Sulla razza

Cosa significa decolonizzare la bellezza?

I canoni di bellezza, nella nostra società, sono ancora il frutto di standard imposti nel corso dei secoli da una cultura dominante.
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Illustrazione di AdobeStock/Good Studio.

Questo è un approfondimento della seconda puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata al colorismo, una discriminazione estetica che colpisce le donne nere con la pelle scura. “Sulla Razza”, di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Esce a venerdì alterni, e puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.

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Se il concetto di razza così come lo intendiamo oggi è un prodotto del colonialismo, similmente anche i canoni di bellezza nella nostra società non sono che il frutto di standard imposti nel corso dei secoli da una cultura dominante. Questi canoni di bellezza eurocentrici fatti di carnagione chiara e capelli lisci sono stati inventati, imposti e venduti a tutto il mondo, attraverso creme, make up e prodotti per capelli. Sono anche nei filtri Instagram, se ci pensiamo.

Un po’ di persone spiegano cos’è, secondo loro, la razza

Ma mentre il colonialismo—almeno formalmente—è finito, questi standard rimangono. Per questo, negli ultimi anni, sempre più donne appartenenti a minoranze hanno iniziato a parlare della necessità di “decolonizzare” i canoni di bellezza occidentali. Questo per rompere quel sistema di lettura della bellezza in chiave razziale che, nella pratica, danneggia la salute mentale e fisica di tantissime persone in tutto il mondo.

La seconda puntata di Sulla Razza affronta il colorismo in quanto discriminazione che va a toccare diverse “intersezioni”, come la razza, il genere e la classe. In questo articolo ci concentriamo sulla decolonizzazione della bellezza e su come l'Occidente continui a mercificare prodotti e pratiche appartenenti ad altre culture. Lo facciamo con un’intervista a Mai Vi Ferraro, fondatrice italo-vietnamita di Opera Zero, una linea di cosmesi artigianale che vuole promuovere un’industria beauty più onesta, consapevole e rappresentativa.

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Mai Vi Ferraro. Foto per gentile concessione dell'intervistata.

VICE: Cosa significa decolonizzare la bellezza, e perché è importante che questo processo avvenga?
Mai Vi Ferraro:
Decolonizzare la bellezza significa contribuire all’idea che questa vada al di là delle norme create sulla base di valori patriarcali, razzisti, transfobici, grassofobici e coloniali. Norme che fanno sì che la bellezza sia riconosciuta e accettata solo in corpi che riflettono i canoni che conosciamo tutti.

Spesso portiamo in noi e perpetuiamo queste credenze che associano la bellezza a un corpo bianco, magro, abile e binario in maniera inconscia, mentre sarebbe importante prendere coscienza dei privilegi legati all’estetica e all'aspetto, anche in modo politico. E questo riguarda non solo le donne. 

Mi piace pensare che nel momento in cui parliamo pubblicamente di questi temi con un senso di responsabilità e apertura, stiamo manifestando in parola, articolando e dando forma a una bellezza che è già decolonizzata.

Ci puoi parlare di come cerchi di farlo tu?
Nel mio lavoro ho voluto provare ad avere un approccio decoloniale anche attraverso le formule cosmetiche che scelgo per i prodotti. Molte delle materie prime e delle parole utilizzate nell’industria cosmetica per descrivere le formule hanno un approccio eurocentrico. 

Un esempio è come certe materie prime vengano definite “esotiche”— pensiamo a un certo uso della parola “orientale”—abbellendole a scopo di marketing, con miti di popolazioni indigene che possedevano questo miracoloso ingrediente. Anche se il colonialismo è apparentemente finito, inoltre, persiste la pratica di appropriarsi di materie prime di altri paesi e di renderle “alla moda” qui in Occidente. 

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Ma chi beneficia veramente della vendita di questi ingredienti o delle pratiche provenienti da altre culture? 

Ti viene in mente qualche esempio di pratiche tradizionali reinterpretate in modo ‘svilente’ in Occidente? 
Ti faccio l’esempio del gua sha: in Occidente è utilizzato per ragioni estetiche, il ringiovanimento della pelle, mentre quello che pratica mia madre è medicina. Anche io lo pratico, ma sempre con monete e cucchiai, come mi ha insegnato mia madre e come si fa in Vietnam, e non con costose pietre di giada o di quarzo rosa. 

Quello che spesso sfugge qui è che queste tecniche—che non si esitano a definire “folkloristiche”—sono antiche tradizioni, passate di generazione in generazione. Ci terrei anche a sollevare un’altra questione: perché la medicina tradizionale cinese gode di buona nomea mentre la medicina tradizionale africana è vista in termini denigratori? 

Trovi che in Italia il tuo approccio alla decolonizzazione della bellezza sia compreso?
Allora, penso che sia prima di tutto molto importante rendere chiaro che l’espressione “decolonizzare la bellezza” NON DEVE diventare l’ennesimo hashtag o uno slogan mercificato e trendizzato.

Ciò detto, credo che questo discorso sia naturalmente compreso da coloro che stanno facendo un percorso attivo di antirazzismo, in quanto penso (e spero) che sia naturale giungere a questo tipo di conclusioni. Eppure questo discorso non è compreso da tutti.

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Ti faccio un esempio: è capitato che nella fase embrionale di Opera Zero, quando ho condiviso con i miei collaboratori il desiderio di parlare apertamente di antirazzismo e decolonizzazione—valori per me inscindibili dall’azienda—la risposta di alcuni sia stata: “Non possiamo creare imbarazzo e disagio nella gente [intendendo bianca].”

Questa risposta è giunta da persone bianche che si definiscono non razziste, e la differenza sostanziale è proprio qui: essere realmente antirazzisti richiede a una persona di fare i conti con il privilegio che deriva dall’essere bianchi e di riconoscere come il proprio aspetto—ad esempio il colore della pelle, la forma del naso, il tipo di capelli—sia considerato la norma. Crescita e cambiamento avvengono attraverso il disagio, del resto.

Secondo te, i canoni occidentali influenzano le donne italiane di origine asiatica? 
Non penso di poter rispondere per tutte, non siamo un blocco monolitico e l’esperienza dei canoni occidentali sui nostri corpi ha sicuramente un impatto diverso in base alla persona, al vissuto, all’ambiente circostante e all’approccio soggettivo di fronte a determinate dinamiche sociali e di stereotipi razzisti.

Posso però parlare per me: da adolescente ho spesso invidiato la perfetta rappresentazione dei canoni estetici europei di alcune mie coetanee, ma al contempo sono anche stata gelosa della pura bellezza vietnamita di alcune mie cugine. La verità è che ho bramato la ‘purezza’ fisica e non potendola ottenere ho ricercato una ‘purezza’ culturale. Ecco perché a un certo punto dissi a mia madre, con estrema rabbia, di smettere di parlarmi in vietnamita, perché io le avrei solo risposto e parlato in italiano. Oggi, a 35 anni, sto ricercando le radici perse lungo il cammino e continuo a pensare che le identità delle persone appartenenti a comunità marginalizzate debbano avere una rappresentazione corretta e dignitosa nei media e nel linguaggio. 

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Pensi che le community e i brand che si occupano di beauty capiscano questa necessità? E le persone? 
In questi mesi diversità e inclusività sono diventate parole fondamentali per molti brand e aziende. Questo, certo, permette più rappresentazione, tuttavia bisogna chiedersi: come viene fatto? È puro tokenismo? Un feed Instagram apparentemente inclusivo e fitto di collaborazioni con influencer di colore non è sinonimo di antirazzismo—come, più in generale, un femminismo neoliberista che non si preoccupa di giustizia sociale e razziale e di diritti di persone transgender non è un buon alleato.

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Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza tradurrà concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cercherà di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza sarà anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.

Nadeesha UyangodaNathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.

Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.