Fa talmente caldo che il mio cellulare si è spento tre volte a causa della temperatura elevata, ma pareggio la figuraccia grazie alla connessione di Frah Quintale che gioca qualche brutto scherzo. In un modo o nell’altro riusciamo a portare a casa l’intervista, benedetti anche dalle campane delle chiese che suonano di sottofondo e dai bei video in anteprima per noi delle sessioni in studio che potete ammirare in accompagnamento all’articolo, video peraltro realizzati e montati da Frah Quintale stesso presso l’UndamentoHQ.
“Non saprei proprio dire cosa è meglio o peggio, mi manda un po’ in sbatti,” mi dice Frah Quintale a riguardo della lista che gli ho chiesto di stilare. “Quindi ho fatto una classifica temporale di pezzi importanti che hanno cambiato delle cose. Canzoni selezionate pensando al mio percorso artistico fin qui, che mi hanno portato alla pubblicazione di ‘Banzai (Lato Blu)’”
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“Adesso che ho un po’ più di occhi addosso, c’è l’ansia di fare bella figura, è normale. Ma il segreto del fare musica bella è essere contenti in primis di quello che si fa.”
Frah è a Milano nella sua nuova casa, è uscito il suo nuovo secondo album Banzai (Lato Blu) ed è contento, mi dice. Adesso è più rilassato, ma solo “un pochino di più, perché manca ancora mezzo disco da uscire e se mi rilasso non si fa più un cazzo,” se la ride.
Frah però sembra essere riuscito a dominare l’ansia da prestazione e tutte quelle paranoie giustificate che assalgono gli artisti alla vigilia del loro secondo lavoro in studio: “Adesso che ho un po’ più di occhi addosso, c’è l’ansia di fare bella figura, è normale. Quindi sì, c’è un po’ di pressa, più che altro nelle aspettative degli altri,” mi dice. Però mi svela anche il suo trick per non viversela male: “Alla fine mi son detto di fare robe come piacciono a me, perché il segreto del fare musica bella è essere contenti in primis di quello che si fa. E così ho cercato di fare, senza la sbatta di cercare di dover accontentare tutti”.
Banzai (Lato Blu) ha il colore di Blue Note, come le copertine jazz col filtro blu che gli piacciono tanto, ed è “blue” anche nel mood un po’ malinconico. “È un disco molto più personale rispetto a Regardez-Moi, che rispecchiava la musica italiana di quel momento, mentre Banzai è proprio il mio viaggio, e non solo per le ispirazioni alla black music, R&B, ecc., ma proprio perché è la musica che mi piace fare e che facciamo noi,” mi spiega quando gli domando della svolta stilistica dell’album.
Che poi, ultimamente si parla molto di R&B in Italia, gli faccio notare, “Semplicemente perché stanno arrivando delle cose che seguono questo filone, sta prendendo piede,” risponde. “A volte le cose devono sedimentare, devi dirlo nelle interviste così che la parola salti fuori e la gente possa dire ‘ah adesso è R&B la cosa che va’. Secondo me l’Italia funziona molto come un condominio per quel che riguarda la musica. E poi c’è la corsa a voler dire di esserci arrivati per primi.”
“In Banzai (Lato Blu) c’è un botto questa roba della ciclicità e della rinascita, anche dell’utilità dei momenti di merda. Ci ho ragionato un sacco.”
Il disco comunque ha un taglio molto personale anche nel concept: nato dopo tre anni dal fortunato debutto, è il traguardo di un percorso a ostacoli tra cambiamenti, “sbatti”, traslochi, un successo che se non stai attento ti fa sbroccare, tour e tutte le implicazioni del caso di quando da regaz della strada diventi, all’improvviso, Frah Quintale, “quello del Graffiti Pop”. Ma come la saggezza popolare ci insegna, a volte dobbiamo perderci per ritrovarci e metabolizzare i cambiamenti, ed è proprio quello che è successo: “Nel disco c’è un botto questa roba della ciclicità e della rinascita, anche dell’utilità dei momenti di merda. Ci ho ragionato un sacco, così come sulla pressa e le tappe obbligate di cui parlavo prima. Fa tutto parte della crescita interiore”.
Una domanda mi sorge spontanea: “Di che segno sei, Frah?”, “Capricorno,” mi risponde. Come sospettavo dalla sua attitudine al lavoro sodo e dal suo orientamento naturale verso la qualità, e dal modo di prendere di petto i momenti bui, ma soprattutto dalla sua calma—che, non a caso, è anche il titolo della sua collaborazione con Deda.
Una pazienza esistenziale che sembra scandire ogni sua scelta artistica, “È proprio una roba di equilibrio: a volte è giusto anche mollare lo studio e andare in giro a sbronzarsi o farsi una doccia. Io invece ho questa cosa che sono mega focused,” mi racconta. “Ma non va bene, a volte servono anche i periodi in cui non fai un cazzo per poi tornare a fare bene. Per questo mi sono sempre preso il mio tempo: quando era giusto uscire sono uscito, quando era giusto non uscire non sono uscito, è mega importante secondo me”.
Prima di passare alla classifica vera e propria dei suoi momenti più significativi, gli pongo la domanda delle domande, chiedendogli in cosa è cambiato dai tempi dei Fratelli Quintale a oggi. “Sono più consapevole di alcune di cose, sono anche più indirizzato al lavoro (taaac, ecco il Capricorno, NdA). Fratelli Quintale è nata come una roba molto più regazness, in garage, invece dalle ultime cose dei Fratelli Quintali ho iniziato a capire quanto sia il caso di indirizzare e curare tutto. Da quel momento, mi è partito il feticcio sull’estetica, la curatela delle copertine, mi sono messo in gioco sotto tanti aspetti. È cambiato anche il mio modo di scrivere, diventato più personale e autobiografico,” per poi rivelare, “Ho mollato anche un po’ di machismo che viene proprio dalla delivery del rap e dal fatto di essere una crew, che si deve rappare in un certo modo, si deve dire delle cose. Ho fatto più ricerca su me stesso, che sul mondo che stavo rappresentando”.
“Fratelli Quintale è nata come una roba in garage, invece poi ho iniziato a capire quanto sia il caso di indirizzare e curare tutto. Ed è cambiato anche il mio modo di scrivere, diventato più personale e autobiografico.”
Gli chiedo di approfondire questo fatto del machismo, “Diciamo che ci sono dischi di 15 anni fa che se uscissero adesso la gente direbbe che sono bestialità. Ovviamente sono cambiati i tempi, sono arrivati anche altri codici, ma delle cose comunque rimangono, perché le bitches si nominano ancora. Alla fine però fa parte di quel linguaggio e codice, giusto o sbagliato che sia. Non spetta a me deciderlo, però, secondo me, è giusto che ci siano più direzioni, non c’è solo quel modo di fare di fare rap”. Ma, ora, spazio alla classifica.
1. COLPA DEL VINO (2016)
Noisey: Perché proprio “Colpa del vino”?
Frah Quintale: È stata la mia prima uscita solista e ha definito tutto l’immaginario Undamento. Per il video avevamo fatto questa festa e portato tipo 80 macchinette usa-e-getta Kodak che poi abbiamo dato alla gente presente. Il video, infatti, è fatto con le immagini scattate durante la festa e poi scansionate, oltre che con alcune riprese. Dopo ci siamo pigliati bene con questo mondo qua della fotografia analogica. Biagetti (Tommaso, del team Undamento, NdA) ha iniziato a fotografare solo in analogico ed è partito tutto il nostro immaginario. Quindi è stato anche l’inizio di una nostra definizione estetica come collettivo. Poi il pezzo mi gasa, è uno dei miei prefe.
2. GRAVITÀ (2016)
È un pezzo importante perché segna il passaggio dal rappare al “melodico”—anche se già in “Colpa del Vino” c’è il ritornello cantato. Ma “Gravità” è stata la prima roba più vicina al pop, dove ho mollato un po’ il rap. Inoltre, è stata la prima canzone un po’ feelings e love, un po’ cantato, e per me è stata mega importante.
Secondo te, i fan hanno capito questo tuo dualismo stilistico?
Ci sono vari livelli di ascolto e di ascoltatori. I fan veri che ascoltano e conoscono i pezzi capiscono e gli piace; poi c’è il livello “Ah sì, Frah Quintale, conosco un pezzo” a cui non gliene frega manco un cazzo. Alla fine non è importante cosa si è, ma quel che si fa, cioè se una roba è bella o meno. Io mi sento qualche carta in più da giocarmi, è più figo, è positivo, mi annoio di meno anch’io, direi (ride, NdA).
Con Banzai (Lato Blu) ti sei voluto scrollare un po’ di dosso l’etichetta del Graffiti Pop?
Diciamo che ho un po’ sofferto negli anni, almeno da Regardez-Moi, di essere stato messo nel calderone dell’Indie italiano; cosa che, per carità, ha fatto anche del bene al progetto. Però il mio background è totalmente diverso. Ci tenevo a marcare una linea senza menarmela, ma in modo da dire che i miei ascolti vanno più verso la black music. Che poi fa mega ridere che la roba del Graffiti Pop è nata in un’intervista, se non sbaglio proprio per Noisey, in cui mi chiedevano di definire il mio genere e io ho detto tipo “street pop, perché siamo regaz che veniamo dalla strada, però miriamo al pop” e da lì poi è nato Graffiti Pop. Cazzo, fa ridere che è una roba che ho detto in gag e Spotify ci ha fatto una playlist. Dovevo fare il copyright.
3. 8 MILIARDI DI PERSONE (2017)
È stato il primo singolo di Regardez-Moi, che tra l’altro era andato di merda (ride, NdA). All’inizio aveva fatto 800 streaming in un giorno, una roba marcissima, però, appunto, anche in questo caso c’era molto più cantato, iniziava a sentirsi il discorso di fondere il rap con la roba più “suonata”. Poi, forse, è stato anche il primo singolo a fare disco d’oro, se non sbaglio, non sono sicuro. È un pezzo che ha preso vita molto lentamente, ma cazzo è arrivato di brutto, anche a distanza di un anno: alla fine è esploso.
Com’è nata questa storia di unire rap al melodico?
Non so bene, io già un po’ cantavo e mi piaceva l’idea. In più, secondo me, sono sempre stato più bravo a cantare che a rappare. Se mi paragono ai miei colleghi, rap-parlando, ho uno stile molto più mio e definito, perché fuori da certi stilemi del rap. Col cantato sono bravo, credo di avere una bella voce. La sapevo usare e ho un buon orecchio, e quindi ci ho provato, anche per distinguermi, e ho mischiato i due aspetti. Poi, sinceramente, mi stavo rompendo le palle a rappare e basta, mentre con le melodie puoi fare un botto di robe in più. Mi sembrava che mi completassero.
4. CRATERE (2017)
È stato il pezzo che ha iniziato ad allargare, è brutto da dire, il bacino di utenza (ride, NdA). Un po’ di addetti ai lavori hanno iniziato a scrivermi, il videoclip è andato molto bene, c’era questa roba della testa di cartapesta che faceva la sua sporca figura, ed è stato il pezzo che mi ha aperto poi la porta per infilare il pezzo successivo, ovvero…
5. NEI TRENI LA NOTTE (2017)
Forse la roba più figa in assoluto che ho fatto ad oggi, uno dei pezzi a cui tengo di più. È arrivato dopo qualcosa di leggero come “Cratere”, mentre “Nei treni la notte” è mega pesante in confronto. È nata da tutto un anno e passa in cui ho fatto avanti e indietro da Brescia a Milano, l’ho scritta in un periodo struggle in cui non mi entrava un cazzo con la musica e non riuscivo a combinare niente. Un momento di frustrazione in un anno un po’ sballottato che ha prodotto questo, quasi tutto in freestyle, ho proprio acceso il microfono e registrato al volo. Poi è mega struggente, un po’ serenata. Volevo che uscisse anche questo aspetto: “Io sono quello di ‘Cratere’, però vengo dai regaz che si fumavano le stagnole, dai treni, dal bisogno di scappare da un posto per realizzare le proprie cose”. Una bella storia da raccontare, credo.
Questo pezzo ti è servito anche per farti conoscere a 360° e affermare anche una certa “realness” al tuo personaggio di artista?
Sì, poi a volte mi sembra di rompere i coglioni, però penso che sia figo raccontare anche cosa ti ha spinto a fare quello che fai. Io quasi non mi sento neanche un musicista, nel senso che mi piace fare un po’ di robe sul versante artistico e la musica, al momento, è la cosa che mi dà più possibilità e mi diverte. Ma se non facessi musica forse starei facendo qualcos’altro di “artistico”.
“Io quasi non mi sento neanche un musicista, nel senso che mi piace fare un po’ di robe sul versante artistico e la musica, al momento, è la cosa che mi dà più possibilità e mi diverte.”
Poi, immagino che mostrarsi per quello che si è aiuti anche a creare un legame più forte coi propri fan. Penso sia una delle tue carti vincenti, come di Undamento in generale.
Facevamo questo discorso l’altro giorno: uno fa musica e, a una certa, inizia a parlare di sé proiettato come personaggio pubblico famoso, iniziando a fare sempre riferimento all’Io, come a piazzarsi sul gradino più alto del podio. Ci sta, per carità, però magari l’ascoltatore non si identifica più. Invece, personalmente, cerco di vivere una vita il più normale possibile per poterla raccontare nelle robe più semplici. Tanto più che già di mio sono molto riservato, mi faccio molto i cazzi miei, quindi non ho questa brama di successo. Ho sempre cercato di mantenere i piedi per terra e di pensare in primis alla musica, perché non voglio che un po’ di attenzione in più stravolga la mia attitudine. Bisogna rimanere se stessi, senza snaturarsi e rimanere limpido il più possibile.
6. SI, AH (2017)
È un pezzo su cui nessuno aveva scommesso. Per quel periodo sembrava assurdo che un pezzo così potesse funzionare. Per noi era quasi un filler del disco, però aveva già un po’ di sonorità che andavano verso la roba black che mi piace, come la batteria alla J Dilla. Questo brano ha fatto tanto per aprire un’altra piccola porticina sulla roba black che mi piace. È un pezzone secondo me, anche se alla fine parla di scopare, però in modo figo, cioè è tenero e non greve.
7. 64 BARS (2018)
È un pezzo che ha fatto tanto gioco per potermi tenere legato anche al rap, che resta qualcosa che mi piace ancora fare un botto, a cui tengo tantissimo. Non pensavo che una roba così di 64 barre, con tutta la strofa rappata, potesse piacere, e invece live la cantano tutti.
Come è nata la collaborazione con Bassi Maestro?
Con lui ci avevo già collaborato, aveva mixato un disco dei Fratelli Quintale, quindi già ci conoscevamo. È stato figo anche perché questo pezzo, credo sia stata l’ultima roba rap italiana che ha fatto prima di cominciare il progetto “North of Loreto”. Poi Bassi è stato per me un padrino: il primo pezzo rap italiano che ho sentito è stato “Giornata di Cazzeggio” e quindi è stato mega-sogno, per me, lavorare insieme. Se ripenso alle note audio in “Lungolinea”, sono il frutto di anni di ascolto dei dischi rap italiani in cui Bassi era un capo a fare ‘ste robe degli skit, con Sano Business, era figo.
Bassi è stato per me un padrino: il primo pezzo rap italiano che ho sentito è stato ‘Giornata di Cazzeggio’ e quindi è stato mega-sogno, per me, lavorare insieme.
Ha aiutato a darti, concedimi il termine, la “street credibility” necessaria per restare legato alla scena rap?
Sì, sì. Comunque già venivo da un collettivo, i Fratelli Quintale, ma questa roba con Bassi, in un momento in cui stavo facendo della roba un po’ più indie/pop, è stata come la famosa mano sulla testa per dire “lui, comunque, è dei nostri”. Lavorare con Bassi è come dire che c’è del supporto anche da quella scena, è stato importante per me.
8. 2% feat. Gue Pequeno (2018)
In realtà è un pezzo del Guè, io non è che ho fatto tanto, però è una bella collaborazione, proprio perché non è il classico feat. dove chi viene ospitato sul pezzo fa o la strofa o il ritornello. Io ho cantato dei cori che penso abbiano fatto tanto per questo pezzo, l’hanno aperto un po’ musicalmente. In più, Guè è un altro di quelli che ti mette la mano sulla testa, un sogno della vita che si è avverato. Per me Mi Fist, ma i Club Dogo in generale, sono stati proprio la mia adolescenza, quindi quando mi hanno chiamato ho corso, mi sono gasato. Guè in studio è stato mega friendly, uno che lascia un botto di spazio a chi chiama, proprio un signore. Poi è uno dei pezzi più ascoltati di Sinatra, quindi mega soddisfazione.
9. MISSILI feat. Giorgio Poi (2018)
Perché ha fatto di brutto, cioè “instant blessing”. Poi, vabbè, collabo con Giorgio, un artista che stimavo un botto, ma che non avevo mai beccato benché poi siamo diventati molto amici. È un singolo che ha avuto una vita lunghissima, è stato anche ritirato fuori con Summertime di Netflix, e ha fatto molto anche per me, aprendomi un botto di porte anche a livello di attenzioni e visibilità.
Come è nata la collaborazione?
In quel periodo mi divertivo a fare anche l’autore ed è successo che Takagi & Ketra avevano chiesto di me ai regaz di Undamento e quindi abbiamo organizzato una session. Arrivo in studio e mi fanno sentire ‘sto pezzo fatto da Giorgio Poi, con solo la base e il ritornello. Era una bomba, mi ha gasato. Il giorno dopo mi hanno chiesto di tirare fuori qualcosa su quel pezzo e ho fatto le strofe di “Missili”: le registro, parte il pezzo, lo ascoltiamo, strofe, ritornello, le nostre due voci che cambiavano, davvero molto figo. Ci siamo guardati e ci siamo detti “Vabbè, ce lo teniamo noi questo pezzo”. Sono mega contento della scelta.
“Ogni pezzo è importante, soprattutto per me che viaggio in questo spazio che non si capisce bene se pendo di più da una parte o dall’altra, ti dà un equilibrio su cui camminare.”
Come “Chapeau” con Carl Brave, “Missili” è stato un momento importante per consolidarti nella scena It Pop?
Sì, assolutamente, in modo diverso perché “Chapeau” era una roba più di Carlo e del suo disco, mentre “Missili” mi ha ridato equilibrio dall’altra parte, quella indie/pop. Ogni pezzo è importante, soprattutto per me che viaggio in questo spazio che non si capisce bene se pendo di più da una parte o dall’altra, ti dà un equilibrio su cui camminare. “Missili”, in un momento in cui avevo fatto un “2%” e un “64 Bars”, mi ha rimesso in moto anche dall’altra parte.
10. BUIO DI GIORNO (2020)
Secondo me, di Banzai, è quello che cristallizza questa idea di fare il cazzo che voglio, quel che piace a me. È un pezzo molto estremo, anche mia madre quando l’ha sentito ha detto “ma è strano, tutto in falsetto, ma cosa hai fatto?” Però ci sta, era importante farlo perché è stata un’altra piccola porta che mi ha permesso di fare delle robe un po’ più matte. È stato un pezzo di rottura rispetto a quello che c’era prima, e per arrivare a questa libertà dovevo passare da un pezzo così. Tra l’altro, la barra “Nascerà un fiore col tuo nome” è un po’ il concept della copertina, in cui ci sono io in mezzo a un botto di fiori e piante.
Cosa significa quella barra?
Vuol dire tante cose, anche mentali. Parla di rinascita, di fare le proprie cose e, per me, richiama il discorso della ciclicità. Ma è anche un omaggio alla barra di Esa che diceva “Coltivo dove tutti hanno detto che non cresce un cazzo” su “Play Your Position” degli Otierre. Per me, è anche una roba di speranza, forse.
“Mi sono ispirato a Thundercat, ma anche al giro Stones Throw che faceva tutte robe cantate così, o anche MonoNeon, un bassista mattissimo.”
Com’è nata l’idea del falsetto?
Boh, non lo so, ero in studio, ho fatto ‘sto synth e mi sembrava mega sognante, volevo dare l’idea che fosse una specie di voce della coscienza. Mi sono ispirato a Thundercat, ma anche al giro Stones Throw che faceva tutte robe cantate così, o anche MonoNeon, un bassista mattissimo. Volevo provare anch’io. Mi è uscito prima il testo, poi, appunto, volevo cantarlo in questo modo per dare l’effetto da paranoie in testa e dialogo con se stessi. Era, anche, un periodo che mi uscivano delle robe mega rap e ho voluto provare col falsetto, volevo proprio cambiare. Mi annoio alla svelta e ho sempre bisogno di trovare la robina nuova.
BONUS: LA CALMA prod. Deda (2020)
Con Deda è stato assurdo. C’è questa chat che si chiama “Nomi Matti”—dove, in sostanza, io e alcuni amici storpiamo i nomi dei personaggi famosi e diciamo cazzate, e c’è anche Crookers. Un giorno, mi dice che aveva beccato Deda e che voleva entrare in questa chat. Poi Deda mi ha scritto in privato e mi ha chiesto se volevo sentire dei suoi beat, se volevo farci delle robe sopra e io “Minchia, bro, di brutto, figa” e così me le ha mandate durante il lockdown. Gasatissimo, ho scritto la strofa al volo, ma poi sono passate due settimane prima di mandargliela perché ero in para, proprio mega ansia da prestazione (ride, NdA), tanto che lui mi ha scritto “Non mi hai fatto sapere niente” e io “No, vecchio, ho già scritto, ma ero in para”. Gli ho mandato il pezzo, si è gasato, e un giorno in studio ho deciso di buttarla fuori così, che secondo me è figo.
Immagino sia stato pazzesco, per te, collaborare con Deda.
Sì, per me lui è un king, uno degli artisti che più mi ha segnato. Fare questo pezzo è stato un po’ come rendere omaggio a tutta la musica che ho ascoltato e che mi ha portato a fare quello che faccio adesso. Se vent’anni fa mi avessero detto che avrei fatto questa roba, non ci avrei mai creduto. È bello, non pensavo di arrivare a farlo, invece adesso mi ritrovo 40 beat di Deda sul computer, è assurdo, sembrano proprio le cose che ci ascoltavamo da ragazzini. Davvero emozionante, ed è un modo per restare legato anche alle mie radici. Poi, rientra in un discorso più ampio: magari un ragazzo di 15 anni scopre la roba mia da “Missili” e poi si va a sentire questo pezzo e da lì, chissà, va a sentirsi Sangue Misto. È come lasciare qualcosa ai posteri, è bello.
“Ognuno deve essere libero anche di ignorare la musica, non bisogna per forza essere dei cultori di tutto. Però, io sono convinto che aprire una porticina sulle cose del passato fa in modo che si riesca a far comprendere meglio quello che si sta facendo ora.”
Quanto è importante, secondo te, conoscere le radici di un artista?
Ognuno deve essere libero anche di ignorare la musica, non bisogna per forza essere dei cultori di tutto. Però, io sono convinto che aprire una porticina sulle cose del passato fa in modo che si riesca a far comprendere meglio quello che si sta facendo ora. Io ogni tanto sto in fissa con i sample, vado ad ascoltarmeli tutti e vedo che magari un pezzo rap hardcore è nato da uno soul anni ‘60. In questo modo capisci un botto, anche della produzione, sotto tanti aspetti. Al di là del discorso dell’omaggio, è importante perché ti aiuta a immergerti completamente in un ascolto nuovo, se sai da dove proviene.
Di Lungolinea (2018) cosa puoi dirmi?
Era una playlist che aggiornavamo su Spotify, dove mettevamo i pezzi, i provini, i messaggi, e che poi si è trasformata nell’edizione speciale di Regardez-Moi. È stato un utilizzo di Spotify inusuale, che abbiamo usato un po’ come un social. Alcuni pezzi sono entrati nel disco perché l’ha voluto la gente. Ad esempio, “Accattone” era un pezzo che avevo fatto a caso ma che è piaciuto. È come se avessimo creato uno scambio col pubblico.
Prima di salutarlo e lasciarlo col suo gelato biscotto che, concordiamo entrambi, “è molto Anni Ottanta”, gli chiedo qualche anticipazione sulla seconda parte del disco, questo leggendario Lato Rosso che in realtà non è rosso, mi svela. “Non l’ho ancora detto che colore sarà, però non l’ho nemmeno smentito perché mi gasa il fatto che la gente si sia già fatta il viaggio sul colore. Forse hanno pensato alla storia del Festivalbar che aveva il disco blu e rosso (ride, NdA)”.
“Mi ritengo mega fortunato perché non sento questa roba del bisogno di dover cacciare un disco ogni sei mesi. Secondo me è bello anche aspettare i dischi”
Per il resto non si sbottona, ride e aggiunge solo che deve ancora finirlo. E, soprattutto, vuole pensare a questo disco, lasciargli un po’ di vita, fargli fare il suo tempo, il secondo lato arriverà quando sarà il suo momento.
“Mi ritengo mega fortunato perché non sento questa roba del bisogno di dover cacciare un disco ogni sei mesi per la para di sparire. Secondo me è bello anche aspettare i dischi,” e aggiunge, “sono cambiato in questi 3 anni. Non so se in bene o in male, però è un’evoluzione che ho messo nel disco e si sente. Sono dovuto passare in mezzo a delle porte importanti, e bisogna anche prendersi del tempo per passarci. Quando fai passare più anni tra un disco e un altro, certe differenze le noti e le apprezzi di più”. E comunque “Noi Capricorno ci prendiamo il nostro tempo”.
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