Salute

Com’è fare il barista quando i tuoi clienti soffrono di alcolismo

Bartender e alcolismo

Ashley* si ruppe la caviglia inciampando sui tre scalini all’uscita dal bar. Doveva aver bevuto due bottiglie di vino o giù di lì. È difficile dire esattamente quanto ne avesse bevuto, perché ordinava sempre bottiglie di vino che si trovavano anche sul menu al calice, così poteva averne uno extra quando la bottiglia era finita; riempire il bicchiere prima che si vedesse il fondo—un segno della mia bravura come barista.

Bere fa parte del settore, da entrambi i lati del bar.

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Ricordo di aver pensato che fosse stata la mia “bravura” a farle rompere la caviglia. Ashley beveva regolarmente finché non era più in grado di tenere gli occhi aperti o mantenere la posizione eretta. Che quella sera avesse prosciugato due bottiglie o tre, gliele avevo servite io fino all’ultima goccia.

Ho fatto la barista a New York per quasi dieci anni. Ho iniziato a 18, quando non avevo nemmeno l’età legale per bere.

La prima volta che preparai un martini, non avevo idea di cosa ci fosse dentro. Facevo il turno a ora di pranzo infrasettimanale, quando il mio capo riteneva che non ci sarebbe stata una grande domanda di cocktail. Mentre parlavo con il cliente, cercai su Google “ingredienti dirty martini” con il telefono sotto il bancone. Vodka, vermut, salamoia di olive. Gli misi con orgoglio sotto il naso un drink rosa pallido: avevo usato il vermut dolce invece di quello secco. Lui mi fece notare l’errore con gentilezza, ma tenne comunque il drink sbagliato. “Non si butta vi l’alcol”, mi disse ammiccando.

Bere è diventato lentamente una parte integrante della mia vita, ma non ho mai riflettuto sul rapporto dei miei clienti con l’alcol.

Bere fa parte del settore, da entrambi i lati del bar. All’inizio lavorare era l’unico modo in cui potevo bere, visto che da cliente sotto i 21 anni non mi avrebbero servita. Ogni sera era una festa selvaggia e privata. I turni erano spesso lunghi ed estenuanti, ma non c’era niente di meglio che farsi un drink (o cinque) con i tuoi colleghi dopo la chiusura. Bere diventava lentamente una parte integrante della mia vita, ma non riflettevo mai sul rapporto dei miei clienti con l’alcol.

Io non sono una persona che soffre di dipendenza dall’alcol. Il mio rapporto con la bottiglia ha passato alti e bassi; in passato ho usato le sostanze per nascondere a me stessa certi problemi di salute mentali che erano troppo difficili da affrontare in quel momento. L’alcol per me è uno strumento per raggiungere un obiettivo: l’insensibilità. Quando decisi di affrontare la mia ansia ed entrare in psicoterapia, smisi di bere per quasi un anno, continuando a lavorare al bar.

Cominciai a lavorare in posti un po’ meno turbolenti. Niente più ultimi giri alle 4 di mattina, niente più coca nei bagni, niente più gente che stava male all’uscita. Con calma, arrivarono i clienti abituali: gente che veniva a bere cinque o sei sere alla settimana. Così, il rapporto tra i clienti e l’alcol divenne impossibile da ignorare.

Quando vedi qualcuno al bancone tutti i giorni, sai che non dirà mai di no. Li senti dire: Devo prendermi una pausa, ma poi li rivedi la sera dopo, e quella dopo, e quella dopo ancora. Diventa difficile non riflettere sul ruolo che hai tu nel loro circolo vizioso.

Potresti pensare che sia raro. Non lo è. In ogni locale in cui ho lavorato, ho servito persone che finivano bottiglia dopo bottiglia ogni giorno e continuavano a volerne ancora. Ogni barista che conosco serve persone che bevono così.

Li senti dire: Devo prendermi una pausa, ma poi li rivedi la sera dopo, e quella dopo, e quella dopo ancora. Diventa difficile non riflettere sul ruolo che hai tu nel loro circolo vizioso.

Qualcuno con cui bere si trova sempre, dicono. A nessuno piace stare seduto a casa a bere mezza bottiglia di scotch. Bere la stessa mezza bottiglia con un amico in un ambiente di socialità dà una sensazione diversa. Quando sei da solo, devi versarti ogni bicchiere. Quando i miei clienti abituali si presentavano, lo facevo io per loro. Tra me e loro c’era anche l’accordo non scritto per cui alcuni drink li offrivo io. A volte, l’unica cosa capace di non far bere una persona è il prezzo. Non possono permettersene un altro. Ma se è gratis, passare il segno è più facile.

Chi sono io, pensi, per decidere se beve troppo? Da che pulpito posso dire che il suo comportamento è problematico o che so quello che prova?

All’inizio della mia carriera, pensavo non fosse un problema mio. Monitorare il consumo dei clienti non era tra le mie mansioni, a meno che non diventassero violenti o si sentissero male. Mi dà tuttora fastidio l’idea di un barista che fa la morale al cliente su quanto beve. Non è per questo che si va al bar, sbaglio?

La verità è che lo sappiamo. Un barista capisce chi ha un problema e si trova nella situazione di decidere tra passare per guastafeste o tenersi quella sensazione che ti mangia dentro di star contribuendo a una malattia

Una delle cose più dure di servire chi beve in quel modo non è tanto il senso di colpa, ma il dubbio che rifletti su te stessa. Chi sono io, pensi, per decidere se beve troppo? Da che pulpito posso dire che il suo comportamento è problematico o che so quello che prova?

Ma la verità è che lo sappiamo. Un barista capisce chi ha un problema e si trova nella situazione di decidere tra passare per guastafeste facendolo notare oppure tenersi quella sensazione che ti mangia dentro di star contribuendo a una malattia, o di star mettendo in pericolo quella persona.

Forse nessuno dei miei habitué beveva quando io non ero presente e nessuno di loro lottava contro una dipendenza che li costringeva a entrare nel mio bar invece di tornare a casa. Certo, quando servivo loro da bere non potevo saperlo per certo. Ma il punto è che dovevo servire comunque.

Quando un amico del ristorante morì, tutti i pensieri che avevo—se gli avessi versato dosi troppo generose, se stessi osservando senza far nulla un comportamento autodistruttivo—passarono dall’astrazione alla cruda realtà. La sua morte era stata causata dal troppo bere, dai troppi “ultimo giro”, dalle troppe nottate fino a chiusura—anche se quelle nottate le aveva passate ridendo con gli amici.

Alex* era un uomo di mezza età e forse biologicamente sfortunato, perché l’alcol aveva un impatto maggiore sul suo organismo rispetto ad altri che bevevano in egual misura. In fondo, si è rovinato con le sue stesse mani. O con le mie?

Alex smise di bere quando fu chiaro che la situazione era seria. Ma continuò a venire al bar, infestandolo come un fantasma, sempre più magro, scarno.

Dopo la sua morte, alla veglia, ci ubriacammo da far schifo. Anch’io. Chi, proprio come lui, cominciava e finiva ogni giorno con un goccetto, passò la notte a gozzovigliare. A nessuno venne in mente di menzionare che stavamo facendo esattamente la stessa cosa che aveva ammazzato il nostro amico, ma forse sotto sotto lo sapevamo tutti, ma il dolore che sentivamo era troppo forte e non ci importava. C’è sempre un motivo per farsi un altro giro al bar, se cerchi bene.

Quella sera l’alcol era gratis, e servii più vino e liquori che in tutta la mia carriera. Tornata a casa, vomitai per tutta la notte.

Nessuno nella mia famiglia soffre di alcolismo, ma per chi lavora nell’industria dei servizi e ha parenti con problemi di dipendenza, assistere all’autodistruzione degli habitué può essere una tortura. Ho lavorato con una donna il cui padre era dipendente dall’alcol, e ha continuato a fare la cameriera anche se al bar avrebbe guadagnato meglio, perché servire alcol a un ubriacone sarebbe stato troppo duro per lei. Le avrebbe ricordato ogni momento di come l’alcolismo le aveva impedito di conoscere suo padre, aveva impedito a lui di mantenere un buon lavoro, aveva rovinato i rapporti con i suoi figli e sua moglie e aveva riempito la sua vita di effimeri alti e tragici bassi, tutti legati al fondo di un bicchiere.

Il padre del mio compagno ha l’alcolismo e lui fa il barista dal 1999. A un certo punto, ha deciso di entrare nel settore degli eventi, andando a servire anche più di 2000 persone ogni sera, ma persona che non rivedrà mai più. Ipotizzo che sia il fatto di servire ripetutamente persone che conosci a far attaccare e crescere il senso di colpa. Anche se ha servito una persona con dipendenza dall’alcol, non conosce né lei né la sua storia.

Nel momento in cui ti serviamo da bere, siamo tuoi complici involontari nelle scelte che fai per te stesso.

Nonostante io non sia mai stata dipendente dall’alcol, so quanto bene ti possa far sentire essere ubriaca, quando ogni pensiero negativo si nasconde nei profondi recessi della mente. Durante il mio anno di sobrietà, fui costretta a provare ogni emozione in totale lucidità, cosa che in diversi casi mi spinse fino quasi ad avere un attacco di panico. La vita, da ubriachi, ha gli spigoli arrotondati; la sobrietà è aguzza. E meno divertente. Le persone non sono altrettanto interessanti, i turni di dieci ore strisciano invece di volare e senti la mancanza della socializzazione che per me derivava dalle uscite dopo il lavoro.

Anche oggi, da bevitrice moderata, se bevo più di un paio di giorni di seguito, sento le vecchie abitudini che ritornano. Voglio restare nella terra dei brilli, dove l’ansia e la depressione portano la museruola, come animali che cerchi disperatamente di controllare.

Fare il barista ti dà un grande potere, motivo per cui il lavoro stesso può dare dipendenza, e ti toglie capacità di introspezione.

Ho visto anche persone migliorare. L’amico di Alex, Michael*, che beveva mezza bottiglia di vodka ogni sera oltre a una bottiglia di vino, nei mesi immediatamente successivi alla morte di Alex ha smesso del tutto. Ora beve, ma nemmeno lontanamente come faceva una volta. Durante il giorno è passato dal vino al succo d’arancia. La sera, non finisce nemmeno il bicchiere che prende con la cena.

Ho visto anche persone peggiorare. Una giovane donna che si faceva uno o due drink nelle pause dal lavoro, oggi si assenta di rado dal bar, e di rado ha un conto da meno di 6 o 8 giri (esclusi tutti quelli che le vengono offerti).

Fare il barista ti dà un grande potere, motivo per cui il lavoro stesso può dare dipendenza, e ti toglie capacità di introspezione. Detieni il controllo su questo liquido magico che tutti sono lì per consumare. Controlli letteralmente quanto divertimento e quanta felicità le persone proveranno. A un certo punto, ho dovuto cedere un po’ del mio controllo, o del controllo che mi illudevo fosse mio. Ho dovuto perdonarmi per tutti i bicchieri che avevo servito ad Alex, e dirmi che se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto qualcun altro. Suona come una cosa, ma è l’unica consolazione che ho.

Ma c’è un “e se” nella mia testa: e se mi fossi seduta con lui e gli avessi detto “penso che tu stia bevendo troppo”? E se dicessi ad Ashley, prima che sia troppo tardi, “d’ora in poi non ti servo più di una bottiglia di vino a sera”. Mi ascolterebbe, o sparirebbe senza farsi mai più vedere, e diventerebbe cliente fissa di un altro bar?

I baristi possono darti una spalla su cui piangere dopo la fine di una storia, possono ascoltarti quando ti lamenti del tuo boss, possono essere amici con cui festeggiare ricorrenze e promozioni—ma non sono tuoi pari. Nel momento in cui ti serviamo da bere, siamo tuoi complici involontari nelle scelte che fai per te stesso.

Nel mio ultimo anno da barista, cercavo di aspettare il più a lungo possibile prima di riempire di nuovo il bicchiere vuoto di Ashley. Evitavo di trovarmi sul lato del bancone a cui sedeva, dove le poche gocce sul fondo del suo bicchiere si coagulavano lentamente in una macchia rossa. Lei me lo permetteva. Era come se entrambe stessimo partecipando a questa corsa al contrario, con lo stesso obiettivo di posticipare l’inevitabile, quello che entrambe sapevamo che sarebbe accaduto dopo la seconda bottiglia. Ma a fine serata, accadeva lo stesso. Si stufava di aspettare, e io dovevo versare. Solo una di noi beveva, ma era a causa di entrambe.

*I nomi e, in alcuni casi, alcuni dettagli sono stati cambiati per proteggere la privacy delle persone coinvolte.

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Questo articolo è stato pubblicato in origine su VICE US.