Mentre aspetto che arrivi Priestess, nella sede milanese di Universal stanno passando in loop il video di “Bad Guy” di Billie Eilish che, curiosamente, vedo lì per la prima volta. Lo guardo e mi esalto, pensando a quanto sia potente e figo il fatto che una musicista così giovane se ne freghi di aderire a qualunque canone estetico legato al mondo del pop femminile.
Poi, come se ci fosse una connessione tra ciò che passa su quel maxischermo e la realtà, ecco entrare Alessandra Prete in arte Priestess, vestita con una tuta arancione fluo da stradino, i capelli trasformati in una criniera di treccine nere che le arrivano in fondo alla schiena, anfibi di vernice nera che fanno po’ gothic e un po’ raver, catena al collo con lucchetto di rimando punk ’77, rossetto rosa e ombretto dorato come i maxi orecchini. Tutto giusto, caotico e attuale, penso.
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Ma ad Alessandra, pugliese classe 1996, tutto questo lo dirò solo a fine intervista, con il registratore spento, perché una partenza così, per un’artista che di interviste ne ha rilasciate pochissime e che, mi ha spiegato a priori il suo ufficio stampa, convive con un’enorme timidezza, mi suona troppo invasiva. Inizio, allora, da Brava, il suo primo album, un argomento che la fa realmente illuminare, alla faccia del “monte di ansia che accompagna questa uscita, perché spero con tutto il cuore che vada davvero bene”, e sorridere come una bambina. Le vedete, no, le sue foto con la faccia da dura? Ecco, di quell’espressione non c’è stata traccia per tutta la durata della nostra conversazione.
Lei lo ha definito un concept album perché, mi spiega, “ha come filo conduttore le figure di donne, reali o immaginarie, che danno il titolo alla maggior parte dei pezzi. Ci sono Monna Lisa, Crudelia, Eva, Fata Morgana, Brigitte, Alice, e in ognuna di loro c’è un pochino di me. Ho voluto scrivere la mia storia, o un pezzo di essa, attraverso le loro personalità”. Monna Lisa è il senso e il gusto per il mistero; Alice accompagna un’ammissione purissima di insicurezza e fragilità; ma soprattutto “Brigitte, che è anche il mio secondo nome, perché mi chiamo davvero Alessandra Brigitte, qui è riferito alla Bardot, una donna che ho ‘studiato’ e che mi ha appassionata tantissimo. Non si tratta solo di un’icona degli anni Sessanta, ma anche di una donna molto forte, indipendente, che a un certo punto se n’è fregata dello star system e ha pensato ai fatti suoi, s’è ritirata in campagna, e s’è data alle battaglie in difesa degli animali. Fighissima”.
Al netto delle donne-icone, Brava è un disco denso, che si prende la scena come se la prende la sua autrice, ed è fitto di simboli, come quelli religiosi “che rimandano in parte all’educazione cristiana che mi hanno dato i miei, che è ben impressa nella memoria anche se poi crescendo non l’ho coltivata, e in parte al fatto che gioco molto con il mio stesso nome d’arte, che significa sacerdotessa, quindi le croci, i ceri, la Vergine Maria sono parte necessaria del repertorio”, così come è vario nelle sonorità. La ragione di queste sfumature così diverse tra i pezzi sta in quella che mi sembra essere uno dei fattori cruciali nel senso del fare musica di Priestess, ovvero il gioco di squadra.
Ombra, Dub.IO e Kang Brulèe sono i ragazzi magici di Alessandra, quelli che si sono chiusi in studio con lei e le hanno fatto germogliare intorno ispirazioni diversissime, “perché vengono tutti e tre da mondi e generi in antitesi. Ombra mi ha dato quel tocco più intimo a cui, abituata com’ero alla scuola di canto, dove la tecnica conta più del contenuto, ero poco abituata; Dub.IO viene dal punk e mi ha dato delle belle lezioni di aggressività; Kang fa elettronica e trap, quindi con lui ho lavorato alle parti più fresche del disco”.
Ma ci sono altri due “fratelloni”, come li chiama Priestess, dentro Brava, e sono MadMan e Gemitaiz, unici due artisti presenti come featuring (un po’ in controtendenza rispetto a un momento in cui si sta, forse, eccedendo in senso opposto) e, alla faccia del marketing, due collaborazioni praticamente scontate, dato il lungo e stretto rapporto tra i tre, che, da tre anni a questa parte, li ha sempre visti l’uno dentro il disco e il concerto dell’altro. “Pensa”, racconta Alessandra, “che quando ero ragazzina e andavo a scuola con il pullman, in cuffietta avevo sempre MadMan e Gemitaiz. Erano i miei idoli. E tre anni fa è successo che ho conosciuto i miei miti grazie a Ombra, che lavorava già nella label Tanta Roba, e che per primo mi ha fatto conoscere Mad. Un incontro fatale, in senso positivo, ma anche assurdo, a ripensarci, perché mi ha subito buttata nel suo disco Doppelganger, in cui duetto con lui in ‘Devil May Cry’ e ‘Non esiste’. Conoscere Gem è venuto di conseguenza e, visto che parlo poco di queste cose, ne approfitto per sottolineare quanto entrambi siano stati di enorme supporto per me, e quanto della mia scrittura debba alla loro scuola. Oggi averli nel mio disco è un enorme onore. Già solo questo per me è un traguardo enorme”.
E qui Ale si emoziona visibilmente, tant’è che, per farle tirare fuori di nuovo la badass che è in lei, decido di stuzzicarla un po’ chiedendole se pensa che ancora oggi esista un problema di sottovalutazione delle rapper donne italiane, non solo da parte del pubblico ma anche di alcuni colleghi, ma lei mi prende in contropiede, e al posto della frecciata tira fuori un’analisi asciutta e lucida della faccenda: “Io penso che sia un problema di paura. Le donne rapper qui da noi sono una novità e le cose nuove, diverse, destabilizzano, spaventano, siamo circondati da fatti che dimostrano questa tesi. E allora che si fa con ciò che mette paura? O lo si fa diventare un nemico giurato o si cerca di sminuirlo, di renderlo innocuo quando innocuo non è. E comunque, raga, c’è poco da fare: questo è sempre più il nostro momento, siamo di più e siamo più forti e questa cosa mi rende molto felice”. Nessuna competizione? “No, è un motivo di gioia vedere che ci sono altre ragazze che condividono il mio stesso sogno, sono sincera”.
Per questo quando le chiedo se crede nella sorellanza, la risposta è immediata: “Avoja: per me sorellanza vuol dire fiducia e avere la stessa visione delle cose, com’è successo con MYSS KETA, Elodie e Joan Thiele, con cui ho collaborato per ‘Le ragazza di Porta Venezia‘ e con cui, soprattutto, sono diventata e rimasta amica”. Dato che è un po’ che parliamo, le devo far notare che probabilmente è vero che è timida, ma mi sembra anche che le interviste le riescano piuttosto bene, ma lei nicchia, sussurra che si sta trovando a suo agio, ma sfugge un po’ via con lo sguardo. Decido di riportarla nel suo, cioè sul palco, dov’è tutt’altro che timida. “Ma sai”, risponde, “lì una grande mano la dà il pubblico, che ti carica gridando il tuo nome, o accogliendoti con energia. Questo mi fa sentire forte, libera di esprimermi, perché nella vita sarò anche timida, ma sul palco voglio essere un leone e spaccare. Voglio che la gente si ricordi di me”.
Siamo anni luce, oggi, dalla prima volta che Priestess si è esibita ed è stata accolta “dai soliti cori faccela vedè, faccela toccà, che comunque, ti dirò, anche se non dovrebbero proprio esistere, mi hanno aiutata, perché lì ho capito che ero più grande di quella roba. Me ne sono altamente fregata e con la mia DJ Arianne siamo andate avanti dritte e abbiamo spaccato di brutto”.
Il finale lo lascio ad “Alice”, la canzone più intima del disco, dove Priestess canta “Mi volevi magra fino all’osso / Ho perso il gusto delle mie papille / Davvero faccio quel che posso / ‘Ste stronzate non voglio sentirle”: “Alice è un brano che parla di un periodo in cui mi sono sentita a disagio nel mio corpo, in cui avevo un cattivo rapporto con lo specchio, e penso che capiti davvero a qualunque ragazza, ma trovo sia ingiusto che succeda. Noi siamo ingiuste verso noi stesse. Ecco, quella canzone è un urlo, uno sfogo contro me stessa, per spronarmi a essere la mia migliore amica, non la peggiore nemica”.
Abbiamo un ultimo scampolo di tempo che uso, mentre già ci alziamo per salutarci, per chiederle che forma pensa di dare al suo tour, “ma anche su questo”, chiude, e le leggo un leggero sollievo sul volto, “vorrei dire il meno possibile, per lasciare che sia una vsorpresa per chi vorrà partecipare. L’unica anticipazione che mi sento di dare è che sarà diviso in due parti: la prima più trap, più aggressiva, e la seconda più intima, più conscious”. E così lascia la scena, come se l’era presa, la stanza si svuota e rimane molto ancora da chiedere, e nella testa mi suona un pezzo di “Monna Lisa” che dice “potevi fare di meglio / potevo essere tua”. Già.
Vai a vedere Priestess in tour:
10 maggio – Padova, Parco della Musica (ingresso libero)
14 maggio – Milano, Santeria Social Club
17 maggio – Roma, Largo Venue
18 maggio – Bologna, Covo
19 maggio – Torino, Off Topic
26 luglio – Udine, Udine Vola
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