Se c’era una da cui non ci aspettavamo uno scivolone del genere nello squallido territorio dell’ipocrisia, questa è M.I.A., che per un motivo o per l’altro ci aveva sempre più o meno convinti che sì, le piacesse fare la popstar, ma le importasse pure dire la sua su alcuni fenomeni per la quale la sua storia personale avrebbe potuto darle credibilità. “Borders”, nuovo capitolo del suo impegno a favore dei migranti e contro i conflitti raziali è uscito da troppo poco tempo perché lei abbia fatto in tempo a rincoglionirsi.
Il fattaccio è il seguente: è partita proprio oggi una campagna per cui Maya si è offerta come testimonial e ha regalato un suo brano inedito come jingle. Era stata già annunciata da diverso tempo ma solo oggi il pezzo è stato pubblicato in forma integrale, con tanto di coreografie e bassone catchy. Per quanto possa apparire come un raro atto di decenza da parte di una multinazionale, questo invito a riciclare i propri abiti dismessi con lo slogan “Rewear It” non è che una patetica foglia di fico con cui il marchio svedese cerca di coprire una storia che, come per la maggioranza dei produttori di indumenti per il consumo di massa, è fondamentalmente costruita su una montagna di abusi, magagne e bugie.
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La questione non è infatti così semplice come Hennes & Mauritz vogliono farvi credere: se da una parte la campagna risponde ad anni di critiche per le enormi quantità di cotone necessarie a mantenere costante il carico di prodotto della catena di fast fashion, per le percentuali altissime di non-biologicicità di quello stesso cotone, e per le altrettanto ingenti quantità d’acqua necessarie a coltivarlo, dall’altra, come scrive Lucy Siegle del Guardian, persino la data di inizio della promozione è decisamente sospetta. Aprile è, infatti, il mese in cui da qualche anno si tiene regolarmente la Fashion Revolution Campaign, iniziativa che prova a promuovere il consumo responsabile, l’acquisto di prodotti la cui manifattura non sia stata inquinata da abusi, sfruttamento o qualsiasi tipo di condizioni lesive della dignità e della salute dei lavoratori.
Insomma si tratterebbe di puro greenwashing: questo perché le condizioni di lavoratori tessili nelle fabbriche che hanno H&M come unico cliente in Bangladesh, e Cambogia continuano ad essere al di sotto degli standard di dignità e sicurezza che permetterebbero di non essere archiviati sotto la voce “sfruttamento”. Nonostante infatti l’azienda si sia impegnata (anche incontrando rappresentanti dei governi locali) a firmare accordi che prevedono sia il miglioramento delle condizioni economiche dei loro lavoratori che la messa in sicurezza degli impianti, movimenti come Clean Clothes ancora gli rimproverano di non avere prodotto dati certi che giustifichino i millantati “grandi progressi”, e di non avere mosso un dito perché gli operai di quelle nazioni possano finalmente ottenere la possibilità di aggregarsi in forma sindacale. Allo stesso tempo, Quartz ha riportato che in Bangladesh, le fabbriche assoldate da H&M sono ancora tragicamente indietro con il lavoro sulla sicurezza degli impianti, che nel paese notoriamente ad alto rischio di disastro. Parliamo dello stesso paese in cui nel 2013 il crollo di una fabbrica ha ucciso mille e cento operai e ne ha feriti duemila e cinquecento.
Ma oltre al danno, la beffa: pare proprio che la campagna non servirà a granché. L’obiettivo di riciclare mille tonnellate in dodici anni vi pare ambizioso? Be’, è quanto un fast fashion macina in QUARANTOTTO ORE. Ma fa niente, perché l’iniziativa permetterà comunque alla multinazionale di invitare i suoi consumatori a continuare a comprare sprecando ancora più risorse, ma stavolta con ancora meno riserve, perché tanto l’ambiente l’abbiamo salvato con la inutile “buona azione” compiuta. Per cui ci dispiace tanto M.I.A., ma ti stai rendendo colpevole di un’operazione “fumo-negli-occhi” su scala massiva, e in gioco, oltre all’ambiente, ci sono delle vite umane.