Nel 2022 si sono contati nel mondo 536,6 milioni di persone con diabete, per la maggior parte di Tipo 2. Nel 1980 erano 108 milioni.
La prima volta che ho sentito la parola “diabete” ero a una tavolata di parenti. La persona con il diabete era quella a cui tutti dicevano cosa doveva mangiare e in quali quantità. Poi la parola diabete è tornata alle elementari, quando ho cominciato a collegarla con le dosi di zucchero che metteva la maestra nel bicchierino del caffè. Uno stereotipo in piena regola, ben radicato fin da subito.
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Ecco, oggi—grazie al cielo—ho capito che il diabete non è riducibile solo a quella versione stereotipata dell’assunzione di tanto zucchero, ma ci sono ancora molte persone che lo credono. Così ho parlato con due persone con il diabete per sapere cosa significa, effettivamente, convivere con il diabete.
Prima, però, serve spiegare un attimo cos’è il diabete, come viene classificato e come si divide. Ci sono due forme di diabete più comuni: il diabete di “Tipo 1” e il diabete di “Tipo 2”, che non vanno sovrapposti.
Il diabete di Tipo 1, che fino a non troppo tempo fa veniva chiamato anche diabete infantile, viene classificato tra le malattie autoimmuni e si manifesta prevalentemente durante l’infanzia o l’adolescenza. In questo caso, il pancreas non produce insulina e quindi va somministrata dall’esterno.
Nel diabete di Tipo 2, invece, il pancreas è in grado di produrre insulina, ma le cellule dell’organismo non riescono a utilizzarla.
L’insulina, per capirci, è l’ormone che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo impiego come fonte energetica: quando questo meccanismo si inceppa, il glucosio si accumula nel sangue ed è un bel problema.
Quindi, ovviamente, il rapporto di una persona con il cibo quando riceve una diagnosi di diabete di Tipo 1 o 2, cambia molto.
Tra i due diabeti quello di Tipo 1 è il meno diffuso. Colpisce infatti, in Italia, lo 0,6% delle persone con diagnosi di diabete, mentre il Tipo 2 il 6% della popolazione.
Michela Pilloni ha ricevuto nel 2017 la diagnosi di diabete di Tipo 1. Ci siamo conosciute su Instagram perché si occupava di sostenibilità, argomento che mi sta molto a cuore. “Io sono stata fortunata nella sfortuna,” mi racconta, “perché avevo familiarità con la malattia, dato che a mio fratello da piccolo è stata diagnosticata la stessa malattia. Tante cose che per alcune persone sono difficili da accettare, come avere sempre le penne di insulina in casa o farti l’insulina davanti agli altri al ristorante, per me erano già familiari.”
Tra i due diabeti quello di Tipo 1 è il meno diffuso. Colpisce infatti, in Italia, lo 0,6 percento delle persone con diagnosi di diabete, mentre il DT2 il 6 percento della popolazione (dati ISTAT 2022, ndr). Questo spiegherebbe in parte anche la scarsa comprensione che la malattia ha avuto negli anni e la generazione automatica di dicerie e stereotipi.
“Guardandomi non diresti mai che ho il diabete, anche se è una disabilità a tutti gli effetti, (un po’ meno giuridicamente, con una legge vecchia di 31 anni, ndr),” mi racconta ancora Pilloni. “Di solito quando si parla di diabete si pensa solo a quello di Tipo 2.”
I dati sul diabete sono in aumento: nel 2022 si sono contati nel mondo 536,6 milioni di persone con diabete, sempre per la maggior parte di Tipo 2, tra cui il 9,2 percento degli adulti. Per fare un raffronto, nel 1980 erano 108 milioni. E i numeri sembrano destinati a crescere anche in Italia, dove la percentuale è stata del 5,9 percento di diabetici sulla popolazione totale del 2020 e del 6,06 percento nel 2022.
Nella gestione della vita quotidiana, chi ha il DT1 deve organizzare i pasti e l’insulina in modo coerente. “Io sono una persona molto precisa nella gestione della malattia,” mi spiega Pilloni, “ma la mia esperienza è solo mia, tanti altri la vivono ovviamente in modo diverso. Dal primo giorno dopo la diagnosi ti viene insegnato a contare i carboidrati e ti viene spiegato come coprirli con l’insulina,” chiarisce.
“Non sempre però è facile capire quali sono le conseguenze che un determinato cibo ha sulla tua glicemia (il valore della concentrazione di glucosio nel sangue, ndr). Devi imparare a gestire tutti i pasti, da quelli più semplici a quelli complessi. La pizza, per esempio, è l’incubo delle persone con diabete.”
La domanda che le pongo, quindi, è: “E al ristorante come fai?”
“Vado molto a istinto, soprattutto in un ristorante italiano dove conosco i piatti e riesco a calcolare i carboidrati quasi a occhio ormai. Durante un viaggio in Giappone, poco tempo dopo la diagnosi, cercavo di informarmi il più possibile, usavo il traduttore di Google per leggere le etichette.”
In questo panorama intricato, l’altra questione che mi interessava sviscerare era come fosse possibile mantenere vivo l’aspetto piacevole del cibo. “La terapia può aiutare tanto, soprattutto i nuovi diagnosticati, ma anche i loro genitori. Può aiutarti a capire che al cibo si applicano alcune regole ma anche che mangiare è un piacere. Ci vuole tanto lavoro su sé stessi e tanta accettazione.”
“Se la diagnosi di DT1 arriva quando si è molto giovani, in modo specifico nelle ragazze, c’è il rischio che l’insulina non venga vista come un farmaco salvavita, ma come un ormone che provoca aumento del peso.
In tutto questo processo occorre anche gestire le domande e gli interventi spesso inopportuni delle persone esterne. “Talvolta c’è la presunzione di sapere quello che devono mangiare le persone con diabete,” mi racconta ancora Pilloni. “Tu pensa alla vita di una persona che deve rispondere a queste domande o inesattezze su alimenti, in maniera costante. Noi conosciamo cosa dobbiamo fare e mangiare molto meglio di voi.”
Tutto questo contare calorie, studiare gli alimenti e parare i colpi esterni può causare problemi di diverso tipo. “Il rischio,” spiega Pilloni, “è che ogni piatto diventi un numero. Davanti a te non c’è più cibo, ma cifre. Questo atteggiamento, unito a una certa disinformazione, ti fa attribuire ai cibi dei giudizi morali—pizza cattiva, verdura buona, ad esempio. Si innesca un meccanismo in cui cerchi di avere un controllo totale.”
Il concetto di “controllo” e calcolo ossessivo delle calorie degli alimenti è un tratto distintivo di un rapporto disfunzionale con il cibo, che le persone con il diabete, soprattutto di Tipo 1, potrebbero avere un rischio maggiore di sviluppare. Si parla, in particolare, di diabulimia, per indicare una tipologia di DCA diffusa soprattutto tra giovani e giovanissimi, assimilabile alla bulimia nervosa. Spiega la dottoressa Laura Giordano, dietista e specialista in scienze della nutrizione umana che “se la diagnosi di DT1 arriva quando si è molto giovani, in modo specifico nelle ragazze, c’è il rischio che l’insulina non venga vista come un farmaco salvavita, ma come un ormone che provoca aumento del peso. Si potrebbe perciò arrivare a non prenderla del tutto, o in modo parziale.”
Si tratta di un comportamento molto pericoloso, che può incidere in modo gravissimo sulla salute, in acuto sviluppando la chetoacidosi diabetica; nel medio-lungo termine facilitando l’insorgenza di complicanze a carico di reni, apparato visivo, nervi e sistema circolatorio.
“In generale chi ha il diabete ha un rischio maggiore di sviluppare un disturbo alimentare,” mi spiega ancora la dottoressa Giordano, “legato sicuramente alla presenza di un continuo controllo glico-metabolico. Talvolta i comportamenti disfunzionali relativi al cibo, come i meccanismi di privazione e colpevolizzazione, sono precedenti alle diagnosi e ci vuole tempo per scardinarli.”
Il diabete, soprattutto quello di Tipo 1, porta con sé un carico emotivo non indifferente: si può sviluppare un disturbo alimentare a causa dell’eccessivo auto-controllo richiesto o imposto da sé stessi. “Per questo è sempre consigliabile lavorare con un team di professionisti della salute, anche mentale.”
Negli anni si sono sviluppate intorno al diabete una serie di pregiudizi e stereotipi che non hanno agevolato la comprensione della patologia. Per esempio è molto diffusa l’idea che le persone con diabete non possano mangiare le cose che mangiano gli altri.
Insomma, è un casino, ma non bisogna per forza disperarsi. “Ai miei pazienti diabetici dico sempre che la loro vita può continuare serenamente,” dice la dottoressa Giordano. “Sicuramente una patologia cronica che non ha una cura definitiva ha aspetti invalidanti, ma bisogna trasmettere l’idea alle persone che rimangono delle persone, non sono la loro patologia,” prosegue. “È preferibile parlare di persona con diabete invece che di persona diabetica.”
Negli anni, poi, si sono sviluppate intorno al diabete una serie di pregiudizi e stereotipi che non hanno agevolato la comprensione di una patologia che ha ancora molti aspetti oscuri. Per esempio è molto diffusa l’idea che le persone con diabete non possano mangiare le cose che mangiano gli altri, oppure debbano privarsi dei dolci o della possibilità di stare insieme durante le festività. “Sia nel privato che negli ospedali, c’è tantissima disinformazione,” spiega Giordano.
“Vengono promosse diete miracolose, pillole o alimenti risolutivi; negli anni diverse persone hanno lucrato su queste patologie, mandando messaggi sbagliati e pericolosi.” Negli ultimi anni inoltre ci si sono messi anche i social. Medicinali per il contrasto del diabete sono stati utilizzati da star e creator senza patologie per perdere peso.
È importante contrastare l’opinione comune che alcuni alimenti, presi singolarmente, vanno criminalizzati, in particolare i carboidrati, scadendo in meccanismi di carbofobia. “Bisognerebbe tornare a dare il giusto valore al cibo. Il cibo è convivialità, emozione e non dovrebbe essere visto come la cura o la causa d’ogni male. Nel diabete, ma anche in altre patologie che prevedono un’attenzione verso l’aspetto alimentare, non si dovrebbe mai parlare di singoli alimenti (tranne in rare eccezioni), ma si dovrebbero condividere delle strategie sostenibili per permettere alle persone di essere autonome a medio o lungo termine, spiegando per esempio che i carboidrati sono la nostra principale fonte energetica giornaliera.”
Ma non c’è, come abbiamo detto, solo il diabete di Tipo 1. Maria Pina Torelli ha ricevuto la diagnosi di diabete di Tipo 2 quando era già in età adulta. Adesso la convivenza con la sua patologia dura da 12 anni. “Quando mi hanno diagnosticato il diabete me la sono presa un po’, perché è una cosa che ti porti a vita,” mi ha raccontato. “All’inizio è stato tragico perché seguivo rigidamente l’alimentazione consigliata.” Questa visione, che è comune a molti, alla lunga però si rivela insostenibile. “Oggi, quando sto con altre persone, mangio come loro,” racconta. “Dopo tanti anni impari a conviverci, non hai più l’esigenza del supporto.”
Per quanto riguarda le linee guida alimentari, c’è una netta distinzione tra le due tipologie di diabete. “Il CREA (Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione, ndr) e le società di diabetologia hanno fornito chiare indicazioni rispetto alla gestione dell’alimentazione in caso di diabete,” mi spiega la dottoressa Giordano. “Nel caso del diabete di Tipo 2 parliamo in genere di persone di età già avanzata, che ricevono l’indicazione di perseguire uno stile di vita attivo e un’alimentazione varia, bilanciata e basata sulla dieta mediterranea, con abituale consumo di cereali, frutta, verdura, frutta secca ed oleosa, legumi, olio extravergine d’oliva. Particolare attenzione va rivolta agli zuccheri semplici, cosa che mi sento di consigliare a chiunque, con o senza diabete.”
E per chi ha il diabete di Tipo 1? “Le indicazioni sono più o meno le stesse: stile di vita sano e attivo, alimentazione equilibrata e varia, ovviamente con la giusta terapia insulinica. Nella persona con DT1 l’educazione terapeutica dovrebbe prevedere sempre, tra gli obiettivi, la capacità di adattare le dosi di insulina sulla base del quantitativo di carboidrati che sta assumendo, che si sviluppa attraverso l’insegnamento del conteggio dei carboidrati.”
A tutti quelli che il diabete non ce l’hanno, invece, non resta che evitare domande e frasi inopportune sul cibo che si trova nel piatto degli altri per tipologia o quantità, informarsi su canali di comunicazione ufficiale, ripensare le nostre battute comuni (“mi fate venire il diabete,” per dirne una) ed utilizzare il massimo dell’empatia nei confronti di chi abbiamo davanti.
Solo così si sconfiggono stereotipi vecchi e inutili.
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