Danny Brown riesce a malapena a tenere gli occhi aperti. Se ne sta seduto da solo su un angolo del tetto dell’ Ace Hotel a downtown Los Angeles davanti a una tazza di carta con del caffé che non tocca, e una pila di poster promozionali. Li firma tutti poi li mette da parte. Ogni volta che ne ha ammucchiati un po’ un’assistente si fa avanti correndo e rimpolpa la pila.
Il rapper di Detroit ha da poco compiuto trentacinque anni. Un paio di mesi prima del suo compleanno ha comprato casa a Farmington, una delle periferie della sua città, ci si è chiuso dentro in completa solitudine per due settimane a scrivere i pezzi di Atrocity Exhibition━in uscita il 30 settembre su Warp, primo album da tre anni esatti a questa parte. Ma oggi è quasi alla vigilia di un tour che lo porterà in giro per gli Stati Uniti, e poi in Europa a Dicembre. Mi dice che ha bisogno di rimettersi in forma presto, per tenere botta con un calendario così fitto. È in piedi da ore, a rispondere alle domande di reporter e blogger che lo chiamano da Dayton, Milwaukee, Austin, Cincinnati e chissà dove altro… I ricordi iniziano a confondersi. Quando decide che non gliene va più, rimette il tappo allo Sharpie color bronzo e bella lì.
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L’assistente mette via i poster non firmati e si appunta mentalmente di riprovarci più tardi. Uno dei manager di Danny, Dart Parker, direttore e talent scout di Shady Records, gli mette sotto il naso un menu rilegato in pelle e insiste perché mangi qualcosa: pollo, frutti di mare, salumi. Lui ordina una tequila on the rocks perché, spiega, “Non posso assumere zuccheri”. Il tetto dell’Ace è tappezzato di gente in canotta o bikini, ma lui è bardato di nero dalla testa ai piedi, porta una felpa e dei jeans pieni di cerniere che di sicuro costano di più di una macchina. Anche se oscilla nel dormiveglia, ha l’aspetto di una star, coi capelli sparati e i denti tappezzati di diamanti che fanno capolino ogni volta che sorride. Gli chiedo se la Detroit di oggi somiglia a quella in cui è cresciuto
“A essere sinceri, non ci passo abbastanza tempo da capire davvero che cazzo succede da quelle parti” mi risponde. “Quando ci sono resto chiuso in casa, e quando esco a fare serata lo faccio in altre città”. Arriva la tequila, accompagnata da ostriche, carni assortite e vari altri stuzzichini. Danny fa una smorfia: “Sono cinque anni che non so bene come vada. Credo stia migliorando, ma non te lo saprei proprio dire.”
Atrocity Exhibition We were so ambitious / All we really wanted was new Jordan and some bitchesLe parole ce le ho sempre già dentro: magari mi vengono in sogno. Non me ne sto seduto a forzare le parole.
Nulla di tutto ciò implica che Danny non si dedichi con disciplina e costanza alla stesura dei brani, lavora soprattutto da casa, con un orario fisso: “Mi chiudo dentro. Se non sto già registrando, allora tutte le sere alle dieci mi metto a scrivere, qualsiasi cosa mi venga. Magari non sono nemmeno parole, ma solo degli abbozzi di beat. È come se facessi un lavoro di ricerca e sviluppo su me stesso. Stendo dei concetti, magari un ritornello. Poi la sera dopo tiro fuori i primi due versi e procedo da lì. Di solito, prima che me ne renda conto ho una canzone pronta.” A volte usa dei beat composti tantissimo tempo prim e dimenticati in un cassetto mentale: “Alcuni del nuovo album li ho composti tre anni fa, altri addirittura mentre scrivevo XXX. Si vede che non ero pronto a usarli.”
Detroit è conosciuta dai fan del rap come luogo di nascita dell’horrorcore (da alcuni venerato come revival true-school e associato a Dilla). Ma il vero impatto musicale mondiale post-Motown della città fu la creazione della techno. Uscire su Warp, una label il cui contatto con l’hip-hop è sempre stato tangenziale (Death Grips, Flying Lotus) è emblematico di una nuova direzione, e già il primo singolo estratto dall’album sembra tarato per un DJ set tra l’1:30 e le 2:00. “When It Rain” è un buon campionario di tutto quello che si può trovare dentro il disco: Paul White e gli altri giocano con BPM veloci e percussioni più ficcanti di quante se ne siano mai sentite in un album di Danny Brown, creando un effetto piuttosto ipnotico.
E se la tensione interna a Old era tutta giocata sul conflitto tra professionalità e nichilismo, tra capitalismo e identità personale, Atrocity Exhibition è un lavoro molto più creativo in senso puro. Se nel primo Danny aveva infilato un sacco di tracce quasi-EDM per assicurarsi molti ingaggi estivi, per il nuovo ha speso circa settantamila dollari per il permesso di usare alcuni campioni e per sconvolgere il normale asse gravitazionale della musica rap. Ci sono pezzi molto chiusi in se stessi, labirinti iper-concettuali che si trasformano in veri e propri incubi. È pesante e sinistro.”
In tutto questo il suo rap è, come prevedibile, superbo. Dalla sua esplosione nel 2010 con The Hybrid, Danny si è fatto conoscere per l’abilità vocale, alternando (anzi, spesso mescolando) un tono nasale e stridulo a uno più monocorde e basso. Ma è soprattutto il suo vasto range di cadenze e tipi di flow che lo rende quasi impossibile da imitate. “Credo che mi venga inconsciamente dal fatto che alle elementari suonavo la tromba. Mi toccavano tutti gli assoli, per cui quando penso al rap oggi penso agli assoli di tromba: invece di stare sul beat, ci viaggio dentro e fuori, cercando di provare più pattern e flow possibili nel minor tempo possibile. Mi paice renderla imprevedibile.”
Se la tensione interna a Old era tutta giocata sul conflitto tra professionalità e nichilismo, tra capitalismo e identità personale, Atrocity Exhibition è un lavoro molto più creativo.
Kendrick Lamar appare in Atrocity Exhibition, con Ab-Soul ed Earl Sweatshirt in un braano chiamato “Really Doe.” Danny apre la prima strofa, e per quanto i guest si presentino decisamente bene (Earl dice “I was a liar as a kid, so now I’m honest as fuck” e “I just broke up with my bitch ’cause we ain’t argue enough“), nessuno lo scalza davvero dal podio. Ci riesce grazie alla tecnica, alle variazioni metriche tra un verso e l’altro, agli accenti che si spostano in avanti e indietro. “A me pare che quando si parla di composizione nel rap, tutti la sminuiscano. Non mi piace, perché non è diverso da qualsiasi altro genere. Siamo songwriter.”
A Danny non importa nemmeno di fingere di essere produttivo quando è in tour (“non ce la faccio a scrivere quando sono così sballottato in giro, scrivo solo a casa”). Ma l’isolamento che cerca non vuol dire che non si tiene aggiornato sul mondo del rap: “Ci penso sempre, tipo, chi sono i miei rivali? Chi è che fa robe simili alle mie? Ora che sono stato fermo per tre anni chi ha preso il mio posto?” Si ferma un attimo, magari per vedere se riesco a pensare a qualcosa che gli è sfuggito, poi dice: “Nessuno! Non è una cosa che succede spesso nel rap”.
Cinque anni fa, Danny Brown era a un punto di svolta. Per gran parte del decennio tra i venti e i trenta—perlomeno quella non passata a schivare l’arresto—aveva vissuto il rap su due fronti: per quanto sconosciuto nell’underground, faceva spesso tappa a New York per beccarsi con gli A&R di varie label, tra cui Roc-A-Fella. A casa, nel frattempo, si era fatto già conoscere con una serie di mixtape e col suo primo album autoprodotto, Hot Soup. 50 Cent aveva preso in considerazione l’idea di metterlo sotto contratto, ma il guardaroba di Brown non gli aggradava; quando Danny non poteva permettersi un laptop per registrare un demo, Ali Shaheed Muhammad degli A Tribe Called Quest gli comprò un MacBook.
Le cose iniziarono a cambiare con The Hybrid, il disco che lo ha reso un cult, almeno su internet. (A oggi, dice che non gli interessa uscire in pubblico davanti a tanta gente se non indossa tutto il suo “costume da Danny Brown”) Il brusio digitale si fece più denso, al che il socio di Ali Q-Tip aiutò Danny ad avere un contratto con A-Trak e poi Fool’s Gold. Le cose stavano lentamente cambiando. Poi arrivò il 2011: XXX fu un tour de force. Danny era cresciuto studiando formalisti come Nas ed eroi locali come Mac Mall & Master P, Spice-1 e Scarface; sapeva per filo e per sengo cosa piaceva ai critici e cosa sarebbe rimasto nel tempo, ma scartò tutto quello che non era scioccante, intimo e folle. Era quasi una riflessione sulla mortalità: “I‘m getting old and time’s running out“; “Thirty-something black male, OD’d off of pills“; “If this shit don’t work, nigga, I failed at life.”
Conteneva anche molte storie dolorose sulla sua infanzia. Roba come “Scrap Or Die,” che spiega come sopravvivere rubando i boiler e le tubature di alluminio dalle case sequestrate e pure i fili dentro i muri. L’ispirazione gliela diede suo zio, che era esperto di scraping. “Sono del west side di Detroit, ma poi mi sono trasferito nell’east side” dice. “La differenza è che il west side è più di classe, Big Sean è di lì, mentre Eminem è dell’east side. Lì se ne fregano dei vestiti, il più duro comanda. È questa la differenza tra le due scuole di Detroit. “Un tizio con la polo di Armani ci interrompe per spiegarci che è della security e che non dovremmo fare foto con lenti professionali lì perché è contro le regole, grazie. Appena il manager di Danny prende in mano la situazione il tipo scompare e lui torna a rivolgersi a me.
“Quando andavo ancora a scuola, nell’east side era piano di gang. Il tipo più popolare era quello che si postava la pistola. Nel West Side a nessuno fregava di quella roba da gangsta, il più popolare era quello che veniva a scuola con la Benz e portava i gioielli.” Si sporge sul tavolo sfiorando una ciotola di salsa mignonette. “Io non è che non sia gangasta, dopotutto ne ho fatte un sacco perché mi toccava. Ma in fondo al mio cuore so che non è quella la mia storia. Per cui il west side mi è sempre piaciuto di più. Cacchio, sembra quasi una periferia borghese. Ma mio zio faceva ste robe e ha contribuito a distruggere letteralmente il quartiere. Merda, ora è proprio uguale all’east side. Prima c’era l’erba qua, mentre nell’east side non ci stanno manco gli alberi, è una merda. Ora però il quartiere è una merda proprio come l’east side.” In XXX, il pezzo prima di “Scrap Or Die” è “Fields,” in cui racconta che le case in cui andava a giocare da picoclo sono diventate delle scorciatoie per il negozio dietro l’angolo, con tutti i divani piazzati davanti al cancello, pieni di cimici. Danny spiega che nel video di “Greatest Rapper Ever,” uno dei pezzi migliori di The Hybrid, c’è suo zio che ammucchia pezzi di metallo “riciclato” in cucina.
Ad ogni modo, non è che la sua adolescenza non sia stata anche un po’ glamour “Ero lo stronzo più figo della scuola” dice ghignando. “Uno dei meglio vestiti. Avevamo una cricca che era un po’ la cricca fashion, se così possiamo chiamarla. Ci siamo conosciuti perché eravamo quelli acchittati meglio.” Finisce la tequila, dà un occhio veloce al bar e poi torna mentalmente agli anni Novanta: “c’era questo posto, un muro al terzo piano, che era il nostro reame. Ogni volta che finiva una lezione ci appoggiavamo a quel muro a sfoggiare i nsotri vestiti. Andavamo a scuola solo per quello. Quando c’erano i saldi ci trovavamo davanti alla scuola per farci due ore di bus fino al centro comemrciale di Somerset solo per arraffare una maglietta di Versace da novanta dollari da uno scaffale.”
Per quanto unito fosse quel gruppo di amici, sfottevano tutti Danny perché rappava. Presto avrebbero iniziato a chiedersi come poter portare avanti quello stile di vita nel futuro. Iniziarono a vendere droga tutti assieme, il che fece spuntare paranoie e scazzi. “Ogni tanto becco ancora qualcuno di loro” dice Danny, ma quasi tutti sono morti o in galera. Uno dei miei migliori amici, uno che ha fatto molto per me, è stato appena ingabbiato. Mi sa che si farà un bel po’ di tempo”.
Dart controlla l’ora poi chiede la chiave della camera a Danny per spostare le due borse. Va verso l’ascensore, arriva un cameriere e Danny cordialmente lo manda via. Parliamo di rap: l’influenza della Bay Area che si sente in Doughboyz Cashout, le dinamiche dell’improvvisazione diStack Bundles, il modo in cui Max B riusciva a ficcare dei testi così fighi dentro pezzi che vengono ricordati soprattutto per la melodia. (Danny dice che una volta ha pagato cento dollari per una copia di una delle Public Domain) Parliamo di quanto Boosie e Scarface fossero famosi nell’upper midwest, parliamo di quanto la cultura da strip club è stata influenzata dagli spacciatori di Detroit. Quando ero arrivato in hotel un’ora prima, Danny era impantanato tra mille chiamate e dei ritmi di viaggio massacranti. Ma mentre discutiamo delle minuzie di dischi di moderato successo di sedici anni fa, mi sorride e si lancia in dei versi di Cam’ron muovendo tutta la parte superiore del suo corpo: “I ain’t a rapper, b, I skeet Uzis / And I can’t act—turned down three movies” come se stesse andando in guerra.
In un certo senso, Danny parla come rappa: ha una sintassi elaborata e un ritmo ben studiato, ma il registro della sua voce balza da tutte le parti a seconda del suo umore, del suo livello di interesse o dell’argomento. Quando chiama i rapper per nome sembra posseduto da loro. Tipo quando nomina Boosie dice “Boooooosie” con la o stretchata come nell’accento del Baton Rouge. Quando racconta un aneddoto su come Cam lo abbia ignorato durante un incontro casuale (come dice lui, che puoi volere di più?), suona come se la storia venisse raccontata da tre persone diverse. E la sua risata è la stessa caciara gioiosa che si sente nei dischi”.
Dato che ne conosce bene almeno due membri, gli chiedo qual è il suo disco preferito della Tribe. Mi risponde “Low End Theory“. “Me lo comprò mio padre. Una cosa che posso dirti a riguardo è che magari non è il disco più bello del mondo, ma ci sono dentro molte canzoni che amo perché mi ricordano qualcosa.” La conversazione si sposta su quanto confusi possano essere quei ricordi, sul fatto che Midnight Marauders e 36 Chambers sono usciti lo stesso mese e su quanto l’ascesa del G-funk avesse trovato un contraltare a Newark e delle similitudini a Houston. “L’esempio migliore sono Stakes Is High e It Was Written, che sono usciti lo stesso mese,” dice. “Quelli hanno cambiato tutto. Credo sia andata così. Pensaci: abbiamo dovuto scegliere da che parte stare.” “Sì, Stakes Is High era un po’ il contrario,” rispondo. “It Was Written era mega patinato”. “Capito?” dice lui “Nas doveva essere quello che avrebbe portato tutto… Insomma, o ti schieravi con Nas o reagivi scegliendo i De La.”
“Tu che hai scelto?”
“It Was Written. Ovviamente.”
Se XXX parlava di una situazione in cui tutto succede assieme, Old era composto di parti diverse. L’album, il primo della fase “famosa” di Brown, era diviso nettamente tra lato A e lato B, con prima i pezzi oscuri e autobiografici e poi i pezzi più da party, fatti per i festival esitvi. Era una decostruzione intelligente del contrasto tra arte e commercio. A tratti geniale, parla di cause ed effetti in termini assoluti, ma incasinandone la successione cronologica. È forse un ascolto difficile, perché disprezza la linearità di umore e suono, e ha un modo secco di raccontare il suo dolore psicologico davanti a tutti”. In “Clean Up, la penultima del lato A, Danny racconta di stare a letto con una di cui ha dimenticato il nome dopo avere devastato una camera d’albergo la notte prima “I know it ain’t right, but in this state I don’t care” rappa:
“A whole week went past, I ain’t gone nowhere
Hotel rooms, crushing pills and menus
Daughter sending me messages, saying, ‘Daddy, I miss you’
But in this condition, I don’t think she need to see me.”
Danny mi spiega che si tratta di una notte sul tour bus di Kendrick: “Sono salito sul bus, Kendrick stava ascoltando un beat e ci stava scrivendo sopra. Dopodiché è andato a fare uno show, e dopo il concerto era pieno di gente che faceva casino e si divertiva sul bus, ma lui ha rimesso il beat e ha ripreso a scrivere. Io mi sono detto, ‘Ma come cazzo fa?’” Ride a lungo. “Io non ce la farei mai, ma questo ti fa capire perché lui è arrivato dov’è arrivato. Per me ci sarebbero state troppe distrazioni.” Nel frattempo non ha ancora mangiato niente, ma finge di stuzzicare un’ostrica per fare contento il manager. Penso a un verso che sta nel primo minuto di XXX: “I barely leave the house / Ain’t slept in three days.” Me lo immagino che mette il telefono in modalità aereo tutte le sere alle 10 PM in punto, con vecchi beat che risuonano nella casa vuota.”
“Ti piace scrivere?” gli chiedo. Immagino che esiterà a rispondere, che mi parlerà delle aspettative di tutti, della paura di ripetersi, dopo anni di camere d’albergo tutte uguali. E invece no: “Sì sì, mi piace più di ogni altra cosa. È la parte più divertente di tutto il lavoro. Non c’è niente come scrivere dei versi e cantarli tra te e te pensando ‘usciranno tutti di testa per sta roba’.” Finisce la sua seconda tequila, poi fa una pausa, guarda verso il sole, verso est e oltre l’orizzonte di downtown Los Angeles, oltre Boyle Heights, oltre quello che resta del fiume LA. Poi lo dice di nuovo, piano: “Usciranno tutti di testa per sta roba.”