Cultura

Viviamo in tempi strani, e la nostra casa non ci protegge più dal mondo esterno

Uno scrittore spiega perché da anni viviamo una crisi dell'abitare, reale e metaforica, e cosa ha fatto la pandemia per aggravarla.
Daniele Ferriero
Milan, IT
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Illustrazione via AdobeStock.

In questi mesi, per via della pandemia, abbiamo passato molto più tempo ‘dentro’: dentro le nostre case, ma anche dentro noi stessi—probabilmente cambiando un po’ il rapporto che abbiamo con entrambi gli aspetti. In questa serie a un anno dai primi cenni di lockdown, vogliamo analizzare il come e il perché. Possibilmente in una luce positiva, perché sul resto abbiamo scritto abbastanza.

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Se l’impressione di vivere in un periodo storico bizzarro era forte già prima del 2020, nell’ultimo anno è arrivata la conferma più o meno definitiva. E dato che la stranezza è diventata la norma, forse l'unico modo per conviverci è quello di comprenderne il significato e la portata storica, psicologica e culturale. È proprio quello che ha tentato di fare Gianluca Didino nel suo Essere senza casa, un libro uscito per minimum fax proprio nel mezzo dalle prima ondata della pandemia.

Al suo centro l'autore ha piazzato il concetto di "crisi dell'abitare", in senso reale e metaforico, tra scossoni del mercato immobiliare e terrorismo, migrazioni di massa e cambiamenti climatici, oltre, chiaramente, alla pandemia tuttora in corso.

Per cercare di sbrogliare la matassa, e capire cosa è successo a questa idea di "casa,” ne ho dunque parlato con l'autore.

VICE: Il tuo libro affronta tutti i principali temi del contemporaneo, dalla crisi climatica passando per quella politica e personale. Perché al suo centro hai posto l'idea della casa e la "crisi dell'abitare"? Qual è stato lo spunto iniziale?
Gianluca Didino:
Direi senza dubbio la situazione di precarietà esistenziale in cui la mia ragazza (oggi mia moglie) e io ci siamo trovati dopo Brexit: avevamo lasciato tutto in Italia e ora che ci stavamo sistemando in Inghilterra eravamo diventati immigrati tollerati a fatica da una grossa fetta del paese.

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Questo, e il suicidio dello scrittore Mark Fisher nel gennaio 2017. Leggendo Fisher, e poi lavorando alla postfazione di The Weird and the Eerie, mi sono reso conto di come la crisi dell’idea di casa e la stranezza dei tempi fossero intimamente collegati.

Nell’ultimo anno siamo stati praticamente chiusi in casa. Com’è cambiato, secondo te, il nostro rapporto con il luogo in cui abitiamo?
Si potrebbe argomentare che la pandemia ha invertito la tendenza dell’essere senza casa dandoci fin troppa casa, ma sarebbe un errore: in realtà i due aspetti sono facce della stessa medaglia. Le migrazioni e le dinamiche del capitalismo spinto, entrambi fattori che producono l’essere senza casa, hanno prodotto forme di irrigidimento dei confini come Brexit e i sovranismi.

Il virus—diffuso e accelerato da dinamiche come la compenetrazione di ambienti umani e animali, nonché la globalizzazione—ci ha chiusi in casa. Una casa fragile o assente, e una casa tirannica e “sclerotizzata,” sono i poli di una stessa malattia dell’abitare nel mondo che viviamo oggi.

In che modo la pandemia ha influito sulla già fragile “barriera psicologica” tra la sicurezza della nostra casa e i pericoli del mondo esterno?
La paura per quell’insicurezza provocata dall’essere senza casa ci fa irrigidire i confini; anche le soglie di casa—o del paese, o dell’identità personale—si irrigidiscono. Il che è psicologicamente comprensibile ma anche un errore, perché i mostri che bussano alla porta vanno fatti entrare, altrimenti diventeranno sempre più violenti e ingestibili.

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Quanto può essere adatto a questa "crisi dell'abitare" uno stile di vita incentrato sulla mancanza di un appartamento, e che piuttosto preferisca scegliere la vita in camper o simili?
Ci sono infinite sfumature di “crisi dell’abitare”, dai senzatetto (che sono sempre di più, purtroppo) a chi cresce i figli dormendo sui divani degli amici; oppure chi vive con i genitori fino a cinquant’anni e chi cambia città ogni anno o giù di lì, come i ricercatori universitari.

Una fetta crescente di popolazione in Occidente vive una qualche forma di “crisi dell’abitare,” e ovviamente non mi avventuro nelle condizioni terribili e precarie che si trovano fuori dall’Occidente e nei confronti delle quali la nostra “crisi” impallidisce.

Per l’appunto, ultimamente si parla sempre più di “fuga dalla città”, ritorno in campagna o in provincia (tanto c’è lo smart working). Secondo te, può essere una soluzione o è una trovata più di “marketing” che altro? E quali altri sviluppi vedi nella relazione tra noi e la nostra casa?
Mi sembra piuttosto l’opposto: tutte le stime dicono che entro qualche decina di anni i tre quarti della popolazione mondiale vivrà nelle città, anche se magari non in centro. Certo, lavorare da casa permetterà di spostarsi di più nei sobborghi, magari. È una grande trasformazione di cui, credo, oggi nessuno possa prevedere gli effetti.

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E alla luce di tutto questo, che rapporto vedi tra la sproporzione di uffici e immobili vuoti o sottoutilizzati e un mercato immobiliare che offre soprattutto appartamenti piuttosto piccoli e a prezzi sostenuti?
Sicuramente le città dovranno cambiare: quel genere di speculazione edilizia rampante che ha caratterizzato gli anni Dieci doveva esplodere prima o poi, e può darsi che la pandemia abbia accelerato il crollo.

Pensi che in questi mesi il rapporto di tutti noi con Internet sia cambiato, vista la permanenza in casa? O semplicemente i processi già in atto hanno subito un'accelerazione?
Parlerei sicuramente di un’accelerazione di dinamiche già presenti: per dirla con James Bridle, siamo già da un pezzo nella “nuova era oscura”. Ora ce ne stiamo accorgendo in massa. Sicuramente la nostra vita verrà ulteriormente stravolta dalla pervasività delle tecnologie, ma non vedo per ora niente di radicalmente nuovo all’orizzonte, niente computer quantici o cose del genere, solo un’estremizzazione di ciò che già viviamo.

Però per sempre più persone Internet sta diventando praticamente l'unica finestra sul mondo esterno. Come incide questa cosa?
Intanto, possiamo dire che ci siamo disabituati a un certo genere di interazioni sociali faccia a faccia. Ma ora come ora è difficile stabilire quanto questo tipo di rapporti siano stati davvero radicalmente alterati.

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Possiamo invece affermare che prima Internet era un tramite verso qualcosa, anche solo la scoperta di un nuovo gruppo da andare a sentire dal vivo. Ora, invece, in un certo senso è diventato l'inizio e la fine del percorso, visto che non si può andare da nessuna parte. E questo credo che in qualche maniera rimarrà.

In fondo, adesso ci sono più cose che si possono fare da casa tramite Internet. Ma al tempo stesso alcune cose che all’inizio della pandemia sembrava si potessero fare nella propria casa, in realtà si son dimostrate non adatte (per esempio, i corsi online di arti marziali o lo yoga).

Nel tuo libro affronti anche la frantumazione delle narrazioni contemporanee, nella letteratura e nelle serie tv, così come nelle stories e nei social. Qual è secondo te il futuro che ci aspetta, in questo senso?
Quello della narrazione è un tema a cui tengo molto perché in fin dei conti sono nato scrittore e (poi, di conseguenza) critico letterario, quindi le storie sono molto importanti per me. La frammentazione della narrazione è un grave problema, perché ha fatto letteralmente a pezzi l’idea di un mondo condiviso. Viviamo tutti nelle nostre bolle che hanno pochissimo a che spartire con quelle degli altri e quindi siamo sempre meno in grado di comunicare.

Uno dei tanti effetti è che poi il tuo vicino di casa si convince che Bill Gates ci sta iniettando microchip nel sangue attraverso il vaccino. Però, in realtà, tu che sei nella tua bolla convinto che l’ultima uscita Adelphi sia la cosa più importante del mondo o che Bernie Sanders instaurerà il nuovo socialismo non sei molto meglio, entrambi avete perso la visione d’insieme. Questo è molto pericoloso, foss’anche solo perché ci sono persone capaci di agire in questi “punti ciechi” e proporre narrazioni tossiche che minano i fondamenti della convivenza civile.

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