Studiando questi libri non solo capiamo cosa si mangiasse nel passato, capiamo, ad esempio, perché i ricchi morissero prima dei poveri: perché si mangiavano enormi quantità di carne putrefatta ricoperta di spezie, a differenza dei poveri che mangiavano cereali e legumi
A Roma ti puoi ritrovare davanti al Colosseo, tanto quanto entrare in un cortile a caso e scoprirci un antico circolo degli scacchi. C’è così tanta roba che a volte non te ne accorgi nemmeno: passi accanto a una colonna di oltre duemila anni fa, come se fosse invisibile.
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Se si passeggia in via dei Cerchi, accanto allo spelacchiato Circo Massimo è proprio così che ci si sente: di guardare il visibile invisibile. Tra i portoni, incastonata in un complesso mimetizzato, a cui si accede da un cortile, c’è una biblioteca-museo a tema cibo. Si chiama Garum, come l’intruglio saporito a base di interiora di pesce degli antichi romani, antenato della colatura di alici, ed è completamente gratuito. È frutto di un’idea di Rossano Boscolo, collezionista, chef e fondatore di una delle più importanti accademie di cucina, Campus Les Etoile, nella Tuscia.
In un ex convento stipato di teste antiche e capitelli, entri improvvisamente in uno spazio piuttosto grande e cominci a perderti in oggetti da cucina mai visti —c’è un’intera sezione sugli strumenti per fare il gelato—di cui non solo non conoscevi l’esistenza, ma che sono pure piuttosto rari.
“Questo era uno stampo da sorbetto, siamo nel 1600,” mi racconta Matteo Ghirighini, direttore della struttura. In una stanza sono praticamente racchiusi secoli di storia attraverso pentolame e zagole per burro. “Qui invece abbiamo invece il primo gioco di cucina per bambini, uno dei primi fornetti a gas, parigino, della prima metà del 1800.”
L’idea non era quella di mettere semplicemente dei libri antichi in delle teche, ma di creare una storia di come le abitudini alimentari siano cambiate nel corso dei secoli.
Lo scopo di Garum non è quello di spiattellare al mondo la collezione di oltre 200 libri antichi o rari e altrettanti innumerevoli oggetti per cucinare. È piuttosto quella di creare cultura e storia laddove di cultura e storia si parla veramente poco. “Non abbiamo messo solo le rarissime ciotole da monaci in legno (sono rarissime perché non aveva alcun senso tenersele, NdR), mi racconta Matteo. “Abbiamo anche i primi stampi dei cioccolatini in plastica per far capire alle persone come si sono evolute certe tecniche e certi gusti.”
Se il primo piano è il regno di pentole e stampi da charlotte (l’ultima, giuro: hanno anche pentole siglate con i nomi degli chef o dei ristoranti in cui lavoravano. Della serie che l’ego in cucina non è roba di oggi), il secondo è la vera chicca del luogo. O almeno per me, che mi emoziono come un bambino davanti ad antichi libri. Il primo piano di Garum è interamente dedicato alla collezione di libri di Rossano Boscolo: circa 130 libri e riviste (una parte della collezione di 3500) che vanno dalla prima edizione lionese del De Re Coquinaria di Marco Gavio Apicio del 1541 al manifesto della cucina futurista. “È iniziato tutto perché dovevo formarmi e formare i ragazzi quando ho aperto il campus nel 1985 e da informazione è diventato puro collezionismo,” mi racconta Rossano Boscolo. “Ogni collezionista, arrivato a un certo punto della collezione, vuole condividerla con gli altri: per questo è nato il museo-biblioteca Garum”
“L’idea non era quella di mettere semplicemente dei libri antichi in delle teche,” mi racconta Matteo. “Era quella di creare una storia di come le abitudini alimentari siano cambiate nel corso dei secoli. Quindi si parte dall’opulenza del servizio nelle corti medievali e si arriva alla cucina della beat generation passando per la cucina dell’economia autarchica fascista.” Ognuno di questi libri non racconta semplicemente delle ricette: è un percorso che è un’indagine antropologica e sociale dell’uomo attraverso il mangiare. “Abbiamo studiato la società da un sacco di punti di vista, che fossero scientifici o letterari, ma quasi nessuno l’ha fatto attraverso la cucina.”
Mi fermo un attimo ancora, scorro tra le ricette e ci trovo quella del Supplì: una delle prime è del 1832.
Il 90% dei libri che si trovano qui sono prime edizioni. C’è una delle primissime edizioni de il Platina, primo vero libro di cucina, del 1475. Una copia di Bartolomeo Scappi della prima edizione, cuoco del ‘500 alla corte di Papa Pio V. Ma anche libri di mestieri e strumenti che ci fanno capire come avvenivano preparazioni e servizi. “Il Medioevo e il Rinascimento sono i periodi in cui bisognava ostentare opulenza: le tavole erano imbandite con un sacco di piatti e c’era moltissima carne, che si copriva di spezie un po’ perché erano simbolo di ricchezza e un po’ perché non c’erano frigoriferi: si doveva coprire il sapore di carne rancida. Questo aspetto non ci fa capire solo cosa mangiassero: ci dice anche perché i ricchi morissero prima dei poveri, mangiandosi sempre queste enormi quantità di carne putrefatta a differenza dei poveri cristi che mangiavano cereali e legumi.”
Scorrendo la collezione si trova anche la prima ricetta di un sugo al pomodoro, di fine 1600, fatta da un cuoco alla corte dei reali napoletani. “Tanta gente scrive e dice cose a caso: anche la cucina ha le sue fonti, che vanno conosciute. C’è chi dice che nel sugo al pomodoro ci mettessero un ingrediente piuttosto che un altro: qui lo puoi sapere con certezza.”
Si scopre come incominciano a essere usati gli ingredienti che venivano dall’America (siamo stati diffidenti per circa tre secoli), come si inizia a parlare di cucina francese e, ovviamente, come dal modello di cucina francese che tutti in Europa seguivano, si è arrivati alla nostra cucina tradizionale. “Nell’800 Europa voleva dire Francia: Napoleone era dappertutto. Ma diciamo che la Francia è sempre stata un po’ il faro della cucina, con le sue corti. Arriva un certo punto, però, in cui fa il suo ingresso in campo una prima forma di borghesia che, unita al patriottismo di un’Italia appena nata, fa in modo di separare la cucina francese da quella italiana.”
Di fatto, i nuovi piccolo borghesi volevano iniziare a mangiare a un livello più elaborato. Ma la cucina francese era costosa e complessa: quindi si rispolverano tutta una serie di ricette regionali prese dai quaderni delle nonne. Le ricette vengono riprese da riviste di editori locali, accessibili praticamente a tutti, ed è così che nasce la nostra cucina tradizionale.
“Di questa rivista,” mi dice Matteo, “abbiamo anche l’edizione contraffatta. Per far capire quanto fossero diffuse e quanto siano state importanti per la diffusione delle nostre ricette.” Nella collezione, di questo periodo, c’è anche una prima edizione dell’Artusi, colui che ha messo nero su bianco un sacco di ricette italiane, in italiano corretto e corrente. “È uno dei pezzi più importanti che abbiamo: è una delle tre copie in prima edizione dell’Artusi.”
La figata qui è che non sono dei libri agonizzanti fissi in una teca: oltre all’aspetto storico e antropologico, c’è quello del libro come cosa viva. Matteo non ha paura di mettervi queste edizioni del 1500 in mano.
Finita la storia della cucina europea condensata in una stanza, ci spostiamo nella biblioteca: “La gente può prenotare e venire anche a consultare moltissimi libri di cucina. Proprio l’altro giorno una signora ci ha dato un quaderno dove parrebbe esserci la prima ricetta del tiramisù mai trovata.” Più avanti ci sarà anche una libreria specializzata e una serie di cene immersive in cui godersi una cena presa dal menu di uno zar, di una corte settecentesca o di assaggiare il primo vero sugo al pomodoro.
Mi fermo un attimo ancora, scorro tra le ricette e ci trovo quella del Supplì: una delle prime è del 1832, dell’Agnoletti (un nome un programma), nel suo Manuale del Cuoco e del Pasticcere, dove si racconta che bisogna in sostanza cuocere il riso, riempirlo con del salpiccone —in pratica di ragù-, panarli e friggerli. “Pare che la prima a metterli in menu sia stata l’Osteria della Lepre nel 1874, a livello popolare. E che si chiamasse così perché c’erano molti francesi in città, durante l’occupazione napoleonica, che rimanevano meravigliati dalla gustosa sorpresa contenuta nel riso. O probabilmente volevano fregarli e per farglieli comprare lo chiamavano con questo nome accattivante.”
C’è chi si emoziona con un film, io lo faccio con la ricetta originale di una palla di riso.
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