Música

A Beaches Brew puoi buttare in mare la tua band preferita

Tutte le fotografie, a parte quella di copertina, sono di Francesca Sara Cauli per gentile concessione di Beaches Brew.

Sono le tre e mezza di notte di giovedì e qualcuno ha appena staccato la corrente a John Fitzgerald aka DJ Fitz, un tipo che si presenta con le parole “DJ Fitz, bringing Heavy Jams from all around the world to your town!” e mette musica tutta carica piena di cose disco, chitarrine e tradizione africana. L’ho conosciuto totalmente a caso un paio d’ore prima al bancone del bar. Eravamo accalcati un po’ a caso e abbiamo cominciato a parlare a caso di come italiani e irlandesi schifino in egual misura le code, fanculo gli inglesi e le cose organizzate, amirite, quando lui mi ha detto che era il DJ che avrebbe suonato dopo e che aveva suonato la sera prima. Non è stato un momento di quelli che ommioddioaiuto, ma è utile per dare a chi non è mai stato all’Hana-Bi di Marina di Ravenna quali sono le situazioni che crea—Steve Albini in spiaggia alle tre del pomeriggio, i Thee Oh Sees seduti su una duna che guardano i Gomma, Stu dei King Gizzard che si fa buttare in mare alla fine del concerto della sua band. Cose così.

Ecco: i King Gizzard & The Lizard Wizard hanno appena cominciato il medley che chiude il loro concerto, costruito attorno a “Am I in Heaven?,” quando il loro frontman Stu dice in un italiano scaccionissimo che vuole farsi buttare “into the ocean,” e mi fa pensare a quanto sia figo che per gli australiani il mare non sia il mare ma l’oceano. Il pubblico esegue con gioia e porta Stu fino al bagnasciuga, dove lo lascia cadere nell’Adriatico. Segue ritorno sul palco, sempre in crowdsurfing, e fine del pezzo e dello show con Stu che suona in costume da bagno. Qua un video dell’accaduto. Era la prima volta che i King Gizzard venivano in Italia, e aver creato una situazione simile non fa che aumentare la potenza del loro palesarsi, finalmente, anche da noi. Credo che siano un caso unico nella musica chitarristica contemporanea, una bestia di fotta e precisione capace di buttare fuori, al momento in cui scrivo, dieci album in sette anni. Sono tutte opere che partono dal loro essere una jam band di multistrumentisti di cristo, capace di reinventarsi di disco in disco tessendo fili rossi che tengono unita tutta la loro discografia.

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King Gizzard & The Lizard Wizard. Foto di Francesca Sara Cauli, per gentile concessione di Beaches Brew.

I pezzi dei King Gizzard cominciano e si interrompono restando all’interno di un continuum sia sonoro che tematico. I’m in Your Mind Fuzz, disco del loro scoppio mediatico e di pubblico, si è infatti rivelato essere parte di un concept che comprende anche Nonagon Infinity e il nuovo Murder of the Universe su cui i loro fan si stanno scervellando da settimane. È una storia che c’entra con degli enormi robot cattivi, Satana, cose fantascientifiche e la fine del mondo, seppellito da un’enorme ondata di vomito—un Gizzverse vivido e in continua evoluzione, generatore di una fandom di quelle per cui Henry Jenkins sarebbe uscito scemo mentre scriveva Textual Poachers. Tutto questo sarebbe un simpatico caso di Enjoy the Story, Skip the Game se non fosse per la cazzimma esecutiva e compositiva del gruppo: quando suonano, i King Gizzard tirano fuori pelli di daino sonore e le strusciano sulle orecchie di chi hanno di fronte; pestano come treni per minuti e minuti per poi interrompersi in momenti proto-stoner che farebbero piangere di gioia Tony Iommi; assolano e salmodiano in lunghe esplorazioni psych composte su strumenti microtonali. Il miglior concerto del festival, a mani basse.

La seconda sera ero sulla duna accanto all’Hana-Bi a sentire la voce candida di Weyes Blood quando ho fatto una nuova esperienza. Quando sei a un festival di solito fai entrare diverse cose nel tuo corpo: liquidi in bocca, suoni nelle orecchie, dita in gola. Ecco, a me hanno invece cominciato a entrare negli occhi una quantità imprecisata di granelli di sabbia, spinti da un vento clamoroso che ha causato la chiusura del palco principale e la fine del concerto della buona Natalie Mering nel giro di cinque minuti d’orologio. Il risultato, dopo un breve panico causato dal pensiero “Santiddio ora staremo tutti dentro il locale e sarà super foderato di gente e sarà scomodissimo,” è stata invece un’altra di quelle esperienze che ti fanno rendere conto di quanto sia prezioso un luogo come l’Hana-Bi.

Sono andato sotto la tettoia del locale, a quel punto già piuttosto piena di gente in attesa per i Preoccupations—e da lì li ho guardati, con un occhio al palco e uno alle chiome degli alberi sferzate dalla sabbia e dalla bufera, col cuore in gola ma senza sapere se per l’oppressività di “Anxiety” o per la consapevolezza che, con un po’ di vento in più, la situazione sarebbe potuta essere decisamente peggiore. Quando, a fine concerto, i dieci minuti di “Death” hanno riempito l’aria del festival e riacceso l’interruttore che animava le gambe dei presenti, la sabbia ha cominciato a diradarsi leggermente. Ma non abbastanza da permettere la riapertura del palco principale.

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Shellac. Foto di Francesca Sara Cauli, per gentile concessione di Beaches Brew.

Di fronte a una spiaggia che aveva deciso di ribellarsi a noi poveri stronzi in cerca di divertimento pre-estivo, gli Shellac si sono dovuti esibire sul palchetto dell’Hana-Bi. Se la resa finale ha perso in qualità del suono e possibilità di visione di quello che stava succedendo, ha guadagnato in epicità. Insomma, sentire Steve Albini che consiglia a tutti di fornicare un po’ di più e dichiara fedeltà a Satana mentre Bob Weston e Todd Trainer martellano i loro classici ritmi gelidi con un vento clamoroso che ti riempie di pezzi di roccia sciolta e frammenti di scheletri e gusci è stato figo come potete immaginare.

Su quello stesso palchetto, solo qualche ora prima, si era esibita Kaitlyn Aurelia Smith. Con il suo piccolo synth modulare e un po’ di aggeggi sul palco, Kaitlyn ha tirato fuori un set perfetto per il tramonto che si trovava di fronte—basato pesantemente sui pezzi del suo EARS, a metà tra tensione ambientale e virtuosismo strumentale, con un microfonino accanto alla bocca a traslare le sue parole in suoni angelici e inintelligibili. La sua performance, decisamente diversa rispetto al resto della proposta del festival, è stata una pausa di pace, una doccia sonora che ti tira via di dosso la (comunque apprezzabilissima) salsedine del fuzz e delle distorsioni. Lo stesso non si può dire del set di Matteo Vallicelli al playground stage—più adatto a caricare il pubblico ma non troppo con i suoi arpeggioni che non sai mai se ballare o meno ma anche chissenefrega, dall’atmosfera che c’è.

kaitlyn aurelia smith live 2017 beaches brew
Kaitlyn Aurelia Smith. Fotografia di Francesca Sara Cauli, per gentile concessione di Beaches Brew.

Sul palco-non-palco tra Hana-Bi e spiaggia hanno suonato anche i Gomma, primi dell’ultimo giorno. Il loro è stato un concerto di quelli acerbi ma belli esattamente per quello, con un pubblico mediamente incuriosito e qualche hardcore di quelli che sanno i testi e quindi se li cantano nelle orecchie gli uni con gli altri. Ilaria ha tenuto ottimamente la situazione in piedi, raccontando di pezzo in pezzo qualcosa che arricchisse i suoni che uscivano dalle casse, e non si è arresa al caldo infame su cui scherzava coi suoi compagni di gruppo fuori microfono. A quasi un anno dal loro primo live, i Gomma sono nel pieno di una campagna promozionale sfiancante che potrebbe renderli più grandi di quello che sono come privarli di ogni forza e stimolo ad andare avanti; per ora, è interessante guardarli mentre sono nel mezzo del loro divenire.

L’ultima sera, sul palco principale, si sono alternati due gruppi dalle diversissime concezioni di trascendenza in musica. Prima i Moon Duo, su cui si sono sprecate gag dato che in realtà si esibivano in trio, e poi i Thee Oh Sees, habitué dell’Hana-Bi chiamati a chiudere il festival. Ripley Johnson, con la sua barbazza bianchissima e i suoi occhiali da sole, ha uno di quegli approcci che basano sulla ripetizione di un mantra tutta la loro forza: unica pecca è la necessità di avere in corpo almeno del THC per lasciarsi prendere un attimo dai loro riffoni tutti uguali. Una situazione, per auto-quotare la recensione che avevamo scritto, alla “vediamo quante canzoni tutte esattamente identiche possiamo fare prima che la smettano di invitarci ai festival europei ogni estate.”

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Thee Oh Sees. Fotografia di Francesca Sara Cauli, per gentile concessione di Beaches Brew.

John Dwyer e i suoi, invece, cercano di mandarti su un altro piano dell’esistenza tramite i rilasci di tensione: tirano le minelle garage come hanno sempre fatto, certo, ma sanno anche benissimo quando entrare in groove e tirare avanti minuti e minuti i loro pezzi prima di farli riesplodere—e quindi far riempire di sabbia le scarpe e le bocche del loro pubblico, impegnato in una serie di crowdsurfing da fare invidia a un concerto degli Hatebreed.

L’atmosfera di Beaches Brew è unica, in Italia. Siamo un paese in cui “festival” è mettere delle band su un palco in un posto non accogliente per qualche giorno di fila, siamo invitati ad andarcene subito appena l’headliner è finito, il parcheggio costa decine di euro e nessuno ha davvero voglia di conoscere cose e persone che non conosce. Sulla spiaggia di Marina di Ravenna, invece, potete tranquillamente essere approcciati da tedeschi brilli a metà pomeriggio che vi offrono una Moretti, giocare a Twister sulla sabbia e vincere cose, conoscere i musicisti che suonano semplicemente camminando verso di loro. È una risorsa preziosa, molto più di quanto possiamo immaginare.

Elia è su Twitter: @elia_alovisi


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