Ensi viene dalla scuola di mezzo

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Musica

Ensi viene dalla scuola di mezzo

Troppo giovane per le posse, troppo hip hop per la trap: nel nuovo album V, Ensi abbraccia tutto lo spettro del rap.
Giacomo Stefanini
Milan, IT

Avevo appena finito di scrivere il mio articolo in cui ammetto candidamente di non capire un cazzo di rap italiano quando i miei colleghi mi hanno detto: "se vuoi capirci qualcosa di più [io facevo di no con la testa] dovresti intervistare Ensi, perché nessuno in Italia è in grado di comunicarti entusiasmo per il rap come lui". È stato provvidenziale, quindi, il fatto che Ensi abbia pubblicato venerdì scorso il suo quinto album, V, definito dal suo stesso autore il migliore e il più maturo della sua carriera. Così ho detto ok, ci sto. In fondo anche Cristoforo Colombo si è messo in viaggio verso l'ignoto, se mi va bene magari scopro l'America.

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La V del titolo richiama contemporaneamente il titolo del primo disco del rapper piemontese, Vendetta, e il nome di suo figlio appena nato, Vincent, come a creare un ponte tra passato e futuro. Se non fosse così appassionato, verrebbe da dire che Ensi è un vero professionista. V è un disco equilibratissimo, tra gli schiaffoni anni Novanta di "Boom Bye Bye" e le atmosfere fumose tendenti alla trap di "Mezcal", made in Low Kidd, "Mamma diceva" o "Noi". Anche dal punto di vista tematico il disco viaggia nel tempo dall'adolescenza passata ad ascoltare Illmatic fino alla lettera al figlio dell'ultima traccia. Nel mezzo, ci sono le considerazioni sul rap (con qualche stoccata diretta alla nuova scuola), le storie di vita, le riflessioni personali e c'è anche spazio per la leggerezza di "Sugar Mama" e "4:20".

Dopo vari ascolti e varie letture sull'argomento, di curiosità ne avevo diverse. Così ho telefonato a Ensi e ci siamo fatti due chiacchiere sullo stato del rap in Italia e sul processo che ha portato alla nascita di V.

Noisey: Ciao Ensi, mi fa piacere che la mia prima intervista rap sia con te; perché non sei solo uno che fa rap, ma sei anche uno che lo studia e lo conosce profondamente. Magari puoi insegnarmi qualcosa.
Ensi: Sì, è sempre stata la mia passione. Arrivo da anni in cui sta musica era un po' più dedicata a quelli che avevano davvero la passione di sta roba. Questo nonostante la mia età anagrafica, perché non sono proprio parte della vecchia scuola, semmai della mid-school; però noi ci siamo andati a cercare un po' le cose, quindi per forza sono un po' un cultore di 'sta cosa.

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A volte la conoscenza storica troppo approfondita può essere anche un ostacolo per gli artisti. In cosa pensi che ti abbia aiutato e in cosa ostacolato?
Dal punto di vista musicale, secondo me, è stato un vantaggio, e forse la mia discografia un po' lo conferma. Ho sempre capito bene le evoluzioni di questa musica e, nonostante come imprinting sia legato a un'altra generazione, riesco a trovare un sacco di cose fichissime nelle robe nuove che escono. Quindi sicuramente il fatto di essere molto attento a quello che succede nel mondo di questa musica fa sì che mi lasci contaminare anche dalle cose più nuove senza perdere il nucleo tradizionale che mi ha sempre contraddistinto. Ma che tu faccia roba vecchio stile o nuovo, secondo me conoscere il rap è importante. Anche perché oggi, per noi, è entrato di diritto nel tessuto sociale, ma si tratta pur sempre di una cultura che abbiamo importato e che, in Italia, quelli prima di noi se la sono inventata. Come in tutte le cose, la conoscenza serve come base per capire l'evoluzione—non che sia fondamentale, eh. Capisco che un ragazzo giovane che oggi si appassiona alla musica rap si avvicina principalmente a quella italiana, che per l'immediatezza dei testi può capire subito e quindi sentirsi parte di questa cosa pur non conoscendo la storia. Può essere un limite, ma d'altra parte cambia da persona a persona.

Tra i miei colleghi io sono uno di quelli che ha sempre cercato d'informarsi, di stare al passo e di scavare anche nel passato, e per questo devo molto a tante persone che ho incontrato lungo la mia strada, che mi hanno trasmesso l'amore per i dischi, per andare a cercare le cose. Una cosa importante da sapere è che questa musica è molto ciclica, nel senso che ci sono degli elementi che ritornano a certi intervalli, in base alle correnti che si susseguono; mi piace sempre citare Ice T in The Art Of Rap: "Il rap non ha inventato niente, ma ha reinventato tutto". Quindi di correnti ce ne sono tante, solo che quando arrivano, soprattutto in questo paese, prendono il dominio: penso a quella che tutti chiamano trap, che è il genere che va per la maggiore. A me non piace mai parlare di trap come se fosse qualcosa di diverso dal rap: è un'evoluzione di quello che è successo negli anni. Per fortuna c'è anche un bel ritorno dei breakbeat; ascolto, per esempio, il disco di Jay Z o altri dischi di gente storica in cui ritrovo gli spunti del passato.

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Parlando di V, lo hai presentato come un album che è un compendio di tutta la tua vita, il culmine di una scalata. Quanto passato c'è in questo disco, e quanto presente? Qualcuno si sarebbe aspettato almeno un featuring dei OneMic
V richiama il mio primo disco, Vendetta, perché c'erano dei concetti che ritornavano. Sono tornato a parlare molto di me, del mio passato sia dal punto di vista musicale che umano. Quindi il passato c'è più come analisi che come sound o come tematica del ricordo. C'è una voglia di rimarcare, sottolineare e a modo mio raccontare i dieci anni di percorso che ho fatto. Penso a "Ribelli senza causa", una traccia che parla principalmente della mia adolescenza; a pezzi come "Mamma diceva", in cui parlo di quello che mi è successo a livello personale durante questo percorso.

Per quanto riguarda i OneMic, ci sono varie ragioni per cui non sono presenti. Noi abbiamo rappresentato qualcosa di importante soprattutto per la nostra città, ma anche per il rap italiano, soprattutto in quegli anni molto confusi in cui non c'era tutto questo spazio. Eravamo un po' i newcomer della scena e ci toccava spesso aprire i concerti di quelli più grandi di noi, parlo di Club Dogo, Cor Veleno… abbiamo fatto la gavetta vera per anni. Le strade si sono divise, musicalmente ci siamo allontanati, quindi non sarebbe stato semplice riproporre una traccia OneMic; questo non vuol dire che nel futuro non possa succedere qualcosa. Mio fratello, che in questi anni ha avuto una parabola più pop, ha comunque scritto il ritornello di "Noi", un pezzo a cui sono molto legato, quindi in qualche modo lui c'è.

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Dal punto di vista delle cose più moderne credo che, in generale, anche i pezzi un po' più classici, come ad esempio "Boom Bye Bye" prodotto da Phrà dei Crookers, siano reinterpretati in modo più 2.0; credo che il sound sia molto attuale, per quanto classico. Perché bisogna distinguere classico da antico: classico significa "senza tempo", non "vecchio". La mia ricerca nel campo del flow e delle melodie è stata molto influenzata dal rap degli ultimi anni.

Il tuo stile e i tuoi testi hanno una componente di maturità che non è scontato trovare nel resto del rap italiano. Chi ti ha ispirato in questo senso? Come reagisce il tuo pubblico?
Guarda, io sono cresciuto come rapper nel momento della "grande depressione" del rap italiano, quegli anni tra la golden age di fine anni Novanta e il momento in cui Fabri ha rimesso in moto tutto, anche a livello discografico, con Tradimento, diciamo il periodo tra 99/2000/2001 e 2004/2005. Quindi il rap italiano che mi ha condizionato è stato quello più underground, che in quegli anni aveva una forma e un contenuto diversi, più forti, perché ci identificavamo nella scena. I testi che mi hanno condizionato, a livello tecnico ma anche stilistico, sono quelli dei Dogo, Kaos, Sottotono, OTR, tutti questi rapper italiani che mi hanno insegnato e trasmesso l'amore per le liriche, per la forma, ma soprattutto che erano in grado di parlarmi in maniera diretta e di farmi ragionare su delle cose. Io ero giovane e interpretavo tutto a modo mio, però mi sono sempre sentito parte di questa cosa.

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Da quando è uscito questo disco ho trovato nel mio pubblico anche tanti ragazzi più giovani: magari seguono questa nuova scena, che ha portato delle evoluzioni molto fighe, ma che magari dal punto di vista dei contenuti è un po' più povera rispetto a quello che faccio io e alla mia visione. Non ho la presunzione che questo sia un disco da adulti, però io compirò 32 anni a dicembre, quindi di fare un disco in cui gioco a fare il ventenne non mi sembrava affatto il caso. Ci sono delle cose della musica più nuova che ho sposato, soprattutto a livello musicale, a livello di flow, di come sto sul tempo; ma poi c'è il mio modo di scrivere, che è sempre molto carnale, molto viscerale e molto motivato dalle esperienze personali che mi va di raccontare. Credo che la maturità da questo punto di vista si veda soprattutto nel fatto che, parlando di cose molto personali, sono riuscito a fare delle canzoni nel vero senso della parola, e questa forse è la cosa che m'intriga di questo genere. Oggi l'asticella è molto alta, stilisticamente, però credo che questo disco, da questo punto di vista, faccia la differenza.

Quello che mi aspetto dai fan… Beh, poi alla fine il disco è nostro fino a quando non esce, poi diventa di tutti, sono loro a scegliere che cosa prendere. La maggior parte dei messaggi che sto ricevendo vanno proprio in questa direzione, mi dicono: "Era da tempo che non ascoltavo un disco così pieno di contenuti, così capace di dirmi delle cose in cui mi riconosco". Credo che questa sia la mia sfida, voglio dire: non accontentarmi del trend del momento, magari legato molto a cose più frivole. Io non sono di quelli petulanti che pretendono che questa musica salvi il mondo ogni volta, però la sofferenza che mi ha motivato a scrivere il rap è sempre stata legata a una forte carica emotiva personale, quindi non potrei limitarmi a raccontare delle cose per il mero gusto di fare canzoni divertenti. Cerco un po' di unire le cose, infatti nel disco ci sono cose più di contenuto, più personali, e anche momenti un po' più leggeri, mirati all'intrattenimento, che comunque è un aspetto del rap che non va sottovalutato.

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Parlando dei tuoi testi, in un'intervista hai detto di sentirti sempre un po' sotto pressione a causa della tua bravura nei freestyle, nel senso che il pubblico si aspetta sempre molto dalle tue canzoni perché sa che sei in grado di improvvisare una punchline perfetta in ogni momento. Ti alleni ancora nel freestyle? Partecipi a qualche battle, anche solo per divertimento?
Perdonami il gergo calcistico, ma io nel freestyle ho fatto il triplete: ho vinto Tecniche Perfette, 2TheBeat e MTV Spit, cosa che nessun altro potrà mai più fare. Quindi, insomma, non sono più stimolato da questo punto di vista, non ho bisogno di mettermi in gioco. Anche quando andai a Spit nel 2012 la vidi come un'opportunità per un passaggio di testimone, poi questo non è avvenuto e io ne sono comunque contento, perché mi sono impegnato, sul freestyle sono sempre stato molto competitivo, in maniera sana ma comunque sportiva, quasi agonistica. E ovviamente il freestyle è la disciplina che mi ha reso celebre, quindi non posso sputare nel piatto in cui ho mangiato e soprattutto, fortunatamente, ancora mi piace farlo dal vivo. Spesso nei miei concerti mi lascio andare in qualche session di freestyle, ma lo vedo più come un assolo jazz: un momento estemporaneo, unico e irripetibile.

Il freestyle per me è stata sempre anche una spada di Damocle: da un lato mi ha reso popolare e ha fatto sì che la gente, di conseguenza, si appassionasse alle mie canzoni; dall'altro il confronto è immediato tra quello che scrivo e quello che improvviso, perché si tratta fondamentalmente della stessa cosa quindi il paragone viene naturale. Però l'aspettativa è sempre stata molto alta. A me dispiace, perché mi sono sempre reputato migliore come liricista che come freestyler, però è un'etichetta che non mi posso scollare. Credo che questo disco, ma anche i miei lavori precedenti, abbiano fatto da traghetto verso una nuova versione della mia musica, che oggi va nella direzione della scrittura e delle belle canzoni con il mio stile. C'è sempre questo spettro del freestyle per cui la gente mi dice "mi piaci in freestyle, mi piaci di meno nei testi", ma con questo disco credo di aver ribaltato questo pregiudizio. Mi piacerebbe che la gente si avvicinasse a questa musica e questi testi senza dire "Ensi non lo ascolto perché è solamente un ottimo freestyler". Mi piace pensare che in futuro la gente possa vedermi anche e soprattutto come un buon liricista, cosa che sta già succedendo e spero che continui sempre di più.

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Quando hai iniziato a scrivere questo album ti sei posto l'obiettivo di sfornare una hit, di quelle con il ritornello giusto? E se sì, com'è andata secondo te? Hai mantenuto il proposito o il disco si è trasformato mentre lo registravi?
Onestamente io ho cercato solo di fare della musica che mi piacesse, credo che sia anche la cosa che il pubblico apprezza di più. Questa idea dell'industria discografica che t'impone per forza il ritornello orecchiabile, il singolo per attirare le masse e creare i meme su Instagram mi sembra piuttosto anacronistica; oggi questo tipo d'imposizioni non ci sono più—ma è un problema che forse io non mi sono mai posto. Esistono tantissime belle canzoni che hanno avuto un grande successo, ma anche tantissime canzoni brutte che hanno avuto un grande successo.

Per questo disco ho fatto veramente solo quello che volevo fare senza pormi nessun limite e nessuna paranoia; come ti dicevo all'inizio, cerco di fare delle canzoni, anche quando parlo di cose molto personali. Il fatto di renderle musicali e dirette senza scendere a compromessi per quanto riguarda l'equilibrio tra forma e contenuto è stata la mia sfida, e credo di averla superata. Come dico in "Mezcal": "c'è il dito inquisitore e tu zitto", cioè tu puoi fare quello che vuoi ma poi la musica è sottoposta al giudizio degli altri. Quello che mi sta tornando è proprio questo: la gente capisce che non sono sceso a nessun compromesso, ho fatto la mia musica. Poi se c'è qualcosa che può funzionare anche a livello nazional popolare, e credo di sì, ben venga. Voglio dire, in questo disco ci sono anche pezzi super leggeri come "Sugar Mama" che parla di MILF, non è che stia salvando il pianeta. Se volessi parlare solo dei miei pensieri e dei miei casini aprirei un blog o scriverei un libro. Un disco va fatto con equilibrio, perché alla fine è quello che ti serve per andare in giro a suonare. L'unico mio obiettivo è fare delle belle canzoni. Poi se diventeranno le suonerie di tutti i ragazzini, o di tutte le MILF [ride], questo non sta a me deciderlo.

A questo proposito mi viene in mente "In Volo", la prima canzone in cui canti dall'inizio alla fine senza mai rappare. Com'è stato registrarla? Avevi paura di come sarebbe stata recepita?
Sia chiaro che non ho nessuna velleità da cantante. Non è un pezzo che è stato fatto per traghettare i fan e metterli in guardia rispetto a un prossimo cambio di stile. Mi sono semplicemente fatto guidare dall'energia della produzione, con questo giro di piano molto emozionante, sospeso. Ho immediatamente pensato al desiderio di voler staccare il contatto col pianeta, ma anche a riflettere profondamente su alcune cose. All'inizio, quando ho pensato a queste melodie, pensavo a un ritornello per un pezzo più canonico, con le strofe rap. Poi, in modo naturale, sono venute fuori anche le strofe. Quando l'ho riascoltato mi ha fatto un bell'effetto e mi sono detto che forse non c'era bisogno di "sporcarlo" con il rap, che mi rappresentava già così. Devo dirti che mi aspettavo che qualcuno storcesse il naso, ma credo che tutti si siano fatti questo viaggio con me.

E poi in questo album non ho lasciato niente al caso, quindi anche la tracklist è fatta in modo da guidarti in un viaggio. In una traccia dico "quando ti firmo il disco è come un timbro sopra il passaporto", ed è proprio questo. Questo pezzo si piazza prima della tripletta finale, "Mamma diceva", "Noi" e "Vincent", sicuramente i pezzi più emozionali e personali dell'album. Mi piaceva l'idea di mettere questo brano dopo due pezzi spensierati come "Sugar Mama" e "4:20", perché parla di staccare la spina usando la metafora del telefono in modalità "in volo", come dire "nun me cacà er cazzo". Nel ritornello dico proprio questo: "i problemi mi aspetteranno", quindi posso staccare il telefono, prendermi un po' di tempo per me, e gli scleri, le paranoie, i problemi, i pensieri, gli impegni reali resteranno lì; non puoi permetterti di farlo sempre, però come dice il ritornello "oggi no", oggi non voglio rendere conto a nessuno. E volevo rappresentare musicalmente proprio questa cosa qua.

Tu, come tanti altri della tua generazione, vieni dall'underground ed è anche grazie al tuo lavoro che il rap ha raggiunto il mainstream. Oggi che il rap è il genere musicale più diffuso in Italia, è strano vedere un panorama mainstream abitato in gran parte da gente che viene da una vera e propria scena. Secondo te la scena esiste ancora, anche quando si parla di gente del livello di Gué o Marra, in tutto e per tutto ormai pop star?
Questa secondo me è proprio la forza del nostro genere e della rivoluzione che ha portato. Per dire, registi che hanno sempre lavorato nell'ambiente hip hop ora fanno i video per i big della musica italiana. Abbiamo portato un po' di rivoluzione in ogni settore della musica. Pensa all'autopromozione, quei meccanismi che noi stessi abbiamo inventato. Prendiamo Ghali, ad esempio, un ragazzo molto giovane che si è fatto largo sotto ogni punto di vista e che oggi ha un successo nazional popolare importante: lui si è fatto da solo e si gestisce da solo. Questo è molto hip hop. Il fatto di gestire le proprie cose direttamente comunica un'energia che la gente sente, e che gli altri generi musicali forse invidiano. Noi siamo l'unico baluardo che può farsi largo senza per forza piegarsi a delle dinamiche che ci snaturino; noi facciamo ancora una gavetta, anche se i più giovani rispetto alla mia generazione la fanno diversamente. In questo caso il web è molto democratico, se qualcosa raccoglie consensi, al di là del valore che posso attribuirvi a livello personale, i risultati si vedono subito.

Sarebbe una bestemmia dire che la scena non esiste; esiste eccome, ed esiste anche tutto quel movimento che sta più nell'ombra ma che si muove benissimo con le proprie gambe. Penso anche a grandi pionieri del passato che oggi raccolgono molto di più rispetto a quando avevano l'età "giusta", come i Colle Der Fomento e Kaos, leggende del rap italiano che oggi hanno ancora più successo di dieci anni fa. Quindi questo significa che se il movimento cresce di per sé, poi ognuno ha la possibilità di scegliere la propria direzione. Sia chiaro che io tengo felicemente un piede in un mondo, quello dei brand, della visibilità mainstream, e uno nell'altro. Guarda Salmo: fa i dischi di platino come Emma Marrone, però i suoi singoli non sono in heavy rotation sulle radio, non va ai talent show, non lo vedi in TV al varietà del sabato sera. Quello che voglio dire è che possiamo parlare di una scena davvero variegata, che va dall'underground più spinto, volutamente underground, a della roba di respiro più nazional popolare che però non intacca la qualità della musica. Secondo me è davvero un buon momento per questo genere.

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