Il 27 aprile del 2016 la deputata del Partito Democratico Romina Mura ha presentato alla Camera – insieme alle colleghe dem Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato – il disegno di legge 3781: “Istituzione del congedo per le donne che soffrono di dismenorrea.”
Il cosiddetto “congedo mestruale” consentirebbe alle donne che soffrono di mestruazione dolorosa di astenersi dal lavoro per un massimo di tre giorni al mese. Questo tipo di permesso non sarebbe equiparabile ad altri tipi di assenza, come quelli previsti in caso di malattia o ferie.
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In caso di approvazione, ne avranno diritto donne che lavorano full o part time, con contratti di lavoro subordinato o parasubordinato, a tempo determinato, indeterminato e a progetto, sia nel settore privato che in quello pubblico. Si stima che in Italia tra il 60 e il 90 per cento delle donne soffra di dismenorrea.
Sarà necessario richiedere un certificato di un medico specialista, che andrà rinnovato di anno in anno e l’indennità corrisponderà al 100 per cento della retribuzione giornaliera: nessuna decurtazione del salario per chi usufruirà del permesso, che in teoria dovrebbe essere pagato dall’Istituto nazionale di previdenza sociale (almeno per le donne iscritte all’INPS), anche se questo dettaglio non è stato incluso nel disegno di legge.
“Nel testo non lo abbiamo scritto, perché nella nostra proposta c’è spazio per integrazioni e miglioramenti. Tutti, a cominciare dal mondo imprenditoriale e dal sindacato, possono dare il loro apporto e il loro contributo,” ha detto Mura in una recente intervista a Donna Moderna.
Le reazioni
La proposta di legge, attualmente all’esame della Commissione Lavoro, è stata accolta con un prevedibile mix di voci entusiaste, scettiche e molto critiche.
I due poli opposti si potrebbero riassumere così: c’è chi, come Irene Facheris – fondatrice del sito femminista Bossy – sostiene che il congedo sia un gesto umano che “riconosce i dolori che moltissime donne devono sopportare durante il ciclo mestruale”, come ha spiegato in un video caricato il 15 marzo 2017 sul suo canale YouTube.
Dall’altra parte ci sono voci come quella di Maria Cristina Piovesana, presidente di Unindustria Treviso, che lo scorso agosto aveva dichiarato di ritenere folle la proposta in quanto “discriminante per le donne e dannosa per le imprese.”
Nonostante la proposta di legge riguardi solo il mondo del lavoro, l’impatto della dismenorrea non ha età e non si limita alle lavoratrici e alla loro produttività: la giovane età, il menarca precoce e la nulliparità (non aver mai partorito) sono infatti alcuni dei fattori di rischio che spiegano come mai il ciclo mestruale doloroso possa causare un tasso di assenteismo da scuola compreso tra il 13 e il 51 per cento – contro una media del 10 per cento nel mondo del lavoro.
Sono le stesse quattro deputate a indicare parto e produttività come due nodi essenziali per giustificare il bisogno di un congedo mestruale per le donne e legarlo al mondo del lavoro.
Nel testo di presentazione del disegno di legge, così come nei vari pezzi sul tema pubblicati in questi giorni su giornali e blog italiani, ci sono infatti espliciti riferimenti a Paesi orientali dove il congedo è in vigore da diverso tempo (Taiwan, Sud Corea, Indonesia e Giappone) e ad aziende come Nike e Coexist, che hanno incluso nel loro statuto o codice di condotta questo tipo di permessi. In Asia, infatti, esisterebbe la credenza che “se le donne non si riposano nei giorni del ciclo avranno poi numerose difficoltà durante il parto,” mentre per il caso Coexist è stato valutato che le donne, finito il ciclo, “sono tre volte più produttive.”
Questa enfasi sul ruolo di madre e su quello di multitasker a cui il congedo regalerebbe poteri da Wonder Woman fa sembrare che, ancora una volta, il discorso sul corpo femminile sia stato inquadrato non tanto in termini di bisogni umani, essenziali e in questo caso pure biologici quanto in relazione alla disponibilità ed efficienza al servizio degli altri.
Come ha spiegato qualche mese fa Martina Ioriatti su Soft Revolution, “nella job description implicita del lavoro emozionale di una donna ci sono organizzazione impeccabile, attenzione per piccole cose della casa, del partner e dei figli, multitasking, supporto morale illimitato ai colleghi tanto in ufficio come in casa, gioia di vivere e piacevolezza estetica.”
I punti critici della proposta di legge
Dal punto di vista pratico, il congedo mestruale – così come è stato presentato nel disegno di legge 3781 – potrebbe mettere le donne lavoratrici in una posizione ancora più problematica rispetto a quella odierna.
Una donna in Italia percepisce in media 1,80 euro in meno rispetto ad un uomo nel settore privato, a causa di diversi fattori. Tra questi rientrano anche le scelte di vita legate alla maternità e alle discriminazioni implicite o esplicite legate ad essa che riguardando molte lavoratrici.
Molto diffusa è, ad esempio, la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco“: il dipendente è costretto a firmare le proprie dimissioni in anticipo che in caso di infortunio, comportamento sgradito e molto spesso gravidanza, verranno completate con la data desiderata. Anche se non ci sono dati certi in merito e le nuove regole introdotte dal Jobs Act dovrebbero arginare e limitare questo fenomeno, esistono svariati modi per discriminare le donne in caso di maternità – tra cui il mobbing e la fase di selezione del personale.
Sebbene l’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori e l’articolo 27 del Codice delle Pari Opportunità lo vietano, in fase di colloquio continuano a essere fatte domande personali sullo stato civile della candidata per capire se ci sono probabilità che diventi madre più o meno a breve.
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Questa ‘selezione all’ingresso’ colpisce quasi unicamente le donne, in quanto il congedo di paternità in Italia esiste ma è brevissimo e potrebbe inasprirsi se il congedo mestruale diventasse realtà.
Chi gestisce o è proprietario di un’impresa potrebbe favorire un candidato maschio, riuscendo a stimare più precisamente quali e quanti carichi di lavoro affidargli, escludendo una donna perché potenzialmente assente tre giorni al mese in più rispetto ai suoi colleghi.
Inoltre, nei casi in cui una donna non sia iscritta all’INPS, chi si dovrebbe occupare della copertura economica legata al congedo? Se la risposta è il datore di lavoro, ecco che le donne rischiano di diventare le candidate meno appetibili, indipendentemente dalle qualifiche e dalla preparazione dimostrata.
Interpellando alcune amiche e conoscenti sulla possibilità di un congedo mestruale, si può riscontrare una diffusa e legittima paura di ripercussioni, sia da parte della dirigenza che dei colleghi. Nel caso degli ordinari certificati di malattia, la privacy del paziente/lavoratore è tutelata: salvo eccezioni, il datore di lavoro riceve un attestato di malattia ma non ha accesso alla diagnosi emessa dal medico.
Anche in materia di invalidità e disabilità è prevista la tutela della privacy: per potersi iscrivere alle liste di collocamento è sufficiente riportare solo la percentuale di invalidità riscontrata; mentre sulla patologia specifica potranno essere richieste informazioni più dettagliate solo al momento dell’inserimento sul posto di lavoro.
Un passo in avanti o un rafforzamento dello stereotipo di “quei giorni lì”?
Isolare le mestruazioni creando un congedo ad hoc costringerebbe le lavoratrici a ricevere una visibilità notevole rispetto agli altri tipi di assenza, e paradossalmente le renderebbe responsabili di una decisione che potrebbe condizionare il rapporto lavorativo: mi rivolgo o no al medico per richiedere il certificato? Come la prenderanno i colleghi? Soffro di dismenorrea abbastanza grave oppure me ne sto approfittando? Inoltre, potrebbe finire per rafforzare gli stereotipi relativi alle donne e alla loro condizione emotiva ed ormonale in “quei giorni lì.”
L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e la presa in considerazione delle pari opportunità sono storia relativamente recente. Nella foga di mettere da parte una divisione di ruoli ormai considerata datata e priva di senso dai più, ci si è spinti spesso in una direzione paradossale: quella in cui si pareggiano i doveri ma non i diritti; si riconosce il valore delle uguaglianze ma non delle differenze; e si finge che le donne debbano gestire ogni compito e responsabilità nello stesso identico modo.
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In materia di sicurezza sul lavoro, poi, il peso massimo sollevabile nella movimentazione manuale dei carichi cambia a seconda che sia un uomo o una donna ad occuparsene. Non si tratta di un privilegio o di sessismo al contrario, ma del riconoscere che nella maggior parte dei casi una donna avrà più difficoltà a sollevare un certo carico rispetto a un uomo. Non si lascia nelle mani di una donna la responsabilità di decidere se sollevare o meno un carico e non si valuta la sua massa muscolare per capire se proprio lei, rispetto alla media, avrebbe meno problemi sollevare più di 15 kg per volta rispetto ad un’altra.
Non si può scegliere, invece, se avere le mestruazioni. Se la maggioranza delle donne soffre di ciclo doloroso, forse avrebbe più senso ipotizzare soluzioni più strutturali che limitino la responsabilità di lavoratori e imprese e propongano misure più concrete sul posto di lavoro e a scuola.
Che si tratti di dare un giorno in più di malattia al mese a tutte, di studiare una legge più dettagliata in materia di congedo, di stabilire che a pari ruolo deve corrispondere pari contratto e retribuzione indipendentemente dal proprio genere, orientamento sessuale, razza o religione, sarà infatti indispensabile inasprire i controlli e le regole in materia di discriminazioni sia sul posto di lavoro che in sede di colloquio su più livelli, in modo tale da fornire veri strumenti di tutela per donne e “minoranze” – e senza ricorrere a misure palliative che finirebbero per mettere in pericolo le persone che in realtà dovrebbero proteggere.
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Illustrazione di Penelope Gazin/VICE