Chi è nero, in Italia?

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Questo è un approfondimento della terza puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata al concetto di “un’unica goccia di sangue,” il criterio americano per definire chi è nero—la one drop rule.

“Sulla Razza,” di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Esce a venerdì alterni, e puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.

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La one drop rule, la regola dell’unica goccia di sangue, è il criterio che determina chi è nero negli Stati Uniti. In teoria, se almeno uno dei tuoi otto bisnonni è nero, sei nero; in sostanza, una persona è nera se almeno uno dei suoi antenati conosciuti è di origini africane.

È evidente, come spiega il professor F. James Davis nel suo Who is Black? One Nation’s Definition, che l’idea di nerezza negli Stati Uniti è stata definita dallo schiavismo e dalla segregazione, come dimostra la storica sentenza Plessy v. Ferguson che sancisce la legittimità costituzionale della dottrina “separate but equal.” Plessy era, come abbiamo spiegato nell’ultimo episodio del podcast, un octoroon, il che significa che uno dei suoi otto bisnonni era nero. Nel 1892 fu accusato di aver violato il Separate Car Act della Louisiana per essersi seduto su una carrozza per bianchi di un treno segregato, nonostante l’uomo fosse fenotipicamente bianco. 

Non giriamo neppure troppo intorno alla questione fondamentale: definire chi è nero, in America come altrove, significa anche decidere chi non è bianco.

Naturalmente, bianco/nero sono categorie astratte—e nemmeno fisse. Proprio per questo, la regola dell’unica goccia di sangue è un criterio che trova applicazione solo negli USA e in nessun altro paese del mondo, tanto che a lungo il sistema binario bianco/nero ha reso lì difficile includere nella questione razziale tanto il meticciato quanto altre minoranze razzializzate.

Forse anche a questo è dovuta la diffusione di così tanti acronimi, espressioni e termini coniati per definire la multietnicità angloamericana—pensiamo a POC, BIPOC, BAME, brown. L’incremento negli ultimi decenni degli immigrati asiatici e ispanici negli Stati Uniti ha incrinato la tradizionale polarizzazione bianchi-neri, e alcuni studiosi parlano ormai in termini di “black” e “non-black minorities.” 

La differenza nella definizione di nero tra Stati Uniti ed Europa emerge nella collezione di saggi The price of the ticket, in cui lo scrittore James Baldwin racconta un aneddoto dalla “Conference of Negro-African Writers and Artists” tenutasi nel 1956 Parigi: al capo della delegazione americana, lo scrittore e attivista John Davis, viene chiesto dai francesi perché si definisse nero dato che “certamente non sembrava esserlo.”

Baldwin commenta la scena dicendo che da una parte Davis era considerato nero secondo quel particolare criterio americano; e dall’altra riprende le parole dell’interpellato per dire che se “Davis si definiva nero per esperienza,” quella era un’esperienza del tutto estranea per un nero africano.

Penso che sia anche per questo che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, in un’intervista di qualche anno fa, ha detto di non essersi “considerata nera” fino a che non è emigrata dal suo paese natale: “Sono diventata nera in America.”

Baldwin, al tempo della conferenza, viveva già da qualche tempo a Parigi e si trovava sufficientemente immerso in un’altra cultura per esaminare con occhio critico quella americana—qualcosa che sembra non essere ancora successo in Italia.

Il concetto di nero in italiano

Il dizionario Treccani (che Sulla Razza ha già chiamato in causa a proposito della puntata sul colorismo), nel fornire una definizione di nero, tratteggia una linea (del colore) che unisce la parola ad Africa e africano.

Questo, insieme al fatto che in Italia la conversazione sulla questione razziale è stata in gran parte tradotta dal contesto anglo-americano, fanno sì che anche da noi la narrazione mediatica e pubblica identifichi nero con afrodiscendente, con black. La linea del colore è però un indice che varia nello spazio e nel tempo. 

A questo proposito Martina Testa, traduttrice e editor di Edizioni Sur, dice in un’intervista per DinamoPress, che “tutto quello che arriva dall’America non viene contestualizzato come succederebbe se venisse, che ne so, dalla Corea. Sembra che sia generale e per tutti. Ne è passato di tempo dal Piano Marshall, ma mi pare che l’editoria e la cultura italiana siano più dipendenti che mai dagli Stati Uniti.”

Il rischio di questa ingerenza americana, per me, è quello di escludere dal dibattito antirazzista nostrano le minoranze etniche che non rientrano in questa categoria. Ma se le categorie razziali, e le etichette utilizzate per descriverle, negli Stati Uniti sono inscindibili dalla sua peculiare storia, forse dobbiamo fare uno sforzo per partire dalla storia italiana ed europea—che, poi, è quella coloniale e della migrazione

Come definire le minoranze etniche nel nostro paese

La scelta dei termini deve però partire dalle minoranze interessate, come ha spiegato nel podcast Luisa Zhou, sinoitaliana: “La comunità cinese non si riconoscerà nella parola giallo, è un’etichetta che ci è stata data da altri, nata da un paradigma razziale che nel tempo ha acquistato sempre più sfaccettature negative.”

Possiamo anche “scherzarci su”, continua, “chiamarci banane—gialle fuori, bianche dentro—ma prima o poi ci dovremo allontanare dal termine perché, semplicemente, non lo abbiamo scelto noi.”

Ritengo che la definizione di un’identità sia un processo molto difficile e a cui concorrono diversi elementi—l’etnia, la lingua, la provenienza geografica, l’appartenenza cultura, la fede religiosa, la famiglia, il fenotipo. Si tratta però di un processo che parte dalle parole e arriva a influenzare il modo in cui narriamo la multietnicità in Italia.

Vashish Soobah, regista italomauriziano, si è soffermato su questa complessità. “In italiano mi definisco afroitaliano, perché sono nato in Italia da genitori mauriziani,” ha spiegato nella puntata del podcast. “Mauritius è situata geograficamente nel continente africano, però è anche vero che il mio retaggio è più indiano che africano, perché la religione, il cibo e certi aspetti della sua cultura derivano da lì.”

Riflettendo invece sull’espressione “seconde generazioni” ha detto: “Credo che sia importante ricordare che condividiamo la stessa condizione, ovvero quella di essere figli di immigrati: combattiamo tutti per una stessa causa che è quella di essere rappresentati e apparteniamo tutti a una stessa comunità, quella delle seconde generazioni.”

Alcuni termini però non sono stati tradotti dall’inglese, come il concetto di brown. Mi sembra che questo sia da imputare al fatto che in Italia non sia mai stata data rilevanza, fatta eccezione forse per “nerezza,” alla transnazionalità delle identità (infatti tendiamo a usare espressioni come “comunità pakistana/cinese/filippina/marocchina” o “persona italo-cinese/somala”).

“In questo momento,” dice Soobah, “mi riconosco in brown più che in marrone, perché essere brown nel Regno Unito significava far parte di una comunità. In Italia invece marrone non è usato, e ha una valenza generica o dispregiativa.” 

Anche per comprendere meglio ciò di cui parla Soobah, l’approfondimento bimensile di Sulla Razza si focalizza sull’identità, difficilmente inquadrabile nei compartimenti tradizionali, delle comunità asiatiche di discendenza africana, come i Kaffir srilankesi.

Cardamomo Collective, a cui la realizzazione di questo focus è stata affidata, ricorda che “l’esistenza di simili gruppi diasporici, che siano afro-discendenti in Sud-asia o sudasiatico-discendenti in Africa, rimette in discussione i preconcetti fisionomici, culturali e identitari utilizzati nei costrutti sociali razzializzati e coloniali da cui siamo ancora influenzati oggi, in maniera subconscia o meno.”

Nero, bianco, marrone, non-bianchi o non-neri, minoranze etniche, di colore: le espressioni per descrivere la multietnicità esistono (se sono sbagliate, possiamo incoraggiare l’uso di neologismi condivisi o la circolazione di significati nuovi per parole vecchie—come per “marrone” o “colorismo”).

Per raccontarci meglio, però, dobbiamo avviare una conversazione, anche e soprattutto con se stessi, sulle nostre identità e dibattere delle parole che meglio ci rappresentano o descrivono. 

Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza tradurrà concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cercherà di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza sarà anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.

Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.

Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.