In questi mesi, per via della pandemia, abbiamo passato molto più tempo ‘dentro’: dentro le nostre case, ma anche dentro noi stessi—probabilmente cambiando un po’ il rapporto che abbiamo con entrambi gli aspetti. In questa serie a un anno dai primi cenni di lockdown, vogliamo analizzare il come e il perché. Possibilmente in una luce positiva, perché sul resto abbiamo scritto abbastanza.
Mentre scrivo sono a Milano, la città dove vivo da dieci anni e che mi ha sicuramente plasmato. Sono pugliese, uno dei tanti trapiantati qui, e mi sento parte di entrambe i luoghi. Del resto, uno dei miei sogni dichiarati è sempre stato di vivere un po’ di qua, un po’ di là, e già da tempo ragionavo su come avrei potuto realizzarlo. Poi è arrivata la pandemia.
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Sono a Milano, sei mesi dopo averla lasciata per tornare in Puglia per le “vacanze lunghe” insieme alla mia fidanzata. Ho un contratto a tempo indeterminato in uno studio di design, e lavoro in remoto dal lunedì dopo il primo caso di Codogno, quindi farlo dalla Puglia non ha modificato granché la mia vita lavorativa (a parte poter fregiarmi del titolo di “south worker”).
C’è un piccolo dettaglio che non ho ancora citato: sono a Milano, ma sono qui per svuotare casa e tornare a Conversano, il mio paese, per i prossimi sei o nove mesi. Con la mia ragazza, Simona, siamo arrivati a questa decisione perché, benché ci piaccia Milano, non ha senso vivere in un piccolo bilocale spendendo quasi un terzo del nostro stipendio e senza una parvenza di vita da città.
In Puglia mi sento bene, ma sono consapevole che dal ritorno ho vissuto un po’ come un turista, senza dovermi confrontare con la vita quotidiana (tipo entrare in un ufficio pubblico). E non ho dovuto nemmeno rinunciare ai pregi della città, come ristoranti, musei e concerti, perché ora semplicemente non ci sono.
Non sono l’unico in questa situazione. Secondo uno studio di Citrix realizzato da OnePoll su un campione di mille lavoratori della conoscenza in Italia, il 57 percento sarebbe disposto a trasferirsi in un’area rurale, potendo svolgere il lavoro in modo flessibile; addirittura, il 53 sarebbe disposto a ridursi lo stipendio pur di lavorare in remoto senza vincoli. Per il 39 è la pandemia la ragione del cambio di prospettiva: la città è diventata meno importante per sviluppare la propria carriera (la percentuale di chi lo reputa ancora un fattore decisivo è calata dal 55 al 36).
Non è un fenomeno solo italiano, ovviamente: con tutte le attività spostatesi online, c’è un’università londinese che ha spedito i suoi studenti per un semestre in un borgo sperduto della Calabria, mentre negli USA sono schizzate le ricerche di case fuori città.
Però, ecco, è ancora difficile capire cosa succederà (e cosa mi chiederà di fare l’azienda dove lavoro a emergenza rientrata). Ho chiesto a un po’ di persone con lavori adattabili al remoto—perché va detto, la cosa vale solo per alcune professioni—di raccontarmi come e perché hanno deciso di cambiare aria.
Mariano Daga, 27 anni, ora in Sardegna
Mariano ha una professione decisamente milanese, infatti fino a marzo 2020 viveva a Milano. Lavora in un’agenzia di influencer marketing, ed è tornato in Sardegna in pieno lockdown. A riportarlo a casa non è stata la nostalgia, ma un avvenimento spiacevole: un lutto. A farlo rimanere è stata ancora l’inerzia degli eventi.
“Ero sicuro di voler tornare a Milano. Ricordo esattamente il giorno della ripartenza: ero all’aeroporto, il volo era stato cancellato e nello stesso momento il capo aveva inviato una mail comunicando che dal giorno dopo avremmo lavorato in remoto fino a nuove disposizioni.” Così Mariano ha deciso di fermarsi un altro po’, e a maggio 2020 ha svuotato casa a Milano. “È stato difficile, dopo otto anni, tornare dove sono cresciuto. Ma ho pensato a cosa fosse più giusto per la mia salute mentale. Ho scelto perché ho potuto farlo, e forse perché avevo anche bisogno di questo.”
La sua decisione “non è definitiva, ma neanche temporanea.” Non gli manca “quella Milano dove ‘tutto ha un prezzo,’ spesso troppo caro, e le mie passioni, le mie necessità venivano meno. Nel mio futuro non voglio più metterle da parte. Quest’anno mi ha svuotato dall’ansia di ‘arrivare’ e mi ha fatto vivere meglio il presente.”
Virginia Sofia Crivelli, 25 anni, ora all’Elba
Virginia, illustratrice e graphic designer, prima del Covid viveva e studiava a Firenze. Dopo un lockdown sul quale preferisce sorvolare, ha finito gli esami a distanza ed è partita per l’Isola d’Elba, lasciando casa per cercarne una nuova dopo l’estate. Poi è successo quello che è successo: “Era ottobre, mi trovavo ancora sull’isola e la curva dei contagi stava salendo. Prima hanno posticipato l’anno accademico, poi è iniziato di nuovo con la didattica a distanza. Ho avuto paura di passare un altro lockdown in città, così ho deciso di restare.”
Anche se la sua università sta tornando alla didattica in presenza, Virginia è ancora all’Elba. Vive da sola, ma sta bene e paradossalmente ha più punti di riferimento lì che in città. “Però non c’è davvero niente da fare, e quel poco che c’è è chiuso.” Da designer, sente la mancanza delle mostre e degli eventi: “Mi sembra di starmi inaridendo da quel punto di vista. Ma nulla mi vieterà, in futuro, di farmi un weekend in città quando avrò bisogno di ispirazione. Per ora non mi pongo il problema e aspetto di capire se questo inverno mi romperò.”
Alla fine della nostra conversazione, le chiedo cosa ha imparato da questa esperienza: “Vivo con meno ansia. Quando ancora dovevo finire un lavoro a Firenze, avevo bisogno di farne entrare subito un altro. E un altro ancora. Qui ho imparato ad accontentarmi di fare meno ma meglio.”
Luciano Marchetti, 33 anni, ora in Puglia
Come nel mio caso, la scelta di Luciano di tornare a Manduria—in Puglia, dove ha vissuto fino ai 18 anni, prima di trasferirsi con la famiglia a Como—è maturata nel tempo, ma tutto è iniziato con un evento casuale: “Con la scusa di una produzione [Luciano è direttore creativo], ho portato un cliente a girare un cortometraggio nella mia zona. Mentre ero lì, mi sono detto ‘Ok, sto giù per un po’.’ Sono passati sette mesi.”
Luciano non intende tornare indietro, anche se sente lo stacco fra città e provincia. È una storia nota: noi provinciali siamo combattuti fra un misto di assuefazione e rassegnazione, e la voglia di smentire i pregiudizi. Luciano spera che molti suoi compaesani possano cambiare prospettiva: “Vorrei potessero vedere e sentire quello che vedo e sento io dopo essere tornato, quei piccoli piaceri quotidiani che meritano di esser protetti e comunicati meglio. C’è tanta noncuranza, uno stato di abbandono mentale e fisico che porta il meridione a non evolversi.”
La sfida più difficile, probabilmente, è stata ricostruire i contatti con gli amici del liceo, ma come si direbbe nel dialetto di Manduria, Luciano ha “spramintato”, imparato che tutto può cambiare da un momento all’altro. Quando gli chiedo se avere un lavoro non legato a un luogo fisico e una casa di proprietà non siano sicurezze che lo mettono in una posizione di privilegio, mi risponde: “Intendi scendere e avere la possibilità di godere della casa di famiglia? Di andare al mare in pausa pranzo? Di lavorare con un piccolo router portatile ovunque? Se intendi tutto questo, sì, sono privilegiato. Ma prima di oggi forse non me ne ero reso conto.”
Silvia Salmeri, 35 anni, ora in Calabria
A ottobre 2020 Silvia ha deciso di trasferirsi a Soverato con il marito Nicola, calabrese, e il figlio Enea. Proprio i primi mesi di vita del figlio, passati nel bilocale di 40 metri quadri senza balcone nel centro di Bologna, sono stati la spinta definitiva. Il Covid ha infatti accelerato un processo già in atto: con Nicola avevano già passato del tempo a Soverato, lavorando a distanza, ma non avevano mai considerato un trasferimento.
Oggi Silvia non si pente: Bologna, gli amici e la famiglia le mancano, ma quando torna, paradossalmente, sa che non ha troppo tempo e apprezza di più i momenti passati insieme.
La Calabria le ha insegnato “ad apprezzare la bellezza delle cose semplici della vita, ad avere pazienza, a essere meno giudicante e a guardare tutto da più punti di vista. Al Sud è più evidente come non ci sia una sola realtà assoluta, e quello che può sembrare spesso non è. Ciò non vuol dire che non ci siano problemi, ma non voglio soffermarmi su questo: vorrei si raccontasse di più anche quello che funziona. Spero nel mio piccolo, anche grazie al mio lavoro [Silvia si occupa di “turismo ispirazionale”], di riuscire a farlo.”
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Abbiamo letto storie diverse fra loro, attraversando diversi pezzi dell’Italia, ma il dubbio amletico rimane: stare qui o tornare alla vita di prima? Forse la soluzione è nella liquidità di Luciano, o forse dovrei prendere una scelta più radicale, come Silvia. Mi sento un po’ come Mariano, combattuto ma anche più consapevole. E invidio un po’ Virginia, che ha deciso di isolarsi, soprattutto quando tira vento e internet non va.
Ma forse l’unica è accettare che il 2021 è questo: un altro anno in cui non ci capiremo un cazzo.