serie di dinamiche tipiche della loro città che fino a quel punto erano riusciti a evitare, ma che ora rischiano di colpirli.
L’ultima festa “ufficiale” è il 26 marzo 1994, tre giorni dopo la vittoria delle elezioni da parte di Forza Italia: la polizia la interrompe alle tre di notte e sequestra tutto, anche i dischi. Ci riprovano a novembre, quando la tribù si è ormai sciolta, c’è Darren Emerson in consolle e l’impianto non ce la fa, salta diverse volte prima di spaccarsi definitivamente. Un’ora e mezza di serata, brevissima. Tutto finito. Molti di loro se ne sono già andati, chi a Londra chi a Berlino, chi per tornare e chi no. Quasi tutti loro oggi lavorano o hanno lavorato a stretto contatto col mondo dell’arte contemporanea.
L’ultima festa “ufficiale” è il 26 marzo 1994, tre giorni dopo la vittoria delle elezioni da parte di Forza Italia: la polizia la interrompe alle tre di notte e sequestra tutto, anche i dischi.
Per loro l’esperienza United Tribes è stata la base di tutta una vita e di un percorso che gli ha permesso diventare esattamente quello che sarebbero voluti diventare, coi relativi mutamenti di orizzonte portati dall’età e dagli eventi. Che poi abbiano usato più o meno bene questa opportunità, non sono affari nostri, o almeno non una questione da analizzare in questa sede. Nelle loro voci non ho sentito rimpianto, gli anni hanno sicuramente donato loro una saggezza e una capacità di trarre, a livello personale, da quei fatti solo gli elementi nutrienti.
Del resto non starebbe assolutamente a loro il compito di proseguire quel discorso, no? Strappare di nuovo la musica dance elettronica al consumo, ripensare la TAZ e ricostruire un’offensiva di questo tipo parrebbe fantascienza pura. Eppure c’è un’assenza che brucia dentro troppi di noi, stufi della passività di un clubbing ripetitivo e vuoto, e disillusi dal fattificio dei pochi rave illegali rimasti. Eppure nuove tribù possono ancora nascere, e se volete sapere come, qui c’è un esempio: incoerente e contraddittorio quanto vi pare, ma pur sempre un esempio di qualcuno che sulla possibilità di andare oltre la musica aveva investito davvero tutto.
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