Nel 2008 VICE ha pubblicato True Norwegian Black Metal, un libro fotografico di Peter Beste. Peter ci ha aiutato anche a realizzare il documentario omonimo su Gaahl, frontman dei Gorgoroth e “uomo più odiato” della Norvegia. Dopo aver raccontato la scena black metal norvegese con più onestà e precisione di chiunque altro, Beste ha iniziato a lavorare su un altro progetto a lunga scadenza: un documentario fotografico sulla comunità hip-hop di Houston.
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Dopo nove anni di lavoro, il progetto si è ora trasformato in un libro: Houston Rap. Abbiamo chiamato Peter per parlare di Houston, della rappresentazione mediatica della cultura hip-hop, del Black Power e di come la scena black metal abbia più di qualcosa in comune con le armi, la droga e l’etica DIY del mondo rap texano.
Papa Screw, South Park, 2009
VICE: Ciao Peter. Volevo chiederti qualcosa a proposito del tuo nuovo libro, Houston Rap. Mi ricordo di aver visto qualche foto anni fa. È stato un progetto davvero lungo, giusto?
Peter Beste: Sì, parecchio. Ho iniziato a scattare nel 2004 maera nei miei piani già dal 2000. Il libro doveva uscire qualche anno fa, ma poi ci sono stati degli intoppi durante la pubblicazione. In realtà questa attesa ci è stata utile perché siamo potuti andare più a fondo nella conoscenza della comunità, e a posteriori sono contento di aver avuto più tempo a disposizione. Il libro sarebbe stato più superficiale se l’avessimo pubblicato prima.
South Park, 2005
È stato difficile guadagnare la fiducia della gente e avvicinarsi alla comunità? Questa cosa ha influito sul tempo di stesura del libro?
È stato un fattore marginale, ma sono stato davvero fortunato perché sono stato subito messo in contatto con la gente giusta già nel 2004, come Dope E dei Terrorists, K-Rino e alcuni membri degli Street Military. Questi ragazzi sono molto rispettati nel quartiere, e hanno accettato di portarmi con loro, presentarmi alle persone, e essenzialmente garantivano per me.
Come è cambiato il progetto durante il tempo?
Con il progredire del progetto abbiamo ampliato il concetto iniziale. Ci siamo concentrati meno sui protagonisti della scena rap di Houston, e più sul quadro antropologico di un momento importante della storia americana. Ci siamo occupati di argomenti più succosi come la spiritualità, i deliberati attacchi alla scena da parte del governo, la gentrificazione e un sacco di altre cose personali.
Martin Luther King Boulevard, South Park, 2006
È improbabile che le persone che leggeranno questo articolo abbiano già letto il libro, ma il titolo è quasi fuorviante. Cioè, è vero che ci sono dei rapper all’interno, ma il libro—per tua ammissione—non parla di rap. È più ampio. Si occupa della città e della comunità. Quindi è stato un cambiamento che è avvenuto naturalmente durante la stesura?
Sì, sono cresciuto ascoltando un sacco di rap di Houston. Nei primi anni Novanta ero sconcertato e davvero affascinato dai primi artisti rap, come i Geto Boys, Ganxsta N-I-P e cose così. Anni dopo, occupandomi di fotografia, questo dei rapper mi è sembrato un progetto perfetto per me, quindi ho deciso di rintracciare alcuni di questi personaggi e di fotografarli nel loro ambiente. La mia attenzione all’inizio era concentrata soprattutto su quello, ma con il tempo—e conoscendo meglio queste persone—abbiamo iniziato a fargli le domande giuste, lasciando da parte gli stereotipi e le cazzate che si dicono comunemente riguardo al rap. Voglio dire, quella roba c’è sicuramente nel libro: donne, auto di lusso, e quel materialismo portato allo stremo, senza subbio sono cose che fanno parte di quella comunità. Ma siamo andati molto più in profondità di così. Però, come tutti sappiamo, i media si concentrano soprattutto su certi aspetti. In pratica siamo arrivati a portare avanti uno studio sociologico e antropologico su questa ricca cultura del sud.
In generale, Houston era una città abbastanza trascurata dai media generalisti. Storicamente, se non eri di New York o Los Angeles venivi pressoché ignorato dalla comunità rap—eccetto per i Geto Boys. A causa di questa emarginazione, molti ragazzi hanno cominciato a sviluppare i loro stili musicali, le loro produzioni, e le loro reti di distribuzione—anche le loro droghe, usando lo sciroppo per la tosse e cose così. Non avevano il fiato delle major sul collo a dirgli cosa produrre e come. Ovviamente all’inizio quella di venire ignorati non è stata una loro scelta, ma alla lunga credo sia stato un fatto positivo. Si sono resi conto che, invece di firmare con una major e guadagnare 50 centesimi a cd, avrebbero potuto produrre e distribuire i loro album, vendendoli attraverso le loro reti e riuscire a guadagnare 7 o 8 dollari per album, pur mantenendo l’indipendenza.
Duke of Herschelwood Hardheadz, South Park, 2006
Questa cosa mi ricorda le vecchie etichette indipendenti soul negli anni Sessanta—l’idea di creare un’etichetta in una piccola città, registrare tutto in un piccolo posto e poi pubblicarlo, incuranti del fatto che la Motown e tutti gli altri li ignorassero.
Già, ho molto rispetto per loro e la loro etica DIY. Arrivo dalla cultura punk, quindi è qualcosa che condivido e ammiro.
Hai fotografato la scena grime londinese nel momento del suo massimo splendore, o almeno prima che fosse fagocitata dal mainstream. Credi che ci sia qualche similitudine fra queste due scene? Queste scene insulari, trascurate, commercialmente insostenibili che si autoproducono e si costruiscono un vero e proprio mercato?
Be’, ho lavorato sul grime per un tempo relativamente breve, ma sì. Sono stato a Londra nel 2005 e non mi sono occupato in profondità dell’argomento come con la scena di Houston, ma ero attratto dall’etica che condividevano e dall’abilità di raccontarti qualcosa di unico mentre ti parlavano del posto da dove venivano e delle cose che avevano vissuto. Una delle cose che hanno in comune sono le reti interne di distribuzione che diffondono quello che viene prodotto, tipo le emittenti radio pirata, che poi è lo stesso modo in cui i nastri di DJ Screw furono prodotti e diffusi. Questa rete fai-da-te di Screw era paragonabile alle radio pirata di Londra che diffondevano musica alle loro condizioni, con poca influenza esterna e poco supporto.
Z-Ro, Missouri City, 2006
Nonostante tu abbia fatto un confronto fra queste diverse scene di cui ti sei occupato, immagino che ci siano contaminazioni culturali abbastanza limitate fra i rapper di Houston e il ragazzi norvegesi che suonano black metal.
Ironia della sorte, sono cresciuto alle porte di Houston e ho scoperto che mi sentivo più a mio agio in Norvegia che nel cortile di casa mia. Ci sono delle similitudini: sono entrambe sottoculture musicali con le loro regole e la loro etica, oltre che alla loro estetica. In questo senso sono simili. Ma naturalmente l’etica di cui ti parlo è diversa. Non vedo altre similitudini. Anche i problemi che ho dovuto affrontare sono stati simili—ho dovuto guadagnarmi il rispetto di entrambe le comunità. Ci sono riuscito grazie a un atteggiamento umile, scattandogli qualche foto e tornando mesi dopo per mostrargli come fossero finite su alcune riviste. Nel tempo i rapporti si sono fatti più stretti, e una cosa ha tirato l’altra…
South Park, 2008
Prima dicevi che il libro contiene anche rimandi alla cultura rap mainstream, ma questo immaginario è in contrastato con le foto che ritraggono la povertà e le difficoltà della vita quotidiana che affliggono molti americani. La tua idea sullo stile di vita dei rapper è cambiata dopo aver visto interagire questi due mondi?
Uno dei miei obiettivi principali in entrambi i progetti era quello di mostrare come l’apparenza delle comunità fosse in contrasto con gli elementi più reali e umani che venivano fuori dopo aver scavato un po’ più in profondità—sia che si trattasse di metallari truccati che di rapper in auto costose circondati da donne e armi. Per molti è questa l’immagine che viene proiettata all’esterno. Ogni 50 foto circa riuscivo a ottenerne una in cui catturavo l’aspetto più reale e personale. E quelle immagini comunicheranno qualcosa a un sacco di gente che si interessa al rap. Se non fosse stata una cosa così profonda non ci avrei messo così tanti anni a realizzare il progetto. Lo stesso vale per la Norvegia: se fossero stati solo dei ragazzini a cui piaceva disegnare croci rovesciate nei boschi mi sarei annoiato subito. In entrambi i casi, più entravo nella loro cultura, nel profondo delle loro storie, dei loro valori e delle loro famiglie, più capivo che erano storie universali e non confinate a quel quartiere. C’era un equilibrio sottile da perseguire: da una parte mostrare la facciata della scena, dall’altra le persone vere che la compongono.
Non avevo una formula precostituita; ha inciso molto l’aver avuto un buon editor, Johan Kugelberg, che è stato in grado di aiutare me e il mio co-autore Lance Scott Walker a scegliere le foto e i testi giusti per attirare l’attenzione di un pubblico più vasto possibile. Eravamo così immersi nella scena di Houston che era diventato difficile valutarla obbiettivamente. Abbiamo dovuto procedere con cautela, cercando di produrre un buon libro d’arte, e al contempo fare in modo che i protagonisti fossero felici della loro immagine e della rappresentazione della loro scena.
Third Ward, 2004
Alcune persone nel libro sono sostenitrici del Black Power e di varie altre filosofie. Questo è stato un ostacolo ulteriore per riuscire a guadagnarsi la loro fiducia?
La maggior parte dei ragazzi che sostenevano quei movimenti non ci hanno giudicato per il colore della nostra pelle, capivano che avevamo intenzioni oneste ed eravamo consapevoli della loro cultura. Ad esempio, Dope E dei Terrorist—il ragazzo con in mano il fucile che si affaccia dalla finestra delle Black Panther—è diventato uno dei nostri migliori amici, e ci ha aperto molte porte. Credo che la loro battaglia contro “l’uomo bianco” non abbia molto a che fare con il colore della pelle, ma con il potere oppressivo del sistema.
Questa era una cosa che non avevo capito a pieno all’inizio del progetto. C’era un po’ di scetticismo iniziale all’interno della comunità riguardo al fatto che due ragazzi bianchi se ne andassero in giro con macchine fotografiche e registratori, perché temevano comprensibilmente di venire sfruttati. Nel momento in cui hanno capito che le nostre intenzioni erano buone e che volevamo ritrarli sotto una luce onesta, molte di queste barriere sono crollate.
Grazie Peter.
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