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Perché l’Antropocene è un concetto problematico

Quei rari momenti della vita in cui pensi che le cose siano semplici vengono sempre smontati alla prima occasione utile. In questo caso l’occasione è stato il Festival Interregno, una serie di incontri a tema tecnologia, arte e politica che si sono tenuti a fine ottobre all’Atelier Autogestito ESC di Roma, organizzati in collaborazione con NERO Magazine. Tra i temi affrontati nei panel del festival, relativi alla problematica prospettiva di dover fronteggiare in un modo o nell’altro il futuro, c’era quello dell’Antropocene.

Il concetto a cui fa capo è apparentemente molto semplice: ci sono gli uomini, c’è la Terra, gli uomini stanno distruggendo la Terra ed è iniziata una nuova fase geologica all’insegna di un costante stupro della Terra da parte degli uomini. Il punto è che non è propriamente così. Cioè sì, ma questa è una visione semplicistica, che non tiene conto del tipo di anthropos a cui la dicitura si riferisce, e del fatto che la colpa di questo schifo terrestre non è dell’uomo in quanto specie ma di un tipo specifico di uomo: quello che non ha rispetto della natura e la cui economia gira intorno alla produzione sistematica di sostanze tossiche.

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Per quanto sia utile individuare una situazione ambientale che oggettivamente ci sta sfuggendo di mano — il termine Antropocene, di per sé, è molto efficace per generare il panico — è necessario valutarne tutti gli aspetti. Ho contattato la ricercatrice Miriam Tola della Northeastern University di Boston, che aveva parlato di questo argomento in un panel di Interregno, per chiederle i dettagli del suo modo capovolto di pensare un’idea che sembrava collocata nettamente dalla parte del giusto, e invece no.

Motherboard: Che visione dell’uomo si nasconde nel concetto di Antropocene?
Miriam Tola: Il termine Antropocene è nato in ambito scientifico per indicare una nuova epoca geologica segnata dall’impatto della specie umana sul pianeta. Nel corso dell’ultimo decennio è stato ripreso in altri contesti, dall’accademia all’attivismo, passando per l’arte e la finanza. L’Antropocene è segnata da un paradosso: vede l’anthropos, ovvero la specie umana, come causa e insieme rimedio della crisi ecologica, agente catastrofico e forza salvifica. Si tratta di un concetto problematico perché si concentra sulla generalità della specie umana ma non dà conto del fatto che non tutti gli esseri umani sono responsabili allo stesso modo della devastazione ambientale.

E proprio per questo si tratta di un concetto con una forte rilevanza politica.
Sì, quello di Antropocene è un concetto politico da molti punti di vista. Intanto perché implica il superamento della tradizionale distinzione tra scienza e politica, ovvero dell’idea, tipica della modernità, che chi fa scienza non ha si immischia nella politica. I geologi e climatologi che parlano di Antropocene pongono invece un problema politico: come si vive in un pianeta sempre più instabile e in rapida evoluzione? Alcuni, come ricorda Naomi Klein nel suo recente libro su capitalismo e cambiamento climatico, propongono la geoingegneria come modo per stabilizzare il clima. Si tratta di una scommessa pericolosa, basata sull’illusione tipica della modernità occidentale che la specie umana può controllare i processi naturali.

Come spiegheresti la necessità di avere una prospettiva critica a riguardo, a chi è più scettico nei confronti della tua analisi?
La necessità deriva dal fatto che la narrazione dominante dell’Antropocene guarda all’homo sapiens come agente principale della profonda trasformazione ambientale in corso. Tuttavia, tale narrazione oscura le relazioni di potere economico e sociale, inclusi sessismo e razzismo, che hanno creato stratificazioni profonde sia tra gli esseri umani stessi che nella loro interazione con altre forme di vita. La devastazione del pianeta non è frutto dell’azione umana, è frutto piuttosto delle relazioni di estrazione e sfruttamento che sono al cuore dell’intreccio storico tra colonialismo e capitalismo.

Come potrebbe essere sostituito o migliorato, secondo te?
Non credo che il concetto di Antropocene vada sostituito, è un termine problematico che in quanto tale apre opportunità di discussione. Va interrogato, tenuto aperto, mettendone in luce limiti e tensioni. Poi certo, è importante inventare altri concetti che diano conto delle forme di vita capaci di emergere dentro e contro le relazioni di potere che hanno creato questo fenomeno. In questo senso i movimenti sociali hanno molto da esprimere.

Nel tuo panel parlavi delle proteste di Standing Rock contro la costruzione degli oleodotti in territorio Sioux come un esempio virtuoso. Quanto è grande la loro portata, contestualizzata in questo discorso?
Standing Rock è stato un esempio straordinario di movimento sociale, capace di articolare ecologia politica e critica dell’economia politica, istanze ecologiste e anti-capitaliste. È importante in almeno due sensi. Primo, ha mostrato la forza dell’alleanza tra gruppi disparati, dagli ambientalisti ai veterani di guerra, dagli scienziati a quei gruppi indigeni che una certa storia americana vorrebbe consegnare al passato e al folklore. Secondo, a Standing Rock la difesa indigena di un territorio vissuto come terra-corpo piuttosto che come risorsa da appropriare, si è connessa alle lotte al livello delle infrastrutture e delle reti logistiche che organizzano la circolazione di materie prime, merci e persone. L’arroganza di Trump ha indebolito il movimento, ma non ne ha vanificato gli sforzi.

Nella tua carriera ti sei occupata anche di fantascienza, un genere letterario e cinematografico spesso (se non sempre) intrecciato con discorsi politici e ambientali. Immaginare un futuro ecologico può contribuire alla sua realizzazione?
Cinema e letteratura hanno un ruolo importante nella creazione e trasformazione dell’immaginario collettivo. La fantascienza offre visioni potenti del future possibile. Penso al lavoro di Ursula Le Guin ma anche alla “climate fiction” di Kim Stanley Robinson. Il suo ultimo romanzo, uscito negli Stati Uniti col titolo New York 2140, immagina una metropoli semi-sommersa e divisa. L’estremo nord di Manhattan, ancora terra ferma, è occupato dalle élite mentre downtown New York è zona di rovine e povertà ma anche intensa sperimentazione sociale ed ecologica. In questo romanzo il cambiamento climatico non segna la fine della storia ma l’inizio di un progetto politico che Robinson chiama “the comedy of the commons” (la commedia del comune). Che cosa significa inventare la vita in comune nell’epoca dell’Antropocene? Ecco, a partire questa domanda è possibile ripensare l’Antropocene.

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